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venerdì 29 luglio 2011

la strada di Swann

Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera.
A volte, non appena spenta la candela, mi si chiudevan gli occhi cosí subito che neppure potevo dire a me stesso: "M’addormento".
E, una mezz’ora dopo, il pensiero che dovevo ormai cercar sonno mi ridestava; volevo posare il libro, sembrandomi averlo ancora fra le mani, e soffiare sul lume; dormendo avevo seguitato le mie riflessioni su quel che avevo appena letto, ma queste riflessioni avevan preso una forma un po’ speciale; mi sembrava d’essere io stesso l’argomento del libro: una chiesa, un quartetto, la rivalità tra Francesco primo e Carlo quinto.
La convinzione sopravviveva per qualche attimo al mio risveglio, e non offendeva la mia ragione, ma mi pesava sugli occhi come scaglie, ed impediva loro di rendersi conto che la candela non era piú accesa. Poi cominciava a farmisi inintelligibile, come i ricordi di un’esistenza anteriore dopo la metempsicosi; il contenuto dei libro si staccava da me, ero libero di pensarci o non pensarci; subito ricuperavo la vista ed ero assai stupito di trovare intorno a me un’oscurità dolce e riposante per i miei occhi, ma forse piú ancora per l’animo mio, al quale essa appariva come una cosa senza causa, incomprensibile, come una cosa veramente oscura. Mi domandavo che ora potesse essere; sentivo il fischio dei treni, che, piú o meno lontano, come il canto di un uccello in una foresta, segnando le distanze, mi descriveva la distesa della campagna deserta, dove il viaggiatore s’affretta verso la stazione vicina; e il viottolo ch’egli percorre gli resterà impresso nel ricordo dall’eccitazione che gli dànno dei luoghi nuovi, degli atti insoliti, i recenti discorsi e l’addio sotto una lampada estranea che lo seguono ancora nel silenzio della notte, la prossima dolcezza del ritorno. Appoggiavo teneramente le gote alle belle gote del guanciale, piene e fresche come quelli della nostra infanzia. Accendevo un fiammifero per guardar l’orologio. Mezzanotte fra poco. E’ il momento in cui il malato che abbia dovuto mettersi in viaggio e dormire in un albergo sconosciuto svegliato da una crisi, si rallegra al vedere sotto la porta una riga di sole. Che gioia, è già mattina! Tra un minuto i servi si alzano, potrà suonare il campanello, verranno a dargli aiuto. La speranza del conforto gli dà coraggio nella sofferenza. Ecco, proprio gli è parso di sentire un rumore di passi: i passi s’avvicinano, poi s’allontanano. E la riga di sole sotto la sua porta è scomparsa. E’ mezzanotte; hanno appena spento il gas; l’ultimo cameriere se n’è andato e bisognerà passare la notte a soffrire senza rimedio. [...] La mia sola consolazione, quando salivo per coricarmi, era che la mamma venisse a darmi un bacio non appena fossi stato a letto. Ma quella buonanotte era di cosí breve durata, ella ridiscendeva cosí presto, che il momento in cui la sentivo salire, poi quando passava nel corridoio a doppia porta il rumore leggero della sua veste da giardino di mussola azzurra, dalla quale pendevano cordoncini di paglia intrecciata, era un momento per me doloroso. Annunciava quello che l’avrebbe seguito, in cui mi avrebbe lasciato, e lei sarebbe ridiscesa. Di modo che quella buonanotte che mi era cosí cara, giungevo a desiderare che venisse il piú tardi possibile, perché si prolungasse l’intervallo in cui la mamma non era ancora venuta. Qualche volta, quando, dopo avermi baciato, ella apriva la porta per andarsene, volevo chiamarla indietro, dirle: "Dammi ancora un bacio" ma sapevo che subito ella avrebbe fatto il viso scuro, giacché la concessione che faceva alla mia tristezza e alla mia agitazione salendo ad abbracciarmi, portandomi quel bacio di pace, irritava mio padre, che riteneva assurdi quei riti, ed ella avrebbe voluto procurare di farmene perdere la necessità, l’abitudine, ben lungi dunque dal lasciarmi prendere quella di domandarle, quando già fosse sulla soglia della porta, un bacio di piú. Ora, vederla adirata distruggeva tutta la calma che ella m’aveva portato un attimo prima, quando aveva chinato sul mio letto il suo volto amoroso, e me l’aveva teso come un’ostia per una comunione di pace a cui le mie labbra attingessero la sua presenza reale e il potere di addormentarmi. [...] Cosí è per il passato nostro. E’ inutile cercare di rievocarlo, tutti gli sforzi della nostra intelligenza sono vani. Esso si nasconde all’infuori dei suo campo e del raggio d’azione in qualche oggetto materiale (nella sensazione che ci verrebbe data da quest’oggetto materiale) che noi non supponiamo. Quest’oggetto, vuole il caso che lo incontriamo prima di morire, o che non lo incontriamo. Erano già molti anni che di Combray tutto ciò che non era il teatro e il dramma del coricarmi non esisteva piú per me, quando in una giornata d’inverno, rientrando a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di prendere, contrariamente alla mia abitudine, un po’ di tè. Rifiutai dapprima, e poi, non so perché, mutai d’avviso. Ella mandò a prendere una di quelle focacce pienotte e corte chiamate "maddalenine", che paiono aver avuto per stampo la valva scanalata d’una conchiglia di san Giacomo.....

Marcel Proust

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