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sabato 31 dicembre 2011

Lady sings the blues di Stefano Benni

Negra? Non si vede?
Cantante? Ascoltami e vedrai
Puttana? Sì, ho fatto anche quello
E bevo anche come quattro uomini
Non mi fai paura, ho suonato in posti peggiori di questo
In bar di cow boys nel sud dove mi sputavano addosso
In una città dove il giorno stesso avevano linciato un nero
A New Orleans dove un diavolo alla moda
Ogni sera mi regalava fiori di droga
E a Chicago mi innamorai di un trombettista sifilitico
E all’uscita del night mi hanno spaccato la bocca
Sotto la pioggia da una stazione all’altra
Lady sings the blues

Negra? Sì, ma ci sono abituata
Cantante? Canto come una gabbia di uccelli
Note gravi e alte, e tutto il repertorio
Posso svolazzare come quelle belle cantanti dei film
E poi posso piantarti una ballata nel cuore
Vuoi strange fruit? Vuoi midnight train?
Posso cantartela anche da ubriaca
O con un coltello nella schiena
O piena di whisky e altro, perché sono una santa
E il mio altare è nel fumo di questo palco
Dove Lady sings the blues

Negra? Negra e bellissima, amico
Cantante? Non so fare altro
Puttana? Beh sì ho fatto anche quello
E bevo come quattro uomini
Non toccarmi o ti graffio quella bella bianca faccia
Posate il bicchiere, aprite quel poco che avete di cuore
State zitti e ascoltate io canto
Come se fosse l’ultima volta
Fate silenzio, bastardi e inchinatevi
Lady sings the blues

E quando tornerete a casa dite
Ho sentito cantare un angelo
Con le ali di marmo e raso
Puzzava di whisky era negra puttana e malata
Dite il mio nome a tutti, non mi dimenticate
Sono la regina di un reame di stracci
Sono la voce del sole sui campi di cotone
Sono la voce nera piena di luce
Sono la lady che canta il blues
Ah, dimenticavo... e mi chiamo Billie
Billie Holiday

Caccia al fagiano - monologo di Stefano Benni


La grande bara nera è in viaggio verso la piccola operosa annoiata città del Nord. Ha attraversato un’autostrada contornata da mostri, grandi astrofabbriche roventi, ossari di macchine morte, getti di vapore denso che sale al cielo in ovatte nucleari.
Ha percorso la tangenziale tra Pornomotel, Polimarket, Bigdiscount, Paradisi del mobile e Versailles del lampadario, macropizzerie e discoteche da dodicimila anime. Ora, passando sotto un arco antico intralicciato e impacchettato, imbocca una stradina di elegante pavé, dove il traffico è consentito solo ai residenti, ma la grande bara appartiene appunto a un residente, è un fuoristrada alto e molleggiato come un carro funebre, nerolucido, argentocromo e fiamme rosse sulla fiancata. Dietro i vetri cilestrini, galleggiano due creature: una Sfinge bionda con occhiali neri, il volto di madonna reclino su un cellulare, e un Colonnello con giaccone di cuoio, sguardo da pole-position, capelli lucenti di gel, come appena uscito dalla piscina.
La superbara, ronzando col motore tremila al minimo, entra in una piazzetta bianca, adorna di colonnine finto qualchecento. Sfila davanti al teatro della città, un gioiellino color mascarpone, settanta serate all’anno di cui la metà dedicate a telecomici e pirandelli. Più avanti c’è la pasticceria famosa per i Cazzi del Vescovo (dolce locale di antica tradizione), che ha ai lati una raffinata boutique e un nazional-pulloverario appartenenti allo stesso proprietario ma con diversi target. Davanti a loro si profila la meta, il pianobar, ritrovo notturno prediletto degli abbienti locali. Si chiama Exploit, l’insegna è un corsivo di neon incorniciato di rose, un portone blindato segnala la preziosità della clientela. Nella piazzetta sono posteggiate altre due superbare, una Gialla, dorata, da funerale di Cleopatra, con adesivi di carburatori, l’altra Verde smeraldo con tracce di fango e poltiglia vegetale che testimoniano la sua attitudine a percorsi guerreschi. Ci sono poi varie supermoto, inclinate sui cavalletti, insettoni con batterie di occhi bianchi e gialli, ruote obese, antenne cromate. E c’è, proprio in mezzo, una bicicletta rosa, mascotte tra i mostri, con due borsine in tinta da cui sbucano in bella vista i quotidiani preferiti dai frequentatori del pianobar, e cioè un foglio locale di fede vandeana e un grande quotidiano regimista, appartenenti allo stesso proprietario ma con diverso target.
La Sfinge scende, scuotendo la chioma bionda: è alta, magra, guainata in una gibaud di cuoio che valorizza le lunghe gambe in collant indaco-cianotico. Ai polsi fibrillano ori in quantità, al collo pende una bulla contenente diazepine.
Il Colonnello ha una mazzetta di braccialettini al polso e un lizardo aureo sul giaccone. Cammina scricchiolando, per via dei pantaloni di cuoio molto aderenti e rigonfi sull’inguine per suggerire esubero di contenuto, sia esso mutanda a sospensorio, vero cazzo umano o succedaneo truffaldino quale calzino arrotolato.
Il Colonnello si passa la mano tra i capelli, ritirandola unta di gel, si gratta il mento, mescola gel e dopobarba in giusta dose e pulisce il tutto all’interno di una tasca foderata alla bisogna. Afferra un avambraccio della Sfinge, acciocché entrando nel pianobar sia chiaro che è roba sua. La Sfinge lo trascina procedendo altera con abile derapata dei tacchi sull’acciottolato. Suonano un campanello bitonale e il portone magico si apre, occupato per intero da un Carnera borchiato e deferente.
Musica, voci, odor di alcol, sughi e profumi. Il loro tavolo è in fondo, oltre il bancone curvilineo d’alabastro e la pedana di Vittorio uomorchestra. Li salutano le bariste in gilè e tette lampadate, li salutano il barman Nando e il gestore Michel e poi Vittorio che mixa le sue tastiere cibernetiche nel successo del momento.
Sorvolano, senza togliersi gli occhiali neri, tavoli con coppie e quartetti. Ai loro saluti gaiamente rispondono altre sfingi e altri colonnelli abbandonati sui divanetti. E’ un mondo dolce e spietato, rolex e gel, mousse e chela, il duro dell’oro e il molle delle spezie, il seducente contrasto che Antonio incontrò alla corte egizia.
Eccoli al loro tavolo, ove sono attesi da altre due coppie. La prima comprende un lui enorme con un ettaro di jeans, una cintura borchiata con intero rodeo scolpito, e una giacca color salmone, lo stesso colore del volto paonazzo, venoso, strapazzato dai gintonici, ornato da una chevelure formata sul davanti da rari peletti in vacuità caseiforme, sul retro da una coda di cavallo biondo-perossidata.
L’altro corno della coppia è una lei, nera come un tizzone spento, stretta in un body aerobico da cui deborda spavaldo un seno siliconato.
Chiameremo lui (il coda-di-cavallo) il Bufalo, e lei (le tette) la Sintetica.
Poi c’è l’altra coppia, lui coi capelli sale e pepe un po’ selvaggetti, camicia blu aperta sul pelame canescente, stivaletti a punta, sorriso annoiato di chi lì dentro e là fuori le ha scopate tutte. Lei, al suo fianco, è funebre, mora, coi capelli fino alla vita, un miliardo di anelli alla destra e una pochette di alligatore da cui estrae ogni tanto un rossettino viola per ricaricare le labbra. Scoscia fiera, mostrando le trine dell’autoreggente, il marito la guarda lievemente censorio, lei scoscia ancora di più e sorride a Vittorio uomorchestra come a dire: ebbene sì, a te certo non la do ma a chi ne è degno sì. Li chiameremo lui il Maliardo, lei la Chiacchierata.
Ecco il Colonnello e la Sfinge. Lui si toglie gli occhiali neri e tasta cameratescamente le palle al Bufalo, il Bufalo gli risponde con alcuni gai fanculi. Lei invece si siede davanti alla Chiacchierata, ne considera con invidia le gambe, poi punta il Maliardo e si toglie di colpo gli occhiali. Ha due occhi azzurri da cane polare, truccati pesante, e neanche una ruga, tutto rimesso a nuovo, cosa credi, cara la mia troia scosciata, non sei la sola a predare nell’universo.
Vittorio uomorchestra cuce basi, incolla ritmi e computerizza un mélange melodioso su cui inserisce una vocetta angelica.
— Che sia frocio ? — rileva il Maliardo.
— Certo che è frocio — dice Bufalo, stritolando le patatine — tutti quelli che cantano nei pianobar sono froci, e anche i parrucchieri, i ballerini, i cavallerizzi, gli steward, i pacifisti...
Vittorio canta:
“Forse vuoi un uomo vero
e io son solo un sognatore...”
— Vedi? — ridacchia il Bufalo. E’ passata l’una, le tre coppie si sono già introdotte vari gintonici e ora crocidano e sparlicchiano, si chiedono perché quella sta ancora con quello e perché quello ancora non s’è sparato. Il Maliardo sbuffa, cerca con lo sguardo inox qualche giovinetta da puntare, ma il massimo del panorama è una cicciottella con un fidanzato capello corto e giacca viola, genere commercialista-skinhead che magari si incazza. La Chiacchierata ammazza di scosci un veterinario sua antica fiamma, che la divora da lontano. Bufalo parla dei comunisti e di come ce n’è ancora tanti, anche se lì dentro hanno bonificato. La Sintetica beve come un vaso di fiori e ripete, però che sera smorta, salutando con la manina Vittorio uomorchestra che in cambio non le dedica un cazzo. Ora il Colonnello e la Sfinge litigano per motivi di chèques, lui si incazza e va a parlare con un suo sosia seduto tre tavoli più in là, pietrificato con un agnolotto appeso alla forchetta.
Vittorio uomorchestra fa pausa. Salgono alti i chiacchiericci, il tintinnare di ori e boccali, le risate spavalde e uno stereo di giovanaglia che bombarda bassi dalla vicina piazza.
— Oh basta, sapete che vi dico? — erompe improvviso il Maliardo — stasera non voglio annoiarmi: propongo un’altra caccia al fagiano.
— Oh no, ti prego — dice la Sintetica — avevamo detto non più di una volta al mese.
— Hai paura eh, vecchia? — ride il Bufalo, strizzandole una tetta nella mano.
— No, ma è rischioso — dice la Sintetica.
— Macché rischioso — protesta il Maliardo, già in calore — ormai siamo degli esperti. Ehi, Antonio!
Il Colonnello Antonio, dal tavolo degli agnolotti ruota il capo come un gufo. Il Maliardo gli mima curve a tutta birra. Il Colonnello si avvicina con l’occhio lustro.
— Stasera?
— Stasera. Però stavolta ci giochiamo dei soldi — dice il Maliardo — un milione per equipaggio e chi vince se li cucca tutti e tre.
— Cosa c’entrano i soldi? — dice la Chiacchierata — si fa per divertimento o cosa?
— E io invece voglio giocare a soldi — dice il Maliardo, togliendole il bicchiere di mano e vuotandolo, già mezzo sbronzo.
— Ci sto — dice il Bufalo — solito sistema?
— Solito — dice la Sfinge, e tira fuori dalla borsetta un piccolo dado. — Chi fa il punto più alto sceglie il terreno di caccia. — Tira il dado e fa due. Il Maliardo fa quattro.
— Troppo facile — ride il Bufalo. Tira, fa uno, e ci aggiunge un porcodio a chiosa.
— Tocca a noi scegliere per primi — dice il Maliardo — prendiamo la stazione.
— Allora noi andiamo alla tangenziale — dice il Colonnello.
— E noi alle case-dormitorio — dice il Bufalo — anche se nessuno ha mai vinto lì, non si becca niente...
— Stavolta magari va meglio — dice la Sintetica benaugurante.

Le tre superbare sono partite contemporaneamente.
La prima ad arrivare alla meta è quella del Colonnello. La tangenziale è semibuia e non si vede anima viva. Solo alcuni autotreni austroungarici assopiti nell’area di parcheggio.
— Niente — dice la Sfinge — forse dobbiamo andare più vicino ai camion.
— Brava, così ci vedono. Dai retta a me. L’ultima volta abbiamo vinto, no?
— Certo, ma sono stata io ad attirare il fagiano, ricordi?
Lui le infila una mano tra le cosce, con un sorrisetto da pornoattore. Tira fuori dal cruscotto un binocolo. Guarda la strada, dove c’è una fila di cartelloni pubblicitari.
— Macché, niente selvaggina — dice. Si accende una sigaretta, si rilassa sul sedile, la superbara a fari spenti è quasi invisibile.

Dall’altro lato della città, dentro la superbara dorata, il Bufalo scuote la coda sconsolato. La viuzza squallida, piena di cassonetti sventrati, è desolatamente vuota.
— Qua non vinceremo mai.
— È questione di fortuna — dice la Sintetica — magari sono tutti a dormire, ma se ne troviamo uno, non ci scappa.
— Vai a mettere l’esca — ordina il Bufalo.
Lei tira fuori dalla borsetta un biglietto da centomila e sta per aprire la portiera.
— Ma che cazzo fai? — dice lui — e chi lo vede un centone con questo buio? Mettici una collana.
— Eh no, ne ho già persa una l’altra volta. Ci metto i soldi. Oppure non ci metto niente che è meglio, l’altra volta non ho dormito due notti.
— I soliti discorsi del cazzo — dice il Bufalo con una smorfia.
— Ma hai pensato... che ne so, ai figli?
— Certo. I nostri sono in montagna no? Allora chi se ne frega?
— Sei una bestia — dice lei, ed esce ballonzolando incerta sui tacchi.

Intanto la Chiacchierata sta proprio in mezzo alla strada, alta e nera, si sfila un braccialetto e lo posa sull’asfalto. Dietro a lei, la stazione è appena illuminata, l’ultimo treno parte tra pochi minuti. Il Maliardo le fa segno di spostare il braccialetto sotto la luce del fanale, là dove brillerà. Perfetto, bella, adesso non ci resta che aspettare. La Chiacchierata rientra nell’auto ansimante, si rifà il trucco.
— Niente telefonate dagli altri? — chiede.
— No.
— Allora vinciamo noi. Tra un po’ arriva di sicuro qualche fagiano. E’ l’ultimo treno. Nasconditi bene, qua ci possono notare.
— Non ci vedono — dice sicuro il Maliardo — sono coperto dal cartellone pubblicitario. Ho controllato. Non faccio mai niente a caso.
Squilla il cellulare.
— Cristo, c’hanno fregato — ringhia il Maliardo — pronto?
— Come va? — chiede annoiato il Bufalo — qua neanche l’ombra di un fagiano.
— Non devi telefonare! — dice iroso il Maliardo — conosci le regole. Si telefona solo quando si colpisce. Il cellulare fa rumore e li allarma. E poi sto guardando la strada, sono concentrato.
— Sei quello che ci gode più di tutti eh, Antoniuccio? — trilla in secondo piano la voce della Sintetica.
— Eccone uno — sussurra la Chiacchierata — spegni quel telefono.
— Santo Dio che fagiano — dice lui eccitato — quasi due metri. Ed è anche bello colorato. Guarda che livrea gialla.
— Vinciamo — dice lei — stavolta vinciamo.
— Porca miseria, ce n’è un altro vicino.
— Non lo vedo...
— C’è, c’è, è dietro la panchina. Ha una valigia, sta parlando col primo.
— Che facciamo se sono due? Proviamo ugualmente?
— Sicuro — e il Maliardo stringe forte il volante — smonto la targa e vado lo stesso. Vogliamo vincere o no?
— Aspetta! Se ne va, guarda, l’altro se ne va verso la stazione e il fagiano resta solo sulla panchina.
La Chiacchierata si morde le labbra. Lui sta con la mano pronta sulla chiave dell’accensione.
— L’ha visto — dice lei — ha visto il braccialetto...
— Eccome! Si sta guardando intorno per vedere se è solo. Dài, di cosa hai paura, muoviti testa di cazzo, è un vero braccialetto d’oro dài, vai a prenderlo in mezzo alla strada, becca il mangime, dài...
— Si è avvicinato. Sta per prenderlo — dice piano la Chiacchierata. Il Maliardo mette in moto al minimo. A fari spenti sbuca dietro il cartellone. Il motore della superbara romba piano, come un respiro di leone, la preda è là in mezzo alla strada, china, incredula, esamina il braccialetto, sembra proprio d’oro. All’improvviso sente il rumore dell’accelerata, gli esplodono in faccia quattro fari abbaglianti, resta immobile un momento, fanno tutti così, all’inizio non ci credono. Vede la superbara piombargli addosso, cerca di evitarla. E’ rapido, ma non basta, viene centrato in pieno a due metri dal marciapiede, vola in aria col suo bel vestito colorato, le collanine, le musicassette, gli accendini, tutto si sparge intorno, continua a rotolare e rimbalzare mentre la superbara è già lontana, verso le luci del centro.
— Preso! — grida trionfante il Maliardo nel cellulare. — Se qualcuno vuole controllare, il fagiano per un po’ non si muove di lì!

Sono le tre di notte. Il capitano Feletti della Stradale sbadiglia appoggiato alla Pantera, mentre i suoi ragazzi fanno i disegnini col gesso. Tra le mani ha il documento del fagiano, un passaporto sgualcito. Sul cofano della Volante sono sparpagliati accendini, collane, fazzoletti colorati e un braccialetto d’oro, sicuramente rubato. Il capitano prende un accendino, lo prova, si accende una sigaretta. Parla con la Centrale.
— Si chiamava Yoissoun N’Daye, trent’anni, senegalese... mi controllate se ha il permesso di soggiorno?
— Un altro di quelli? — risponde una voce. — Ma è il terzo in pochi mesi.
— E io cosa ci posso fare? — sbadiglia il capitano.
— Ma insomma è strano... tutti e tre investiti in mezzo alla strada. Prima quella puttana somala sulla tangenziale. Poi il mese scorso, quasi nello stesso punto di stasera, il tunisino.
— Ubriachi — dice il capitano — vengono in città a bere, si ubriacano come bestie e poi si fanno mettere sotto.
— E gli investitori non si fermano mai?
— Tu ti fermeresti? — chiede il capitano.
La radio gracchia. Un telo bianco copre il lungo corpo del fagiano, il caffetano giallo insanguinato. Una mano esce dal telo, magra e scura, l’agente la ricaccia sotto con una pedata. Il capitano vede arrivare un fuoristrada giallo oro con dentro l’architetto Bassani, detto Bufalo, con signora Bufalessa. Si fermano, incuriositi.
— Un incidente? — chiede lui — grave?
— Un extracomunitario. Investito in mezzo alla strada, a tutta velocità. Secco sul colpo.
— E chi è stato?
— E che ne so — dice il capitano — mica si è fermato. Lei si fermerebbe?
— Mamma mia — commenta la Sintetica — com’era alto.
— Non deve essere stato difficile da centrare — dice il Bufalo.
Il capitano lo guarda un attimo perplesso, poi ridacchia anche lui. Gira attorno all’auto gialla con l’aria da intenditore.
— Gran macchine questi fuoristrada. Tremila di cilindrata, vero?
— Sì. L’ha mai provata?
— Mai — dice il capitano. — Mi piacciono, ma sono troppo pericolose. Con quella ripresa, sono come elefanti che caricano. E così silenziose! Neanche si sentono arrivare.
— Eh già — dice roca la Sintetica. Il cuore le batte forte. Ha visto che il capitano ha in mano il braccialetto della Chiacchierata. Neanche si sono ricordati di riprenderlo, quei coglioni.
Il capitano glielo mette sotto il naso.
— Cosa ne dice, è vero secondo lei?
— Mah — balbetta la Sintetica — non saprei... fanno delle imitazioni così perfette che...
— Secondo me è vero — dice il capitano, guardandola fissa negli occhi. — Chissà dove l’ha rubato. Beh, il reato è estinto, amen.
Gira attorno al fuoristrada, passa la mano sulla carrozzeria dorata, su un parafango appena rifatto.
— Ma ditemi — sospira — cosa ci fate tutta notte in giro con queste macchinone?
— Vede — dice il Bufalo — ci si annoia tanto qua. Cerchiamo di divertirci un po’.
— Vi capisco — dice il capitano pensieroso. — Anch’io mi annoio tanto. Una di queste sere, sapete cosa faccio?
I due lo guardano incerti.
— Vengo a fare un giro con voi — sorride il capitano.
La sirena blu dell’ambulanza ruotando colora i loro volti di una luce fredda. Lontano, qualcuno si è messo a gridare.

 Da “L’ultima lacrima”, ed. Feltrinelli 1994 )

Io mi chiamo G.


- Io mi chiamo G.
- Io mi chiamo G.
- No, non hai capito, sono io che mi
chiamo G.
- No, sei tu che non hai capito, mi
chiamo G anch’io.

- Ah, Il mio papà è molto importante.
- Il mio papà… no.

- Il mio papà è forte, sano e intelligente.
- Il mio papà è debole, malaticcio… e un po’ scemo. 
 
- La mia mamma è molto bella assomiglia a Brigitte Bardot.
- La mia mamma è brutta… bruttissima. La mia mamma assomiglia a… la mia mamma non assomiglia!
 
- Il mio papà ha tre lauree e parla perfettamente cinque lingue.
- Il mio papà ha fatto la terza elementare e parla in dialetto. Ma poco, perché tartaglia.

- Io sono figlio unico e vivo in una grande casa con diciotto locali spaziosi.
- Io vivo in una casa piccola, praticamente un locale. Però c’ho diciotto fratelli!

- Il mio papà è molto ricco guadagna 31 miliardi al mese che diviso 31 che sono i giorni che ci sono in un mese, fa un miliardo al giorno.
- Il mio papà è povero: guadagna 10.000 al mese che diviso 31 che sono i giorni che ci sono in un mese fa… circa… 10.000 al giorno!!! …al primo giorno. Poi dopo basta.
- Noi siamo ricchi ma democratici. Quando giochiamo a tombola segniamo i numeri con i fagioli.
- Noi, invece, segniamo i fagioli con i numeri. Per non perderli.

- Il mio papà è così ricco che ogni anno cambia la macchina, la villa e il motoscafo.
- Il mio papà è così povero che non cambia nemmeno idea.

- Il mio papà un giorno mi ha portato sulla collina e mi ha detto: Guarda! Tutto quello che vedi un giorno sarà tuo.
- Anche il mio papà un giorno mi ha portato sulla collina e mi ha detto: guarda!
Basta.
 
Giorgio Gaber

Enrico V - discorso sulla battaglia di San Crispino


ENRICO:
Chi è mai che desidera questo?
Mio cugino Westmoreland?
No, mio caro cugino.
Se è destino che si muoia, siamo già in numero più che sufficiente;
e se viviamo, meno siamo e più grande sarà la nostra parte di gloria.
In nome di Dio, ti prego, non desiderare un solo uomo di più.
Anzi, fai pure proclamare a tutto l’esercito che chi non si sente l’animo di battersi oggi, se ne vada a casa:
gli daremo il lasciapassare e gli metteremo anche in borsa i denari per il viaggio.
Non vorremmo morire in compagnia di alcuno che temesse di esserci compagno nella morte.
Oggi è la festa dei Santi Crispino e Crispiano; colui che sopravviverà quest’oggi e tornerà a casa,
si leverà sulle punte sentendo nominare questo giorno, e si farà più alto, al nome di Crispiano.
Chi vivrà questa giornata e arriverà alla vecchiaia, ogni anno alla vigilia festeggerà dicendo:
"Domani è San Crispino";
poi farà vedere a tutti le sue cicatrici, e dirà:
"Queste ferite le ho ricevute il giorno di San Crispino".
Da vecchi si dimentica, e come gli altri, egli dimenticherà tutto il resto, ma ricorderà con grande fierezza le gesta di quel giorno.
Allora i nostri nomi, a lui familiari come parole domestiche – Enrico il re, Bedford ed Exeter, Warwick e Talbot, Salisbury e Gloucester – saranno nei suoi brindisi rammentati e rivivranno questa storia.
Ogni brav’uomo racconterà al figlio, e il giorno di Crispino e Crispiano non passerà mai, da quest’oggi,
fino alla fine del mondo, senza che noi in esso non saremo menzionati; noi pochi.
Noi felici, pochi.
Noi manipolo di fratelli: poiché chi oggi verserà il suo sangue con me sarà mio fratello,
e per quanto umile la sua condizione, sarà da questo giorno elevata,
e tanti gentiluomini ora a letto in patria si sentiranno maledetti per non essersi trovati oggi qui,
e menomati nella loro virilità sentendo parlare chi ha combattuto con noi questo giorno di San Crispino!

W.S.

Pulp Fiction - Discorso del Capitano Koons

"Questo orologio che ho qui fu visto e acquistato dal tuo grande bisnonno durante la Prima Guerra Mondiale. Fu comprato in un negozio di cianfrusaglie a Knoxville, nel Tennessee, prodotto della prima ditta che abbia mai fatto orologi da polso – fino ad allora si portavano solamente orologi da taschino. Sì, è stato comprato dal valoroso patriota Errayn Cooldige il giorno in cui si è imbarcato per Parigi. Il tuo bisnonno aveva questo qua durante la guerra: non se n'è mai staccato fino alla fine dei combattimenti. E dopo aver fatto il suo dovere, tornò a casa dalla tua bisnonna, si tolse l'orologio dal polso, lo mise in un barattolo da caffè ed è lì che è rimasto finché tuo nonno Dane Coolidge non fu chiamato dal suo Paese perché andasse di nuovo a servire la patria. E... era la Seconda Guerra Mondiale questa volta. Il tuo bisnonno ha dato quest'orologio a tuo nonno per buona sorte. Sfortunatamente, a Dane è andata peggio che al suo vecchio padre. Lui era un marine ed è rimasto ucciso con tutti gli altri marines nella battaglia di Wake Island. Tuo nonno stava affrontando la morte: lui lo sapeva. Nessuno di loro poteva illudersi che avrebbe mai lasciato quell'isola da vivo. Così, tre giorni prima che i giapponesi prendessero l'isola, tuo nonno chiese a un artigliere addetto all'aviazione militare, di nome Winacki, un uomo mai visto prima in vita sua, di consegnare al suo figlioletto da lui mai visto in carne ed ossa, il suo orologio d'oro. Tre giorni dopo tuo nonno rimase ucciso, ma Winacki mantenne la sua parola. Alla fine della guerra, andò a fare visita a tua nonna, per consegnare a tuo padre, bambino, l'orologio d'oro del suo papà: quest'orologio. Tuo padre l'aveva ancora al polso quando è stato abbattuto sopra Hanoi. L'hanno catturato e messo in un campo di prigionia vietnamita. Sapeva che se quelli avessero visto il suo orologio gliel'avrebbero confiscato, eh, portato via. Per come la vedeva tuo padre, quest'orologio era tuo di diritto, che fosse dannato se quei musi gialli mettevano le manacce sui beni di suo figlio. Così l'ha nascosto nel solo posto dove sapeva di poterlo fare: nel sedere, per cinque lunghi anni ha tenuto l'orologio infilato nel sedere. Poi è morto di dissenteria, mi ha dato l'orologio. Ho nascosto questo scomodo pezzo di metallo nel sedere per due anni. Poi, finalmente, sono stato rimandato a casa dalla mia famiglia. Adesso, giovanotto, consegno a te l'orologio."

Il naufragio di un matrimonio - monologo di Woody Allen


Vorrei parlarvi del mio matrimonio, che non ha nulla da invidiare al
naufragio dell'Andrea Doria. Sì, la mia vita coniugale è stata un inferno.
Fatto sta che mia moglie era una donna molto immatura, non aggiungo altro.
Basti questo episodio, a riprova della sua immaturità. Io sto facendo il
bagno, nella vasca, e lei entra quando le pare, senza neanche chiedere
permesso, e mi affonda le barchette.
In parte però è colpa mia, se abbiamo divorziato. Ho sempre avuto, nei
suoi confronti, un atteggiamento schifoso. Durante il primo anno di
matrimonio, tendevo a porre mia moglie sotto un piedistallo.
Siamo stati un bel pezzo a litigare, a scannarci, e alla fine abbiamo
deciso che sarebbe stato meglio prenderci una vacanza o divorziare. Ne
abbiamo discusso pacatamente, da persone mature, e abbiamo optato per il
divorzio poiché potevamo spendere solo una certa somma. Eppoi, una vacanza
alle Bermuda dura due settimane, laddove un divorzio dura tutta la vita.
Già mi vedo libero di nuovo, abitare nel Village da scapolo, in un
bell'appartamentino con caminetto, soffici tappeti e, alla parete, un buon
Picasso di Van Gogh. Senza contare hostess scatenate, bellissime, che mi scorrazzano intorno.
L'idea mi eccitava moltissimo, e venni dunque al sodo. La misi giù
dura. Le dissi: "Quasimodo, voglio il divorzio".
E lei mi disse: "Va bene, pigliati il divorzio".
Senonché viene fuori che nello Stato di New York vige una strana legge,
per cui non ottieni il divorzio se non fornisci prova di adulterio. Ciò è
bizzarro, poiché uno dei Dieci Comandamenti dice: "Non desiderare la donna
d'altri". Sia come sia, lo Stato di New York ti istiga invece all'adulterio.
Si viene così a creare una sorta di tiro alla fune fra Dio e il Governatore.
Ne conseguiva che uno di noi due doveva per forza commettere adulterio.
Mi offrii volontario io.
Ma quando sei sposato e fuori dal giro, non sono molte le donne che hai
sottomano. L'unica che avevo a tiro era Nancy, la miglior amica di mia
moglie. Quindi le telefonai per chiederle se voleva commettere adulterio
con me. Mi rispose: "Ma neanche a beneficio del Programma Spaziale". Il
che interpretai come un cauto rifiuto.
Andò a finire che fu mia moglie a commetterlo, per me, un adulterio?.
E' sempre stata più incline di me alla meccanica.

Generazione perduta - monologo di Woody Allen

Ero in Europa, tanti anni fa, con Ernest Hemingway. Hemingway aveva appena
scritto il suo primo romanzo e lo diede a leggere a Gertrude Stein e a me.
Gli dicemmo che era un buon romanzo ma non un grande romanzo. Aveva
bisogno di una ripulitina, poi sarebbe potuto passare. Ci ridevamo e
scherzavamo su, e Hemingway mi mollò un cazzotto in bocca.
A quel tempo, Picasso abitava in Rue de Bacque. Una sera l'andammo a
trovare, e aveva appena finito di dipingere un odontotecnico, nudo, nel
deserto del Gobi. Gertrude Stein disse che era un buon quadro ma non un
grande quadro, e ci mettemmo a ridere, e Hemingway mi mollò un cazzotto in bocca.
Mi ricordo quando Scott Fitzgerald e sua moglie Zelda rientrarono da
uno sfrenato veglione di Capodanno. Era aprile inoltrato. Scott aveva
appena finito di scrivere Grandi speranze. Gertrude Stein e io lo leggemmo
e trovammo che era un buon romanzo, ma non c'era bisogno di scriverlo
perché lo aveva già scritto Charles Dickens. Ci ridemmo su e 
Hemingway mi mollò un cazzotto in bocca.
Quell'estate andammo in Spagna a vedere Manolete toreare. Dimostrava
diciotto anni e Gertrude Stein disse che, no, ne aveva diciannove anche se
ne dimostrava diciotto. "Tantevolte", le dissi, "un ragazzo di diciotto
anni ne dimostra diciannove, laddove, tante altre volte, un diciannovenne
può sembrare facilmente un diciottenne, e questo vale particolarmente per
uno spagnolo purosangue". ridemmo su e Gertrude Stein mi mollò un cazzotto in bocca.

la vita mi passò davanti agli occhi - monologo di Woody Allen

Mi trovavo giù al sud, nel Profondo Sud, e fui invitato a una festa in
costume. Accettai volentieri l'invito, era Halloween, e decisi di andarci
travestito da fantasma. Prendo un lenzuolo e mi ci avvolgo tutto. Esco per
andare alla festa. Dovete figurarvi la scena: io che cammino per le strade
d'una cittadina del Profondo Sud con un lenzuolo bianco sulla testa. Si
ferma una macchina, con tre tipi a bordo, avvolti in lenzuoli bianchi, e
uno mi fa: "Sali". Arguii che anche loro andavano alla festa travestiti da
fantasmi. Salii tranquillamente, ma dopo un po' mi accorsi che stavamo
andando da un'altra parte e glielo dissi.
E loro: "Passiamo a prendere il Grande Drago".
D'un tratto mi venne un lampo di genio. Profondo Sud. Lenzuoli bianchi.
Grande Drago. Feci presto a fare due più due quattro. Arguii che un loro
amico stava andando alla testa travestito da drago.
Poco dopo sale a bordo un omaccione e mi rendo conto che quei tipi sono
membri del Ku Klux Klan. Quattro, e ben armati. Lo sportello è bloccato.
Mi pietrifico. Cerco in qualche modo di trarli in inganno, buttando là
qualche parola nel dialetto dell'Alabama. Accanto a me è seduto il capo
del clan - lo si riconosce per via delle lenzuola con gli angoli.
Arriviamo sul luogo di riunione, in aperta campagna, e qui mi tradisco,
purtroppo, perché - quando fanno la colletta e tutti gli altri versano un
contributo in contanti - io dico: "Mi impegno per cinquanta dollari". Mi
sgamarono immediatamente.
Mi tolsero il cappuccio e mi misero un cappio intorno al collo.
Decidono di impiccarmi li per li. Allora tutta quanta la mia vita mi passò
davanti agli occhi. Mi rividi bambino, nel Kansas. Andare a scuola,
sguazzare nel laghetto. Andar giù al fiume a pescare. Andare dal droghiere
a comprare i tarallucci per zia Marta...
A questo punto mi accorgo che non è la mia vita, quella. Stanno per
impiccarmi e una vita fasulla mi sta passando davanti agli occhi.
Allora parlai loro. Fui molto eloquente e dissi: "Ragazzi, questo paese
non può sopravvivere se non ci si ama fraternamente a vicenda,
indipendente mente dalla fede religiosa e dal colore della pelle". Li
commossi talmente, con le mie parole, che non solo mi lasciarono andare
ma, quella sera, vendetti loro Buoni pro Israele per oltre duemila dollari.

Crisi morale - monologo di Woody Allen

Una grossa casa produttrice di vodka voleva fare uno spot di prestigio. Si
erano rivolti in prima istanza a Noel Coward, che però non era
disponibile. Aveva infatti acquistato i diritti di My Fair Lady, dal quale
stava togliendo la musica e le parole per tornare al Pigmalione. Come
arrivarono poi fino a me? Mali, trovarono il mio nome in una lista che
Eichmann aveva in tasca al momento dell'arresto.
Dunque, me ne sto tranquillo a casa, quando squilla il telefono. Una
voce gentile all'altro capo mi dice: "Le piacerebbe essere l'uomovodka di quest'anno?".
Dico: "No. Sono un artista. Non faccio spot. Non reclamizzo. Non bevo
vodka e, se anche la bevessi, non berrei la vostra".
"Che peccato. Era un'offerta da cinquantamila dollari."
"Un momento", gli dissi. "Le passo Woody Allen"
Così, entrai in crisi. Una crisi morale. Dovevo far pubblicità a un
prodotto che non usavo? Questo era il dilemma. Io non bevo, il mio
organismo non tollera alcolici. Avevo bevuto due martini a Capodanno, e
poi avevo cercato di dirottare un ascensore su Cuba.
In passato, quando avevo problemi del genere, consultavo il mio
psicanalista. Ciò è di dominio pubblico. A lungo sono stato in analisi.
Una terapia rigorosamente freudiana. Il mio analista è morto due anni fa e
io non me ne sono mai reso conto.
Adesso, quando ho scrupoli di coscienza, mi rivolgo al mio consigliere
spirituale - che nella fattispecie è un rabbino. Gli telefonai dunque, gli
esposi il caso e lui mi disse: "Non farlo, perché è immorale
pubblicizzare, a scopo di lucro, un prodotto che tu non usi".
Okay, rinunciai allo spot. Mi ci volle un bel coraggio, devo dire,
perché ero scannato, a quel tempo. Stavo scrivendo avevo bisogno di denaro
per essere creativamente libero. Stavo lavorando a una versione
cinematografica del Rapporto Warren.
Un mese dopo, sfoglio le pagine della rivista Life e mi cadono gli
occhi su una foto di Monique Van Buren in bikini su una spiaggia di
Trinidad, e accanto a lei, con una vodka fresca in mano, c'è il mio rabbino.
Allora gli telefono, lui prima tergiversa, poi quello che vien fuori è
questo: vuol buttarsi nel mondo dello spettacolo. Era già apparso in
televisione, per recitare una preghiera, e aveva cantato il Salmo
Ventesimo-Terzo, improvvisando da un certo punto in poi. Gli era stato
chiesto, dal presentatore, di elencare i sette peccati mortali ma lui si
era impappinato e aveva elencato invece i setti nani. Adesso apre una
discoteca, insieme ad alcuni suoi colleghi: i Rabbini in topless - cioè
senza zucchetto in testa.

A caccia di alci - monologo di Woody Allen

Questa è assolutamente da non credere. Abbattei un alce, un giorno. Andavo
a caccia, su, verso il confine col Canada, e abbattei un alce. Lo lego al
parafango, e via. Me ne torno a New York, sull'autostrada. Però non mi ero
accorto che l'avevo colpito di striscio: l'alce era solo tramortito. Alle
porte di New York comincia a riprendere conoscenza. Eccomi dunque a
viaggiare con un alce vivo sul parafango, laddove c'è una legge nello
Stato di New York che lo vieta espressamente - di viaggiare con un alce
vivo sul parafango - il martedì, il giovedì e il sabato. Vengo preso dal panico.
Allora mi sovviene che un mio amico dà una festa in costume, quella
sera. Prendo una decisione: vado e ci porto l'alce. L'imbuco e me ne lavo
le mani. Detto e fatto. Arrivo e busso alla porta con l'alce appresso. Il
padrone di casa ci accoglie sulla soglia. "Ciao", gli faccio, "ho portato
anche mia moglie". Entriamo. L'alce socializza subito. Non se la cava mica
male. Tanto più che un tale cerca, con una certa insistenza, di vendergli
una polizza d'assicurazione.
A mezzanotte c'è la premiazione per i costumi più belli. Vincono il
primo premio i coniugi Berkowitz, travestiti da alce. L'alce arriva
secondo. Come monta su tutte le furie! Lui e i coniugi Berkowitz si
prendono a cornate, li, in salotto. Si tramortiscono a vicenda.
Ecco, dico fra me, il momento opportuno. Acchiappo l'alce, lo lego al
parafango e via - torno nei boschi. Senonché ho agguantato i coniugi
Berkowitz. Ed eccomi a viaggiare con due ebrei sul parafango. Laddove vige
una legge nello Stato di New York, per cui ciò è severamente vietato il
martedì, il giovedì e soprattutto il sabato...
La mattina seguente, i coniugi Berkowitz si risvegliano nel bosco in
costume da alce. Di li a poco il consorte viene abbattuto, imbalsamato ed
esposto, come trofeo di caccia, al Circolo Atletico di New York. E da
ridere, veramente, perché a quel club non sono ammessi gli ebrei.

La prima volta che recitai - monologo di Woody Allen

Sono stato in Europa, ultimamente, per sei mesi, a girare un film
intitolato "Ciao, Pussycat", con Peter O'Toole, Peter Sellers e il
sottoscritto, nell'ordine.
E' stata la mia prima esperienza come attore. Sì, avevo recitato altre
volte, ma non le conto neppure. Roba di tanti e tanti anni fa. All'asilo,
mettemmo su l'Otello e io facevo lago. Uno dei migliori laghi cinquenni
che abbiano mai calcato le scene.
Il film l'ho scritto io, ed è largamente autobiografico... Anzitutto
però, devo raccontarvi come sono arrivato in Europa, una storia affascinante.
Ecco come sono andate le cose. Io mi esibivo in un caffè-teatro del
Greenwich Village a New York, chiamato Brio e Brioches, dove facevo il
presentatore ed eseguivo anche dei numeri. Uno, in tandem con una cantante
eschimese che cantava Night and Day per sei mesi difilato.
Ebbene, una sera capitò in quel locale il produttore Feldman. Si
innamorò di me a prima vista. Mi trovò superbo, sensuale e affascinante,
cioè nato per il cinema. Feldman è bassino di statura, capelli rossi e occhiali...
Basta, mi porta con sé in Europa - tutto pagato. Durante li viaggio,
proiettano un film con Irene Dunne sulla trasvolatrice Amelia Earhardt.
Tremavo tanto da non fermarmi più.
Incontrai una ragazza, dal mio psicanalista europeo... Facciamo un
passo indietro. Io andavo da uno psicanalista europeo e un europeo andava
nel frattempo dal mio psicanalista di New York - in base a 
un programma di scambio fra nevrotici.
L'Europa per me, sta di fatto, fu una serie di fiaschi o quasi. A una
festa, per esempio - una festa cui prendevano parte attori, attrici e
compagnia bella - me ne stavo in disparte, a suonare il vibrafono,
quand'ecco che un bel pezzo di bionda mi si accosta e mi fa: "Suoni il
vibrafono, tu?". Dico: "Sì, mi aiuta a sublimare le tensioni sessuali".
Dice: "Perché non mi consenti di aiutarti a sublimarle, queste tensioni
sessuali?". Al che io mi rallegro tutto, ecco una ragazza - dico, tra me e
me - che suona il vibrafono.
Sto per chiederle di uscire insieme quand'ecco che si intromette Peter
O'Toole che mi ruba la parola di bocca e mi l'a fuori al primo colpo. La
ragazza era bellissima, sapete, allora le dico: "Non potresti portare una
sorella, per me?". Oh, sì, si. Si presentò Suor Teresa di Calcutta.
La serata fu alquanto noiosa. Ci mettemmo a discutere del Nuovo
Testamento. Convenimmo che Gesù era una persona straordinariamente ben
equilibrata, per essere figlio unico.

Il ragazzo sensibile - monologo di Woody Allen

Io non mi abbronzo facilmente. E neanche difficilmente. Mi spiego, ho i
capelli rossicci e la pelle delicatissima. Quando vado in spiaggia non mi
prendo una bella tintarella. No, mi becco un brutto colpo di sole.
Eppoi, alla spiaggia non ci andavo mai, perché sono di Brooklyn. I
brooklinesi hanno solo Coney Island, che come spiaggia fa schifo. Correva
voce durante la guerra che i sottomarini nemici - gli Uboot tedeschi, se
vi ricordate - venivano lì, e l'inquinamento li corrodeva, nella zona di
mare riservata ai bagnanti.
Ero un ragazzino sensibile, io, un vero poeta. In classe mia c'erano
tipetti duri. Ce n'era uno, Floyd, che sedeva nel banco degli asini,
capite, e aveva il cervello d'una zucca. Uno di quelli con la mentalità da
vegetale. In anni successivi, diventammo però amici, da grandi. Io gli
tolsi una spina da una zampa.
Una volta, da ragazzo, me ne stavo andando a lezione di violino. Passo
davanti a una sala da biliardo e li c'era la ghenga di Floyd, che stava
sgonfiando le gomme delle auto nei paraggi. Non solo a quelle
parcheggiate, anche a quelle in movimento.
Io passo oltre come niente fosse e lui mi chiama, fa: "Ehi, Roscio!".
Non ci ho visto più. Ero un ragazzo coraggioso. Poso il violino. Vado
là e gli dico: "Non mi chiamo Roscio. Se mi vuoi, rivolgiti a me
educatamente. Il mio nome è Heywood Allen, per tua norma e regola."
Trascorsi quell'inverno su una sedia a rotelle dopo che un'équipe di
chirurghi mi estrasse il violino. Per mia buona fortuna non prendevo
lezioni di violoncello.
Io non sono pugnace. Non so battermi e, poi, ho i riflessi lentissimi.
Una volta fui investito da un'auto con una gomma a terra, che la
spingevano in due.

Dall'ultima volta che ci siamo sentiti...monologo di Woody Allen

Dall'ultima volta che ci siamo sentiti ci sono stati, nella mia vita
privata, molti mutamenti significativi, di cui stasera possiamo parlare
per, come dire, valutarli. Ho cambiato casa. Comincio dall'inizio. Prima
abitavo nell'East Side, a Manhattan, ma venivo continuamente rapinato,
aggredito e sadicamente picchiato nelle gengive. Allora mi sono trasferito
in un palazzo di Park Avenue, uno di quei palazzi col portiere in livrea,
sorvegliatissimo, costosissimo e magnifico. Ci abitavo da due settimane
quando sono stato aggredito dal portiere.
Non so cos'altro c'è di nuovo… Ah sì! Dall'ultima volta che ci siamo
sentiti sono diventato una Società in Accomandita. L'anno scorso, ebbi
difficoltà col fisico. Volevo dedurre dal reddito imponibile la spesa per
lo psicanalista, in quanto "cure mediche", ma all'Ufficio Imposte Dirette
mi dissero che rientrava sotto la voce "divertimenti". Si arrivò a un
compromesso, rubricandola come "contributi religiosi".
Quest'anno dunque ho fondato una società. Io ne sono il presidente, mia
madre ha la vice-presidenza, mio padre ne è il segretario perpetuo, mia
nonna il tesoriere. Mio zio è nel Consiglio d'Amministrazione. Si sono
coalizzati e hanno cercato di dimissionarmi. Io ho stretto un'alleanza di
interessi con lo zio e abbiamo mandato mia nonna in galera.
Mi sono iscritto all'università, per laurearmi in filosofia.
Frequentavo corsi di filosofia teoretica, come "Verità e Bellezza" e
"Introduzione a Dio", nonché "Propedeutica alla Morte". Fui espulso, alla
fine del primo anno, perché sorpreso a copiare all'esame scritto di
metafisica. Sbirciavo dentro l'anima del mio compagno di banco.
In seguito alla mia espulsione, mia madre - donna molto sensibile - si
chiuse in bagno e si fece un'overdose di pedine della dama.
Sono stato in analisi. Questo lo saprete già, sul mio conto. Da giovane,
andavo in terapia di gruppo poiché non potevo permettermi una psicanalisi
individuale. Fra noialtri nevrotici si disputava un campionato di
baseball. Io ero il capitano della squadra dei Paranoici Latenti. Le
partite si svolgevano la domenica mattina. Memorabile l'incontro fra
Rosicchiatori di Unghie e Piscialletto. Vedere dei nevrotici giocare a
baseball è uno spasso. Io, se commettevo un fallo, ero oppresso da sensi di colpa.
Inoltre, ho un cugino al quale i miei genitori volevano più bene che a me,
da piccoli. E questo mi ha distrutto. Laureatosi a pieni voti, mio cugino
si mise a fare l'assicuratore.
Si è sposato con una ragazza molto magra e sono andati ad abitare nei
sobborghi, dove hanno ogni sorta di status symbols: casa di loro
proprietà, automobile, pelliccia di visone, assicurazione contro il furto
e l'incendio, assicurazione sulla vita. La moglie ha anche
un'assicurazione sull'orgasmo. Se il marito non riesce a soddisfarla
sessualmente, la polizza prevede un indennizzo mensile in denaro.
Non so cos'altro dirvi sul mio conto. Ho fatto lo scrittore e l'attore.
Scrivevo per la televisione. Per diventare attore frequentai una scuola di
recitazione. Come saggio finale demmo Gedeone di Paddy Chayefsky. In
Gedeone io facevo la parte di Dio. Mi immedesimai tanto nella parte -
secondo i canoni di quella scuola - che la vivevo anche fuori scena. Ero
divino. Veramente favoloso. Andavo in giro in doppiopetto blu. Mi spostavo
in tassì da un capo all'altro di New York. Davo mance da padreterno, come
avrebbe fatto Lui. Una volta litigai con un tale, e lo perdonai. Sul
serio. Mi aveva pestato un piede e io gli dissi: "Cresci e moltiplicati!''
Ma non mi espressi esattamente così.

EVERY MAN IN HIS HUMOUR A monologue from the play by Ben Jonson


KNOWELL: When I was young, he lived not in the stews,

Durst have conceived a scorn, and uttered it

On a gray head; age was authority

Against a buffoon; and a man had then

A certain reverence paid unto his years,

That had none due unto his life. So much

The sanctity of some prevailed for others.

But now, we all are fall'n: youth, from their fear;

And age from that which bred it, good example.

Nay, would ourselves were not the first, even parents,

That did destroy the hopes in our own children;

Or they not learned our vices in their cradles,

And sucked in our ill customs with their milk.

Ere all their teeth be born, or they can speak,

We make their palates cunning! The first words

We form their tongues with are licentious jests!

Can it call whore, cry bastard? O, then kiss it!

A witty child! Can't swear? The father's darling!

Give it two plums. Nay, rather than't shall learn

No bawdy song, the mother herself will teach it!

But this in the infancy, the days

Of the long coat; when it puts on the breeches,

It will put off all this. Ay, it is like,

When it is gone into the bone already!

No, no, this dye goes deeper than the coat,

Or shirt, or skin. It stains unto the liver

And heart, in some; and, rather than it should not,

Note what we fathers do! Look how we live!

What mistresses we keep at what expense!

In our sons' eyes, where they may handle our gifts,

Hear our lascivious courtships, see our dalliance,

Taste of the same provoking meats with us,

To ruin of our states! Nay, when our own

Portion is fled, to prey on their remainder,

We call them into fellowship of vice!

Bait 'em with the young chambermaid, to seal!

And teach 'em all bad ways to buy affliction.

This is one path, but there are millions more,

In which we spoil our own with leading them.

Well, I thank Heaven, I never yet was he

That travelled with my son, before sixteen,

To show him the Venetian courtesans;

Nor read the grammar of cheating I had made,

To my sharp boy, at twelve, repeating still

The rule, "Get money," still, "Get money, boy,

No matter by what means; money will do

More, boy, than my lord's letter." Neither have I

Dressed snails or mushrooms curiously before him,

Perfumed my sauces, and taught him to make 'em;

Preceding still, with my gray gluttony,

At all the ordinaries, and only feared

His palate should degenerate, not his manners.

These are the trade of fathers, now; however,

My son, I hope, hath met within my threshold

None of these household precedents, which are strong,

And swift to rape youth to their precipice.

But let the house at home be ne'er so clean-

Swept, or kept sweet from filth, nay, dust and cobwebs,

If he will live abroad with his companions,

In dung and leystals, it is worth a fear;

Nor is the danger of converting less

Than all that I have mentioned of example.