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lunedì 28 febbraio 2011

Lettera a una professoressa (Don Milani)


Dopo l'istituzione della scuola media a Vicchio arrivarono a Barbiana anche i ragazzi di paese. Tutti bocciati naturalmente. Apparentemente il problema della timidezza per loro non esisteva. Ma erano contorti in altre cose. Per esempio consideravano il gioco e le vacanze un diritto, la scuola un sacrificio. Non avevano mai sentito dire che a scuola si va per imparare e che andarci è un privilegio. 
Il maestro per loro era dall'altra parte della barricata e conveniva ingannarlo. Cercavano perfino di copiare. Gli ci volle del tempo per capire che non c'era registro. Anche sul sesso gli stessi sotterfugi. Credevano che bisognasse parlarne di nascosto. Se vedevano un galletto su una gallina si davano le gomitate come se avessero visto un adulterio. 
Comunque sul principio era l'unica materia scolastica che li svegliasse. Avevamo un libro di anatomia. Si chiudevano a guardarlo in un cantuccio. Due pagine erano tutte consumate. 
Più tardi scoprirono che son belline anche le altre. Poi si accorsero che è bella anche la storia. Qualcuno non s'è più fermato. Ora gli interessa tutto. Fa scuola ai più piccini, è diventato come noi. Qualcuno invece siete riusciti a ghiacciarlo un'altra volta. 
Delle bambine di paese non ne venne neanche una. Forse era la difficoltà della strada. Forse la mentalità dei genitori. 
Credono che una donna possa vivere anche con un cervello di gallina. I maschi non le chiedono di essere intelligente. 
E' razzismo anche questo. Ma su questo punto non abbiamo nulla da rimproverarvi. Le bambine le stimate più voi che i loro genitori. 
Sandro aveva 15 anni. Alto un metro e settanta, umiliato, adulto. I professori l'avevano giudicato un cretino.
Volevano che ripetesse la prima per la terza volta. 
Gianni aveva 14 anni. Svagato, allergico di natura. I professori l'avevano sentenziato un delinquente. E non avevano tutti i torti, ma non è un motivo per levarselo di torno. 
Né l'uno né l'altro avevano intenzione di ripetere. Erano ridotti a desiderare l'officina. Sono venuti da noi solo perché noi ignoriamo le vostre bocciature e mettiamo ogni ragazzo nella classe giusta per la sua età. 
Si mise Sandro in terza e Gianni in seconda. E' stata la prima soddisfazione scolastica della loro povera vita. 
Sandro se ne ricorderà per sempre. 
Gianni se ne ricorda un giorno sì e uno no. 
La seconda soddisfazione fu di cambiare finalmente programma. 
Voi li volevate tenere fermi alla ricerca della perfezione. Una perfezione che è assurda perché il ragazzo sente le stesse cose fino alla noia e intanto cresce. Le cose estano le stesse, ma cambia lui. Gli diventano puerili tra le mani. 
Per esempio in prima gli avreste detto riletto per la seconda o terza volta la Piccola Fiammiferaia e la neve che fiocca fiocca fiocca. Invece in seconda ed in terza leggete roba scriba per adulti. Gianni non sapeva mettere l'acca al verbo avere. Ma del mondo dei grandi sapeva tante cose. Del lavoro, delle famiglie, della vita del paese. 
Qualche sera andava col babbo alla sezione comunista o alle sedute del Consiglio Comunale. Voi coi greci e coi romani gli avete fatto odiare tutta la storia. Noi sull'ultima guerra si teneva quattro ore senza respirare. 
A geografia gli avreste fatto l'Italia per la seconda volta. Avrebbe lasciato la scuola senza aver sentito rammentare tutto il resto del mondo. 
Gli avreste fatto un danno grave. Anche solo per leggere il giornale. Sandro in poco tempo s'appassionò a tutto. La mattina seguiva il programma di terza. Intanto prendeva nota delle cose che non sapeva e la sera frugava nei libri di seconda e di prima. A giugno il “cretino”; si presentò alla licenza e vi toccò passarlo. 
Gianni fu più difficile. Dalla vostra scuola era uscito analfabeta e con l'odio per i libri. Noi per lui si fecero acrobazie. Si riuscì a fargli amare non dico tutto, ma almeno qualche materia. Ci occorreva solo che lo riempiste di lodi e lo passaste in terza. Ci avremmo pensato noi a fargli amare anche il resto. 
Ma agli esami una professoressa gli disse:- perché vai a scuola privata? Lo vedi che non ti sai esprimere? Lo so anch'io che il Gianni non si sa esprimere. 
Battiamoci il petto tutti quanti. Ma prima voi che l'avete buttato fuori di scuola l'anno prima. Bella cura la vostra. 
Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle  all'infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo. 
Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi. 
Appartiene alla ditta. 
Invece la lingua che parla e scrive Gianni è quella del suo babbo. Quando Gianni era piccino chiamava la radio lalla.  E il babbo serio:- Non si dice lalla, si dice aradio. 
Ora, se è possibile, è bene che Gianni impari a dire anche radio. La vostra lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla scuola.  
"Tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di lingua"; . L'ha detto la Costituzione pensando a lui.>>
(da Lorenzo Milani, Lettera ad una professoressa, LIBRERIA ed. fiorentine, Firenze, pp 16-19)

da Eugenio Barba: lettera a un attore 1967

Spesso sono rimasto colpito dalla mancanza di serietà nel tuo lavoro. Non é dovuta ad assenza di concentrazione o di buona volontà. E' l’espressione di due atteggiamenti.

Come prima cosa si ha l'impressione che le tue emozioni non siano dettate da un convincimento interiore, da una necessità irrefrenabile che lascia il suo marchio nell'esercizio, nell'improvvisazione, nelle scene che esegui. Puoi essere concentrato nel tuo lavoro, non risparmiarti, i tuoi gesti possono essere tecnicamente precisi, ma le tue azioni rimangono vuote. Non credo in quello che fai. Il tuo corpo dice solo una cosa: obbedisco a un ordine ricevuto dall'esterno. I tuoi nervi, la tua colonna vertebrale, il tuo cervello non sono impegnati, e con una attività epidermica vuoi farmi credere che ogni azione è vitale per te. Tu stesso non avverti l'importanza di quello di cui vuoi rendere partecipe lo spettatore.

Come puoi sperare allora che lo spettatore sia preso dalle tue azioni?

Come puoi affermare e far capire che il teatro è il luogo dove le pastoie sociali devono sparire per fare spazio a una comunicazione franca e assoluta?

Tu rappresenti la collettività in questo luogo, con le umiliazioni

che hai subito, con il tuo cinismo che è autodifesa e il tuo ottimismo che è irresponsabilità, con il tuo senso di colpa e il tuo bisogno di amore, con la tua nostalgia per un paradiso perduto, nascosto nel passato, nell'infanzia, nel calore di un essere che ti faceva dimenticare l'angoscia.

Ogni persona presente in questa sala sarà scossa se tu effettuerai, durante la rappresentazione, un ritorno a queste origini, a questo terreno comune dell`esperienza individuale, a questa patria che si cela. Questo è il legame che ti unisce agli altri, il tesoro sepolto nel più profondo di noi stessi, mai messo allo scoperto, perché e il nostro conforto, perché fa male a toccarlo. `

Il secondo atteggiamento che riscontro in te é l’imbarazzo di considerare la serietà del tuo lavoro. Provi il bisogno di ridere, di sogghignare, di commentare con umorismo ciò che tu e i tuoi compagni fate. E' come se volessi sfuggire la responsabilità che senti inerente alla tua professione e che consiste nello stabilire una relazione con gli altri uomini e nell'assumerti la responsabilità di ciò che riveli. Hai paura della serietà, della consapevolezza dl essere al limite del consentito, Hai paura che tutto quello che fai sia sinonimo di fanatismo, di noia, di isolamento professionale. Ma in un monde in cui gli uomini che ci circondano non credono più in niente, o fanno finta dl credere per essere tranquilli, colui che scava in se stesso per fare il punto sulla sua condizione, sulla sua assenza di certezze, sul suo bisogno di vita spirituale, e preso per un fanatico e per un ingenuo. In un mondo in cui la norma è l’inganno, colui che cerca la “sua” verità é scambiato per ipocrita.

Devi accettare che tutto ciò che crei, a cui dai libertà e forma nel tuo lavoro, appartiene alla vita e merita rispetto e protezione. Le tue azioni, dinanzi alla collettività degli spettatori, devono possedere la stessa forza della fiamma nascosta nella tenaglia incandescente o nella voce del roveto ardente. Solamente allora le tue azioni potranno continuare a vivere nei sensi e nella memoria delle spettatore, potranno fermentare a conseguenze imprevedibili.

Dullin, mentre era sul suo letto di morte, contorceva il viso assumendo le sembianze e i tratti dei grandi ruoli che aveva incarnato: Smerdjakov, Volpone, Riccardo III. Non era solo l’uomo Dullin che moriva, ma anche l’attore con tutte le tappe della sua vita.

Se ti domando perche hai scelto di diventare attore, tu mi risponderai: per esprimermi, per realizzarmi. Ma che significa realizzarsi ? Chi si realizza? Il capo ufficio Hansen, che visse un'esistenza rispettabile, senza problemi, mai tormentato da domande che rimangono senza risposta? O il romantico Gaughin che dopo aver rotto con le norme sociali portò a termine la sua esistenza nella privazioni e nella miseria di un villaggio polinesiano, Noa-Noa dove credeva di aver ritrovato la libertà perduta? In un'epoca in cui la fede in Dio è diagnosticata come nevrosi, ci manca il metro per misurare se la nostra vita si è realizzata o no.

Quali che siano state le segrete motivazioni personali che ti hanno portato al teatro, ora che eserciti questa professione devi trovarne un senso che, andando aldilà della tua persona, ti confronti socialmente agli altri.

Solo nelle catacombe si può preparare una vita nuova. Ecco il posto di quelli che nella nostra epoca cercano un impegno spirituale cimentandosi con le eterne domande senza risposta. Questo presuppone coraggio: la maggior parte della gente non ha bisogno di noi. Il tuo lavoro è una forma di meditazione sociale su te stesso, sulla tua condizione umana, sulle vicende del nostro tempo che ti toccano più profondamente. Ogni rappresentazione in questo teatro precario che disturba il pragmatismo quotidiano può essere l'ultima. E tu devi considerarla come tale, come la possibilità di raggiungere te stesso, consegnando agli altri il resoconto delle tue azioni, il tuo testamento.

Se essere attore significa tutto questo per te, allora nascerà un altro teatro; un’altra tradizione, un’altra tecnica. Un rapporto nuovo si stabilirà fra te e lo spettatore che la sera viene a vederti perché ha bisogno di te

Il dittatore e il Bianco Visitatore di Stefano Benni

C'era un dittatore che aveva incarcerato, torturato e ammazzato uomini e donne del suo Paese. Un giorno gli venne annunciata la visita del Capo degli Uomini Buoni.
Poichè questo Capo era molto potente, viaggiava per il mondo e ovunque andasse la gente accorreva a vederlo, il dittatore dovette prepararsi a riceverlo nel modo migliore.
Ammazzò tutti i torturati perchè non si dicesse che c'era la tortura, tutte le mamme dei desaparecidos perchè non dicessero che i figli erano desaparecidos, tutti i prigionieri perchè non si dicesse che le prigioni erano piene, e riempì la città di striscioni di benvenuto.
Ma la notte prima della visita non dormì: sapeva che il Capo degli Uomini Buoni conosceva il bene e il male ed era venuto per rimproverarlo: gli avrebbe detto delle cose terribili davanti a tutti smascherando i suoi delitti.
Così la mattina all'aeroporto era molto nervoso.
Invece della solita divisa con draghi e pugnali, si era messo un completo grigio con la cravatta, e al posto dei gorilla generali aveva una scorta di suorine. Ogni suorina teneva in braccio un bambino, di cui il Capo degli Uomini Buoni era ghiotto.
Il Visitatore scese tutto vestito di bianco da un aereo bianco, baciò la terra e i bambini, salutò il dittatore e insieme percorsero i viali della città tra gli applausi della gente, anche perchè chi non applaudiva veniva bastonato.
Quando furono nell'appartamento del dittatore il Capo degli Uomini Buoni chiuse a chiave la porta e disse:
- Adesso io e lei facciamo due chiacchiere.
Il dittatore tremò. Era venuto per lui il momento della verità. Stava per buttarsi in ginocchio e chiedere perdono, quando il Bianco Visitatore disse:
- Mi piace questo paese, è tranquillo.
- Sì, non c'è male - disse il dittatore.
- Si vede che la gente ci sta bene...
- Abbastanza... magari qualcuno si lamenta, ma...
- Anche nel mio paese - disse il Capo degli Uomini Buoni - c'è sempre qualcuno che si lamenta.
- E poi, per la verità, qualche volta... ho dovuto...
- Dovuto cosa?
- Ho dovuto...intervenire.
- La capisco.
A quelle parole il dittatore si buttò in ginocchio. Com'era buono il Capo degli Uomini Buoni! Che grande lezione gli dava! Non con anatemi e ingiurie, ma con la forza dell'indulgenza e del perdono. Indicandogli la via...
Oh si! Anche lui sarebbe stato buono e comprensivo come il Capo degli Uomini Buoni!
Gli baciò la mano, l'anello, la manica e disse:
- Non arresterò più nessuno, indirò libere elezioni, proibirò la tortura, licenzierò gli squadroni della morte... ho capito la Sua lezione.
Il Capo degli Uomini Bianchi ritirò di colpo la mano.
- Lei è pazzo - disse - guai a lei se ci prova!
Il dittatore trasecolò.
Quando il Bianco Visitatore partì, il dittatore ricominciò a imprigionare e torturare e ammazzare, ma non ci provava più lo stesso gusto.
- E' vero - pensava - ci sono degli incontri che cambiano la vita. 

La cultura


La cultura
G.Strehler

31-05-1977
Riflessioni sul ruolo della cultura e sui modi di accostarsi ad essa rendendola propria

La cultura che mi ha nutrito è una cultura di due aspetti. Uno: universale, l’altro, del tutto specifica. Ho avuto la fortuna direi naturale di essere curioso e tendenzialmente universale, cioè di non avere dei “gusti” preclusivi. Senza per questo essere un dilettante. E soprattutto di modificare a seconda dei periodi o tempi della mia vita certi interessi particolari. Così mi trovo oggi dietro le spalle una biblioteca personale molto vasta e molto varia. Indubbiamente io ho gravitato d più verso la cultura mittel-europea in senso lato, ma l’influenza della cultura francese è stata sempre grandissima. Devo piuttosto dire che la cultura anglosassone mi è più estranea ma pensando a Shakespeare che è forse l’autore che ho più studiato col cuore e col pensiero ecco che un certo vuoto si riapre. Sono un cattivo lettore di romanzi. Un buon lettore di poesia. Il racconto mi sfugge un poco. Dunque la cultura per me è stato sempre un tentativo di capire di più il mondo al di là persino della barriera delle lingue che non conosco o conosco poco. Considero una grave mancanza non conoscere il russo e male l’inglese con cui combatto da anni, perdendo sempre la battaglia. Ed è stata una cultura in movimento. Dunque non avrei da aggiustare il tiro o da modificare il mio “indirizzo” culturale. Dovrei soltanto riempire gli innumerevoli vuoti che ci sono. I grandi buchi di ciò che non conosco o conosco male. Per esempio sapere più di scienza sebbene il lato scientifico è uno dei lati culturali che io ho coltivato molto e ce nessuno in me conosce. E poi sistematizzare certe conoscenze, approfondire soprattutto.
La cultura umana così come l’ho sempre vista e cercata di possedere in una sua minima parte, con la massima libertà del pensiero, con l’angolatura della dialettica, del materialismo dialettico, mi basta così com’è. Non ho da aggiustare nessun tiro.
E sono qui, nel centro del nostro mondo con il mio piccolo bagaglio di certezze, il mio enorme bagaglio di incertezze , pieno di dubbi, di angoscia e di fiducia e di speranza , pieno di delusioni e di meraviglia e di freschezza.

Vedo certamente più profondo. Ho perduto una certa spensieratezza, una certa “follia” quasi allegra che avevo nell’affrontare la vita, una fiducia soprattutto nelle mie forze fisiche. Ma ho acquistato un poco, solo un poco di saggezza e misura.    
                                                                                              (1977) 

Essere uomo di teatro


Essere uomo di teatro
G.Strehler

Riflessioni sulla difficoltà di spiegare il mestiere di teatrante

Se io dovessi in qualche modo definire o dare una chiave al mio “essere uomo di teatro” non saprei farlo o lo farei male. Non è una specie di peccato d’orgoglio, volontario o no poco importa che mi impedisce di sapere e di spiegare anche a me stesso cosa è quello che ho fatto e faccio, quello che sono stato e sono, nell’arte?
Domandare a un poeta: che cos’è la poesia, come la fa, cosa voleva dire con questo e con quello, obbligarlo a spiegare perché ha fatto questa poesia e non un'altra e via dicendo?
È possibile la risposta? Nessun artista mai è riuscito a parlare di ciò, se non forse in qualche sprazzo, con qualche metafora incidentale, o riferita all’onere degli altri. Perché l’uomo d’arte fa e non spiega. Non sa, non può; non vuole spiegare. Le spiegazioni di sé, sono altre.
E per il teatro? E soprattutto per il “regista”, l’interprete e non lo scrittore, cioè per chi non può interpretare se non sa, forse anche a posteriori, o in un eccessivo cammino di conoscenza, quello che vuole fare o che crede più giusto fare? Vale questo discorso? È legittimo soprattutto, questo discorso? Per un “teatrante” come io sono, non altri, questo discorso è del tutto plausibile? Sono io dunque un “teatrante” ebbro, senza controllo “critico” raziocinante, procedo io solo a intuizioni (quando ci sono) senza che ne sappia i motivi segreti? O non cerco prima, durante o almeno poi, di sapere, di spiegarmi anche con raziocinio ciò che era ed è? Certo io debbo sapere che non sono quel teatrante altro che “in parte”.
Perché dico in parte? Perché certamente, questo credo di averlo capito o altri (ed è un punto importante) forse l’hanno capito per me, in me il “teatro” (ma potrebbe essere qualsiasi altra cosa) si fa entro due termini dialettici precisi e continuamente in lotta, in arricchimenti successivi (o impoverimenti? Capita, talvolta) comunque in fasi alternative continue: da una parte la libera intuizione, direi la libera “creazione” se questa parola per me “teorico” nel teatro non mi respingesse (perché? Per pudore, per ragioni teoriche, per modestia o falsa modestia, o per un oscuro sentimento della funzione subordinata dell’interprete, quindi della oscura e segreta “invidia” di quel paradiso perduto o mai avuto che è la creazione poetica?), dunque, da una parte, la “libera creazione” padrona solo di sé, quella che non si può spiegare, quella che non ha ragioni “coscienti” e dall’altra parte la fase “cosciente” critica, analitica, storica, persino filologica, scientifica.
Come avviene il processo io non lo so bene. Varia a seconda dei casi. Ma il processo è presente “sempre”, questo è sicuro, all’inizio dalla scelta di ciò che si deve fare e come la si fa, minuto per minuto. Teoricamente ma molto spesso, sì molto spesso nel risultato positivo o no non esiste mai, per natura, direi, l’una senza l’altra. Sono due termini in me, inscindibili. E sono fonte di una continua tensione dialettica che può anche quasi uccidere. La dialettica è dura. È un modo difficile di essere. Il più difficile. 

L'ARCADIA IN BRENTA


Carlo Goldoni


L'ARCADIA IN BRENTA


Drama Comico per Musica da rappresentarsi in Venezia nel Teatro di S. Angelo per la Fiera dell'Ascensione l'Anno 1749.



LETTOR GENTILISSIMO

Pochi saranno quelli che letta l'Arcadia in Brenta non averanno. Si sa quasi comunemente aver figurato l'Autore di quest'Arcadia una conversazione di sette civili ed oneste persone in un luogo delizioso fra quei magnifici palaggi che adornano il fiume Brenta, e che formano una delle più belle villeggiature d'Italia. Tre uomini e tre donne formarono la raunanza, cioè Silvio, Giacinto, Foresto, Marina, Rosanna, Laura, a' quali s'aggiunse dopo qualche giorno Fabrizio Fabroni di Fabriano, che per la sua età e per il suo carattere, misto di sciocco e di faceto, riescì il condimento della gioconda società loro. L'Arcadia, di cui ora parlo, consiste principalmente in motti arguti, detti faceti, novelle spiritose, canzonette, madrigali e cose simili, per lo che, potendo una simile conversazione intitolarsi giocosa Accademia, fu per la stessa ragione dall'Autore intitolata l'Arcadia in Brenta, colla respettiva similitudine dell'Arcadia di Roma, in cui cose più serie e più elevate si trattano.
Io adunque per argomento della mia presente Operetta non prendo già l'Arcadia in Brenta, che scritta trovasi dal nostro Autore, poiché in essa materia non trovo per una teatrale rappresentazione.
Sul fine di detta Arcadia, sciogliendo gli sette Arcadi la loro gentile conversazione, s'invitano vicendevolmente per la susseguente stagione, e tutto che stabilissero passare sul fiume Sile, accadde però che quel tale messer Fabrizio Fabroni da Fabriano, piccatosi di generosità, volle trattar magnificamente la maggior parte di quelli che l'avevano favorito, e seco li condusse in un suo casino sul fiume Brenta, formando in esso novellamente l'Arcadia in Brenta. Invitò Rosanna e Laura, Giacinto e Foresto, lasciando da parte Marina e Silvio, perché essi troppo sul vivo lo avevano motteggiato nell'altra Arcadia.
S'accrebbe non pertanto il numero della conversazione con madama Lindora, dama di una straordinaria stucchevole delicatezza, ed il conte Bellezza di una caricatissima affettazione.
Il povero Fabrizio, di gran core, ma di poche sostanze, per sostener l'impegno a cui incautamente s'apprese, andò in rovina, rimasto in pochi dì senza denaro e senza roba, e col rossore di doversi vedere scornato dagli ospiti, e ridotta l'Arcadia in una commedia, che per lui poteva dirsi tragedia, a che molto ha contribuito Foresto, uno degli Arcadi, ma il più confidente di Fabrizio, quello a cui egli aveva raccomandata l'economia della casa.
Questa mia Arcadia in Brenta è tanto istorica quanto quella di Ginnesio Gavardo Vacalerio, avendola ricavata da codici antichissimi della Malcontenta, ove vanno a terminar i suoi giorni tutti quelli che, come messer Fabrizio, si fanno mangiare il suo, e si riducono poveri per volerla spacciar da grandi.



Personaggi

ROSANNA
La Signora Margherita Parisina.
Madama Lindora
La Signora Costanza Itussignoli.
LAURA
La Signora Serafina Penna.
Messer FABRIZIO FABRONI, da Fabriano.
Il Signor Francesco Baglioni.
Il conte BELLEZZA
Il Signor Alessandro Renda.
FORESTO
Il Signor Francesco Carrattoli.
GIACINTO
La Signora Berenice Penna.

L'inventore e direttore de' Balli sarà il Signor Giuseppe Fortini.
La Scena si rappresenta in un Casino delizioso
di messer Fabrizio, situato alle rive del fiume Brenta





ATTO PRIMO


SCENA PRIMA

Camera terrena in casa di messer Fabrizio.

Fabrizio che dorme sopra una poltrona, in veste da camera, e Foresto

FOR.
Oh questa sì ch'è bella!
Il padrone di casa
A tutti i Forastieri dà ricetto,
E gli convien dormir fuori del letto.
Con questa bell'Arcadia
Ei si va rovinando, ed io che sono
Da questo sciocco economo creato,
Or che manca il denar, son imbrogliato.
Orsù, lo vuò svegliar. Già s'alza il sole;
Oggi almeno ci vuole,
Fra quei che siamo e quelli che verranno,
Mezza l'entrata sua di tutto l'anno.
Signor Fabrizio... Ehi, signor Fabrizio,
Svegliatevi, ch'è tardi.
Su via, che s'alza il sole;
V'ho da dir due parole.
FABR.
Che? (svegliandosi un poco)
FOR.
Svegliatevi.
FABR.
Sì.
FOR.
V'ho da parlare.
FABR.
Par...la...te.
FOR.
Egli si torna a addormentare.
Su via, messer Fabrizio.
FABR.
Seguitate. (si risveglia)
FOR.
Se voi non m'ascoltate,
Non vuò parlar da stolto.
FABR.
Tengo gli occhi serrati, ma v'ascolto. (dorme)
FOR.
Ben, sappiate che io
Ho il denar terminato
Che voi m'avete dato;
Che per tante persone
Convien fare una buona provigione.
Che rispondete? Sì! dorme di gusto.
Signor Fabrizio...
FABR.
Già.
FOR.
M'avete inteso?
FABR.
Ho inteso tutto.
FOR.
E ben, che rispondete?
FABR.
Fate quel che volete.
FOR.
Ma il denar?
FABR.
Che denar?
FOR.
M'avete inteso?
FABR.
Tutto non ho compreso.
Tornate a dir.
FOR.
Alzatevi, di grazia.
FABR.
Voi avete timor ch'io m'addormenti;
Pericolo non v'è, ma per gradirvi
M'alzerò; via, parlate.
(s'alza e si accosta bel bello al poggio della poltrona)
FOR.
Ora, signor, sappiate
Che non v'è più denaro...
FABR.
Bene.
FOR.
Che io
Non so più come far; che oggi s'aspetta
Nuova foresteria... (Fabrizio s'addormenta)
E buona notte di vossignoria.
Signor Fabrizio... Ehi, signor Fabrizio...
Signor Fabrizio... (più forte)
FABR.
Che! come!
FOR.
Voi siete
Impastato di sonno.
FABR.
Io? Che dite?
Dormo io? Signor no. Eccomi lesto.
FOR.
Venite qua. (lo prende per una mano e lo tien forte)
FABR.
Son qua.
FOR.
Vi torno a dire,
Signor Fabrizio caro,
Che ci vuol del denaro.
FABR.
Ed io risponderò:
Signor Foresto caro, non ne ho.
FOR.
Ma che fare dovrò
Per supplire l'impegno in cui voi siete?
FABR.
Fate quel che volete.
FOR.
Non v'è denaro?
FABR.
Oibò.
FOR.
Grano?
FABR.
È venduto.
FOR.
Quei cavalli indiscreti,
Che mangian tanto fieno,
Si potrian esitar.
FABR.
Sì. (s'appoggia alle spalle di Foresto)
FOR.
La carrozza?
FABR.
La carroz...za... (s'addormenta)
FOR.
Eh, ch'io non sono sì pazzo
Di volervi servir di matarazzo.
FABR.
Sì, la carrozza...
FOR.
O la carrozza, o il carro,
Vi dico in due parole,
Che se non v'è denar, l'Arcadia vostra
È presto terminata,
E tutta la brigata,
Provista d'appetito,
Grazie vi renderà del dolce invito.

Se vi mancano i contanti,
Fate quel che fanno tanti:
Impegnate, e poi vendete;
E se roba non avete,
Già si sa l'usanza vaga,
Che si compra e non si paga,
E si gode all'altrui spalle,
Ed aspetta il creditor.
Questa regola è diffusa,
Dappertutto già si usa;
Ed è segno che ha del credito,
Quando un uomo è debitor. (parte)



SCENA SECONDA

Fabrizio solo.


Per dirla, quasi quasi
Or or me n'anderei,
E l'Arcadia e i pastori impianterei.
Ma se l'anno passato
Son già stato graziato, il dover mio
Vuol che st'anno lo stesso faccia anch'io.
E poi? e poi vi son quelle ragazze
Che mi piacciono tanto,
E spero aver d'innamorarle il vanto.
Ma diavolo! si spende
Troppo a rotta di collo.
Voglio un po' far il conto
Quanto ho speso finora,
E quanto doverò spender ancora.
(tira fuori un foglio ed una penna da lapis)

Quattrocento bei ducati...
Poverini, sono andati.
Sessantotto bei zecchini...
Sono andati, poverini.
Trenta doppie... oh che animale!
Cento scudi... oh bestiale!
Quanto fanno? Io non lo so.
I zecchini sessantotto
Coi ducati quattrocento
Fanno... fanno... oh che tormento!
Basta, il conto è bello e fatto,
Perché un soldo più non ho. (parte)



SCENA TERZA

Giardino che termina al fiume Brenta.

Rosanna, Laura, Giacinto, Foresto sopra sedili erbosi; poi Fabrizio

a quattro
Che amabile contento
Fra questi ameni fiori,
Godere il bel concento
Degli augellin canori!
Che bell'udir quest'aure,
Quell'onde a mormorar!
FABR.
Che bella compagnia!
Fa proprio innamorar.
a quattro
Che bell'udir quest'aure,
Quell'onde sussurrar!

GIAC.
Bellissima Rosanna,
Nell'Arcadia novella
Bramo che siate voi mia pastorella.
ROS.
Anzi mi fate onore,
E vi accetto, signor, per mio pastore.
FOR.
E voi, Lauretta cara,
Seguendo dell'Arcadia il paragone,
La pecora sarete...
LAU.
E voi il caprone.
FABR.
Bravi! così mi piace.
Voi quattro in buona pace
State qui allegramente,
Ed il pover Fabrizio niente, niente.
GIAC.
Via, sedete, o signor.
FABR.
Io sederei
Qui volentieri un poco,
S'uno di lor signor mi desse loco.
FOR.
Intesi a dir, fra l'altre cose vere,
Che non manca mai sedia a chi ha il sedere.
FABR.
(Cappari! il caso è brutto.
Io niente, e loro tutto? Aspetta, aspetta).
Amico, una parola. (a Foresto)
FOR.
E che volete?
FABR.
Parlar di quel negozio.
FOR.
Di che?
FABR.
Non m'intendete? Uh capo storno!
FOR.
Dell'arsan?
FABR.
Iò!
FOR.
Lauretta, adesso torno. (s'alza)
Eccomi, ov'è il denaro?
FABR.
Aspettate un momento.
Passeggiate un tantino, ed io mi sento. (siede nel loco di Foresto)
Ah, ah, te l'ho ficcata.
Oh questa sì ch'è bella!
Io non voglio star senza pastorella.
FOR.
Pazienza! me l'hai fatta;
Ma mi vendicherò.
LAU.
(Vuò divertirmi).
Bella creanza al certo!
Dove apprendeste mai
Cotanta inciviltà? (s'alza)
FABR.
Ma finalmente...
LAU.
Finalmente, vi dico,
Non si tratta così.
FABR.
Son io...
LAU.
Voi siete
Un bell'ignorantaccio.
Dirò meglio: voi siete un villanaccio.
FABR.
Al padrone di casa?
LAU.
Che padrone!
Questa casa ch'è qui, non è più vostra.
Questa è l'Arcadia nostra.
Noi siamo pastorelle, e voi pastore;
E non serve che fate il bell'umore.
FABR.
Dice ben.
FOR.
La capite?
LAU.
Non occorre che dite:
Voglio, non voglio.
FABR.
Oibò.
FOR.
Vogliamo fare
Tutto quel che ci pare.
FABR.
Signor sì.
LAU.
E non è poca
La nostra cortesia,
Che non v'abbiam sinor cacciato via.
FABR.
Padroni.
FOR.
Avete inteso?
FABR.
Se non son sordo.
LAU.
Acciò ben lo capisca
La vostra mente stolta,
Ve lo tornerò a dir un'altra volta.

Vogliamo fare
Quel che ci pare.
Vogliam cantare,
Vogliam ballare,
E voi tacete,
Poiché voi siete
Senza giudizio.
Signor Fabrizio,
Siete arrabbiato?
Via, che ho burlato:
Nol dirò più.
L'Arcadia nostra
Tutto permette.
Due parolette
Non fanno male;
Un animale
Di voi più docile
Giammai non fu. (parte)



SCENA QUARTA

Rosanna, Giacinto, Fabrizio e Foresto

FABR.
Io rimango incantato.
FOR.
Signor, che cosa è stato?
Se comanda seder, si serva pure.
Oh questa sì ch'è bella!
Io non voglio star senza pastorella. (contrafacendo Fabrizio)
FABR.
Ancor voi mi burlate?
FOR.
Io burlarvi? pensate!
Siete l'amico mio più fido e caro;
Ma se manca il denaro,
Vi giuro in fede mia
Che tutti ce n'andiamo in compagnia. (parte)
FABR.
Andate col malan che il ciel vi dia.
Ma signora Rosanna,
Che dite voi? Che dite voi, Giacinto,
Del parlar di Lauretta?
GIAC.
Eh non vedete,
Ch'ella si prende spasso?
FABR.
Corpo di Satanasso!
Cospetto non di Bacco!
Se me n'ha dette un sacco!
ROS.
Eppure il di lei sdegno
Parmi d'amore un segno.
La femmina talora
Scaltra finge odiar quel che più adora.
FABR.
Possibile che m'ami,
E così mi strapazzi?
ROS.
Io ve lo giuro;
Statene pur sicuro,
Più volte l'amor suo m'ha confidato:
Arde per voi.
FABR.
Che amor indiavolato!
GIAC.
(È ver?) (piano a Rosanna)
ROS.
(Mi prendo spasso). (a Giacinto)
Sapete la cagione (a Fabrizio)
Ch'or la rese furiosa?
Perché di me gelosa.
FABR.
Or la capisco.
Ma che motivo ha mai
D'ingelosir di voi?
ROS.
Gli affetti miei
Ho confidati a lei.
FABR.
Dunque voi pur mi amate?
ROS.
Pur troppo è ver!
FABR.
Bellezze fortunate! (toccandosi il viso)
Giacinto, che ne dite?
Forse v'ingelosite?
GIAC.
Niente affatto,
Io non sono sì matto.
S'ella v'ama, signor, io vado via.
Ché non voglio impazzir per gelosia.

D'un amante è gran follia
Impazzir per gelosia.
S'una donna è di me stanca,
Non mi manca - altra beltà.
Per la donna chi s'affanna,
Chi s'adira, assai s'inganna;
Già si sa che invan si spera
Una vera - fedeltà. (parte)



SCENA QUINTA

Rosanna e Fabrizio

FABR.
Dunque, se voi mi amate,
Discorriamola un poco.
ROS.
Ma Laura sarà poi meco sdegnata.
FABR.
Io non vuò quella donna indiavolata.
ROS.
L'amicizia, il dover non lo permette.
FABR.
Amor non vuol riguardi.
Aggiustiamo le cose infra di noi,
E lasciate che poi Lauretta dica.
ROS.
V'amo, ma non vogl'io tradir l'amica.
FABR.
Oh caro il mio tesoro,
Già spasimo, già moro.
ROS.
Olà, signor Fabrizio,
Più rispetto, vi dico, e più giudizio.

So che celar dovrei
Il mio novello amore,
Ma tanto non credei
Che ardito il vostro core
Giungesse a delirar.
Nel seno eguale ardor
Forse risento anch'io,
Ma un nobile rigor
Insegna al foco mio
Le fiamme a moderar. (parte)



SCENA SESTA

Fabrizio, poi un Servo che non parla.

FABR.
Rosanna mi vuol bene, e mi discaccia;
Laura mi porta affetto, e mi strapazza.
Io non so di che razza
Siano cotesti amori.
Se le ninfe e i pastori
S'innamoran così, son tutti matti;
Questo sembra un amor tra cani e gatti. (Viene un Servo)
Chi? madama Lindora?
Dille che venga tosto, e non si penta;
Che venga ad onorar l'Arcadia in Brenta. (Parte il Servo)
Caspita! questa dama
Di conoscermi brama?
Fosse di me invaghita! Allora sì
Che queste due ragazze
Farei di gelosia diventar pazze.



SCENA SETTIMA

Madama Lindora con due Braccieri, e detto.

LIND.
Oimè! non posso più. (indietro)
FABR.
Che cosa è stato?
LIND.
Ho tanto camminato:
Non posso più.
FABR.
Vicino è il suo palazzo
Men d'un tiro di schioppo.
LIND.
Per le mie pianticine è troppo, è troppo.
FABR.
Via, signora, s'avanzi, e sieda.
LIND.
Guardate, per pietà,
Che non vi siano fiori;
Io non posso sentir cattivi odori.
FABR.
L'odor non è cattivo. Faccia grazia.
LIND.
Ahi, ahi.
FABR.
Qualche disgrazia?
LIND.
Maledetto giardino!
Ho sentito l'odor di gelsomino.
FABR.
Vuol che lo butti via?
LIND.
Sì, ve ne priego.
FABR.
Vattene, o tristo vaso
Che di Madama hai conturbato il naso.
Via, s'avanzi un tantino.
LIND.
Adagio, pian pianino. (ai Braccieri)
Mi volete stroppiar? Voi lo sapete,
Son delicata assai...
Tre passi in una volta non fo mai.
FABR.
Come dunque farà a salir le scale?
LIND.
Tacete, mi vien male
Solo in pensarlo.
FABR.
Scusi, mi perdoni,
Ella è forse stroppiata?
LIND.
Anzi più ben tagliata
Donna non v'è di me. Voi stupireste
Nel vedermi ballar.
FABR.
Quando si balla,
Non si fan quattro passi in su un mattone.
LIND.
Trovata ho un'invenzione
Di far i minuetti
Con piccoli passetti;
E perché il tempo veramente intendo,
Quattro battute in ogni passo io spendo.
FABR.
Dunque sopra una festa in tal maniera
Un minuetto si farà per sera.
LIND.
Ma dove son le belle
Arcadi pastorelle?
FABR.
Or le farò venir. Ehi. (chiama il Servo)
LIND.
State zitto.
Oimè! con quella voce così alta,
Voi mi fate stordir.
FABR.
Veh, cosa sento!
Ella non può sentir alzar la voce.
LIND.
Lo stranuto e la tosse ancor mi nuoce.
FABR.
Ma gran delicatezza!
Credo provenga dalla gran bellezza.
LIND.
Non dico, ma può darsi.
FABR.
Certo, signora sì.
LIND.
Quando lo dice lei, sarà così.
Andrò, se si contenta,
Le amiche a ritrovar.
FABR.
Ma non vorrei,
Che troppo affaticasse;
Prima che sia arrivata,
Per lei ci vuole almeno una giornata.
LIND.
Andrò così bel bello,
Se si contenta lei, signor Fabrizio.
FABR.
Ah, vada, vada (che mi fa servizio).

LIND.
Riverente a lei m'inchino.
Ehi, braccieri, qua la mano.
Venga presto... andate piano.
Venga poi... non mi stroppiate.
Correr troppo voi mi fate;
Mi vien mal, non posso più.
Via, bel bello, andiamo avanti;
Le son serva, addio, monsù. (parte)



SCENA OTTAVA

Fabrizio, poi Servo.


Sia ringraziato il ciel che se n'è andata.
Ma cresce la brigata,
E il denar va mancando, e la carrozza
Sarà venduta, ed i cavalli ancora.
Pazienza! almen ho il gusto
Di veder due ragazze innamorate,
Che per me tutte due son spasimate.
Oh diavolo! che dici? (al Servo)
Viene il conte Bellezza? Venga, venga.
Giacché alla casa s'ha a veder il fondo,
Venga pur tutto il mondo. (parte)



SCENA NONA

Arriva un burchiello da cui sbarca il
conte Bellezza

FABR.
Poh che gran signorone!
Costui porre mi vuole in soggezione.
CON.
Permetta, anzi conceda
Che prostrato si veda
Al prototipo ver de' generosi
L'infimo de' suoi servi rispettosi.
FABR.
Servitor obbligato.
CON.
La fama ha pubblicato
I pregi vostri con eroica tromba;
L'eco intorno rimbomba
Il nome alto sovrano
Di Fabrizio Fabroni da Fabriano.
FABR.
Servitore di lei.
CON.
Ed io pur bramerei,
Anzi sospirerei,
Benché il merito mio sia circonscritto,
Nel ruolo de' suoi servi esser descritto.
FABR.
Anzi de' miei padroni.
CON.
Ah, mio signor, perdoni
Se tracotante, ardito,
Prevenendo l'invito,
Per far la mente mia sazia e contenta
Son venuto a goder l'Arcadia in Brenta.
FABR.
S'accomodi.
CON.
La fama
Poco disse finor di voi parlando,
Voi cantando, esaltando;
Veggo più, veggo molto
In quell'amabil volto,
Che con raggi di placido splendore
Spiega l'idea del liberal suo cuore.
FABR.
Signor, lei mi confonde.
Vorrei dir, ma non so;
Per andar alla breve, io tacerò.
CON.
Quel silenzio loquace
Quanto, quanto mi piace! Ella tacendo
Col muto favellar va rispondendo;
Ed io che tutto intendo,
Il genio suo comprendo.
Ella vuol favorirmi, ed io mi arrendo;
Ed accetto le grazie, e grazie rendo.
FABR.
Le renda, o non le renda,
È tutta una faccenda.
Se qui vuole restar, mi farà onore;
Cerimonie non fo, son di buon core.
CON.
Viva il buon cor! Anch'io l'affettazione
Odio nelle persone;
Parlar mi piace naturale affatto.
Perciò, dal sen estratto
Il più divoto e caldo sentimento,
Trabocca dalle labbra il mio contento.
FABR.
Se questo è naturale,
Parla ben, non vi è male.
CON.
La provida natura
Prese di me tal cura,
Che mi rese il più vago e il più giocondo
Grazioso cavalier che viva al mondo.
FABR.
Me ne rallegro assai. S'ella bramasse
Riposarsi, è padron.
CON.
Sì, mio signore;
Accetterò l'onore
Che l'arcisoprafina sua bontà
Gentilissimamente ora mi fa.
FABR.
Vada pure. Pancrazio, (al Servo)
Servi questo signor.
CON.
L'esuberanza,
Anzi l'esorbitanza
Delle grazie, onde lei m'ha incatenato...
FABR.
Vada, basta così.
CON.
Lasci che almeno...
FABR.
Vada per carità.
CON.
Non fia mai vero
Ch'io manchi al dover mio...
FABR.
Vada lei, mio signore, o vado io.

CON.
Non s'adiri, di grazia, ch'io taccio.
Non vuò dargli più noia né impaccio.
Bramo solo... sto zitto, e non parlo;
Più non ciarlo, credetelo a me.
Ma tal pena chi puol mai soffrire?
Io star cheto? Mi sento morire.
Signor caro... ho finito in mia fé. (parte)



SCENA DECIMA

Fabrizio solo.


Con due pazzi di più nella brigata
Ora l'Arcadia in Brenta è terminata.
E viva l'allegria. Corpo del diavolo!
Quand' io mi divertisco,
Proprio ringiovenisco.
E quelle ragazzette,
Quanto sono carette!
Per passare con esse i giorni miei,
Cospetto!... non so dir cosa farei.

Per Lauretta vezzosetta
La carrozza vada pure.
Per quell'altra ragazzetta
Li cavalli vadan pure.
Per madama vada il resto.
Mi protesto
Che non vuò pensar a guai:
Sempremai
Voglio star in allegria,
E si spenda in compagnia
Tutto, tutto quel che c'è. (parte)




SCENA UNDICESIMA

Camera in casa di Fabrizio.

Madama Lindora, poi il Conte Bellezza

LIND.
Dove Laura e Rosanna,
Dove mai sono? Oimè! che nel cercarle
Dalla sala alla stanza
Ho tanto camminato
Che mi sento di già mancare il fiato.
Vorrei seder un poco.
Chi è di là? V'è nessuno?
CON.
Madama, vi son io.
LIND.
Da sedere... Oh perdoni,
Non v'aveva veduto.
CON.
A tempo son venuto. (le dà una sedia)
S'accomodi.
LIND.
Mi scusi...
CON.
Anzi al provido ciel le grazie io mando,
Perché degno mi fe' di suo comando.
LIND.
(Non mi dispiace, è tutto gentilezza).
Ma chi è lei, mio signore?
CON.
Son il conte Bellezza,
Un vostro servitore,
Obbligato, divoto e profondissimo.
LIND.
Anzi mio padronissimo.
CON.
Deh, mi conceda l'alto onor sovrano
Di poterle baciar la bianca mano.
LIND.
Ahi!
CON.
Cos'è stato?
LIND.
M'avete rovinato il mio ditino.
Toccate pian pianino;
Son tanto delicata,
Che non posso sì forte esser toccata.
CON.
Leggerissimamente
Alzo la lattea delicata mano,
E con l'avida bocca...
LIND.
No, no, che se mi tocca
L'acuto pelo che vi spunta al mento,
Mi vedrete cadere in svenimento.
CON.
Lo farò con tal arte
Che voi ne stupirete;
Siate pietosa, oh Dio! se bella siete.
LIND.
(Mi commove).
CON.
Prostrato,
Mia bella, al vostro piede,
Vi domando pietà, grazia, mercede.
LIND.
Via, prendete la mano.
CON.
Cara man...
LIND.
Piano, piano.
CON.
Ancor non l'ho toccata.
LIND.
L'avete con il fiato un po' alterata.
CON.
Andrò cauto anche in questo.
Lasciate...
LIND.
Non stringete.
CON.
Riposate la man sovra il mio braccio.
LIND.
Che ruvido pannaccio!
CON.
Vi porrò il fazzoletto!
LIND.
Non mi par molto netto.
CON.
Dunque che far dovrò?
LIND.
Non saprei.
CON.
Ah Madama, io morirò.
LIND.
Vi vorrei compiacer, ma non vorrei
Che la mia compassione...
CON.
Trovata ho una invenzione
Che non vi spiacerà. La bella mano
Alzate da voi stessa,
E mentr'ella s'appressa al labbro mio,
Il labbro inchino, e me l'accosto anch'io.
LIND.
Mi contento.
CON.
Sian grazie al cielo, al fato;
Generosa Madama, io son beato.
Eccomi, alzate un poco.
Ancora un poco più.
LIND.
Non mi stancate.
CON.
Ma se non vi fermate
Per un momento solo...



SCENA DODICESIMA

Fabrizio, Foresto e detti.


FABR.
Signor conte Bellezza, io mi consolo.

FOR.
Ancor io, ma di core.

CON.
(Indiscreta fortuna!) Ma di che?

FABR.
Il principe lei è
Per tutto questo dì d'Arcadia nostra.

CON.
È gentilezza vostra,
Non già merito mio.

FABR.
Anzi i meriti vostri a noi son noti,
E creato v'abbiam con tutti i voti.

LIND.
Anch'io l'Arcadia lodo,
E d'esservi soggetta esulto e godo.

CON.
Ah che più goderei
Il bramato piacer de' labbri miei.

FOR.
A voi, principe degno,
Del suo rispetto in segno
Manda l'Arcadia nostra
Questo serto di fiori.

LIND.
Ahi, mi fate morir con questi odori.

FABR.
Via; madama Lindora
Non li può sopportar.

CON.
Deh riponete
Questo serto fatale.

LIND.
Mi sento venir male.

FABR.
Presto, presto, tabacco.

LIND.
Sì, tabacco.

FABR.
Prenda.

LIND.
È troppo granito;
Se lo prendo, potria maccarmi un dito.

CON.
Questo è fino assai più.

LIND.
Non mi piace, signor; va troppo in su.

FOR.
(Ora l'aggiusto io.
Con questa stranutiglia
Mi voglio divertir con chi ne piglia).
Prenda, prenda di questo:
È foglia schietta, schietta, e leggerissima.

LIND.
Questo, questo mi piace: obbligatissima. (prende tabacco)

FOR.
Comanda? (al Conte)

CON.
Mi fa grazia. (prende tabacco)

FOR.
E voi? (a Fabrizio)

FABR.
Mi fate onore. (lo prende anche lui)

FOR.
(Voglio rider di core.
La stranutiglia vera
Li farà stranutar fino alla sera). (parte)


FABR.
Vada, vada.

CON.
Vada lei. (a Lindora)

LIND.
Anzi lei.
Vada. Eccì. (stranuta)

} a due
Viva, viva.
CON.
LIND.
Grazie. Eccì. (stranuta forte)
Ahi! Eccì.
Ahi! Eccì. (si getta a sedere)

FABR.   
Poverina!

CON.
Presto. Eccì. (stranuta)

FABR.
Che bel garbo!
Son qua io.
Forti. Eccì. (stranuta)

CON.
Altro. Eccì. (stranuta)

LIND.
Aiutatemi. Eccì.

} a due
Che tabacco! Eccì, eccì.
Maledetto! Eccì, eccì.
FABR.
LIND.
Che tormento
Che mi sento!
Più non posso. Eccì, eccì.

CON.
Via, Madama, non è niente.

FABR.
Che tabacco impertinente!

LIND.
Acqua fresca, per pietà. (s'alza)

CON.
Vado a prenderla. Eccì.

FABR.
Ve lo porto. Eccì, eccì.

LIND.
Il mio naso, la mia testa,
Il mio petto. Eccì, eccì.

CON.
V'è passato?

LIND.
Signor sì.

FABR.
State meglio?

LIND.
Par di sì.

a tre
Dunque andiamo in compagnia
A goder con allegria
Dell'Arcadia il primo dì.

LIND.
Vada, vada. Eccì, eccì.
Maledetto tabaccaccio!

CON.
Oh che impaccio! Eccì, eccì.

FABR.
Favorisca.

LIND.
Signor sì.

a tre
Faccia grazia. Eccì, eccì. (partono)






ATTO SECONDO




SCENA PRIMA

Deliziosa.

Tutti a sedere, cioè il Conte in mezzo, Madama Lindora alla dritta, Giacinto presso Rosanna, Foresto vicino a Lauretta, e Fabrizio da un lato, arrabbiato per non essere vicino ad alcuna donna.

CON.
Da' lacci neghittosi del silenzio
Scatenando la lingua,
Qual monarca di Dive e Semidei,
Do glorioso principio a' cenni miei.

FABR.
Signor principe caro,
Il povero Fabrizio
Gli manda un memorial, con cui lo prega
Comandar a' pastor, che per servizio
Lascino qualche ninfa anco a Fabrizio.

CON.
Giuste le preci son, ma non è giusto
Delle ninfe arbitrar. Quella sia vostra,
Che inclinata e proclive a voi si mostra.

FABR.
Tutte vorranno me.

ROS.
Sarei contenta
Se del signor Fabrizio
Foss'io la ninfa eletta;
Ma non vuò disgustar la mia Lauretta.

LAU.
Eh no, no; giacché vedo
Che a voi piace quel viso, io ve lo cedo.

FABR.
E fra due litiganti il terzo goda.
Io sarò di Madama,
Se mi vuol, se mi brama.

LIND.
Vi domando perdono,
Non mi vuò scomodar di dove sono.

FABR.
Dunque dovrò star senza?

GIAC.
Voi dovete soffrire.

FOR.
E aver pazienza.

FABR.
(Maledetti! Mi mangiano le coste,
E penar mi conviene.
Or sì che i miei denar li spendo bene!)

CON.
Dall'arcadico trono,
A cui per vostro dono io son alzato,
Due comandi vi do tutti in un fiato.
Primo: ciascuna ninfa
Scelga il pastor, di tutti alla presenza,
Ma non vuò che Fabrizio resti senza.
Secondo: quel pastor che sarà eletto,
Con qualche regaletto
Riconosca la ninfa,
E lei, com'è il dovere,
Del regalo disponga a suo piacere.

FABR.
Bravo! bravo! vi lodo.

ROS.
D'un tal comando io godo;
Potrò senza riguardi
Il mio genio svelar.

GIAC.
(Già mia voi siete). (piano a Rosanna)

ROS.
Deh lasciate che io finga, e non temete. (piano a Giacinto)

FABR.
Lasciatela parlar. (a Giacinto)

ROS.
Se mi concede
Il sospirato onore,
Sarà il signor Fabrizio il mio pastore.

FABR.
Evviva, evviva. Ah! che ne dite? Oh cara!
Che gioia! che diletto!
Per la mia pastorella io già vi accetto.

LAU.
Piano, piano di grazia, padron mio,
Che ci pretendo anch'io.
Or che non v'è riparo,
La maschera mi levo, e parlo chiaro.
V'ho scelto nel mio core
Di già per mio pastore,
E se non mi volete,
Impazzir e crepar voi mi vedrete.

FOR.
(So che finge). Ma come! Se Rosanna...

ROS.
Io Fabrizio pretendo.

LAU.
Di cedere Fabrizio io non intendo.

FABR.
Signor principe, questo è un brutto imbroglio.

CON.
Dall'arcadico soglio
Così decido e voglio:
Per consolar delle due ninfe il core,
Abbian due pastorelle un sol pastore.

FABR.
Evviva! evviva! bravo per mia fé!
Son capace, lo giuro, anco per tre.

LIND.
Dunque, signor Fabrizio,
S'ella dice da vero e non ischerza,
Io fra le ninfe sue sarò la terza.

FABR.
Venga la quarta ancor, mi fa servizio;
Non mi perdo in la folla; io son Fabrizio.
Levatevi di qua; (a Foresto e Giacinto)
Loco per voi non c'è.
Una volta per uno: tocca a me.

CON.
Olà, suddito nostro,
Fermatevi per ora.
Non è finito ancora:
Se voi pastor delle tre ninfe siete,
Regalar le tre ninfe ora dovete.

FABR.
(Oimè! son imbrogliato.
Questo favor mi vuol costar salato).

GIAC.
Su via, fatevi onore.

FOR.
Via, portatevi ben, signor pastore.

FABR.
A voi, Rosanna bella,
Mia cara pastorella,
Perché mi brilla in sen il cor contento,
Questo picciol brillante io vi presento.

ROS.
È molto spiritoso, è molto bello;
Brilla come che a voi brilla il cervello.

FABR.
Grazie a lei; a Lauretta,
Graziosa vezzosetta,
Per cui ognora tormentato sono,
Quest'orologio d'or presento in dono.

LAU.
Il vostro dono accetto,
contemplar prometto
In lui la vostra amabile figura,
Perché voi siete tondo di natura.

FABR.
Obbligato. A Madama,
Perché si guardi dalla stranutiglia,
Le dò una tabacchiera di Siviglia.

LIND.
Ed io che v'amo tanto, bramerei
Che in questa tabacchiera,
Per poterne goder a tutte l'ore,
Fosse polverizzato il vostro core.

FABR.
Che bontà! che finezze!

CON.
Or di quei doni
Ne disponga ciascuna a suo talento,
faccia al donator un complimento.

ROS.
Io pongo quest'anello
Nelle man di Giacinto,
E dico al donatore
Ch'io lo delusi, e questo è il mio pastore.

FABR.
Come?

LAU.
Quest'orologio
A Foresto consegno,
E al donator io dico
Che già di lui non me n'importa un fico.

FABR.
Che! che!

LIND.
La tabacchiera
Al principe presento e mio pastore,
Perché quel tabaccaccio mi fa male,
E chi me l'ha donato è un animale.

CON.
} a tre
Viva il signor Fabrizio.
Ci rallegriam con lei. (tutti s'alzano)
GIA.
FOR.
FABR.
Che siate maledetti tutti sei.

Corpo del diavolo! - parmi un po' troppo.
Che! sono un cavolo?
Son gentiluomo del mio paese,
Io fo le spese, - io son padrone.
Che impertinenza? che prepotenza?
Come? che dite?
Eh padron mio, basta così.
La vuò finire,
Me ne voglio ire.
Signore ninfe,
Gnori pastori,
Buon viaggio a loro.
Che? non gli piace?
Se n'anderanno,
Signori sì. (parte)




SCENA SECONDA

Tutti, fuorché Fabrizio

LIND.
Oh quanto mi fa ridere: ah, ah. (ride)
Oimè! non posso più: ah, ah, ah, ah.
Messer Fabrizio: ah, ah.
È in collera: ah, ah.
Ahi che mi manca il fiato,
Non posso respirar. (si getta a sedere)
LAU.
Che cosa è stato?
LIND.
Il rider mi scompone e mi rovina.
LAU.
Povera Madamina,
Siete tenera assai, vi compatisco.
(Con questa smorfia anch'io mi divertisco).
FOR.
Signori, con licenza;
Vuò seguitar Fabrizio. Egli è arrabbiato.
Vuò veder di placarlo. A dirla schietta,
Tutto il torto non ha. Ma questo è il frutto
Di chi vuol far di più del proprio stato:
Spende, soffre, non gode, ed è burlato. (parte)
LAU.
Io rido quando vedo
Certi pazzi che fan gl'innamorati,
credon col contante
Render la donna amante,
Quando il genio non v'è, non fanno niente;
Si lascian nell'inganno,
se si voglion rovinar, suo danno.
LIND.
In quanto a questo poi,
Non l'intendo, Lauretta, come voi.
Non dono e non accetto,
per non ingannar nulla prometto.
LAU.
Parliam d'altro, di grazia.
CON.
Deh, Madama,
Andiam per questi deliziosi colli,
Co' vostri bei colori
La vil bellezza a svergognar de' fiori.
ROS.
(Che parlar caricato!) (a Giacinto)
GIAC.
(E pur, così affettato,
Vi dovrebbe piacer). (a Rosanna)
ROS.
(Per qual ragione?) (a Giacinto)
GIAC.
(Piace alle donne assai l'adulazione).
CON.
Concedete ch'io possa (a Rosanna)
Regger col braccio mio... (a Lindora)
LAU.
Eh, signor Conte mio,
Lei parte con Madama,
Rosanna se n'andrà col suo Giacinto;
Ed io resterò sola?
Lei di cavalleria non sa la scola.
CON.
Ha ragion, mi perdoni;
Io son un mentecatto, io son un bue:
Servirò, se il permette, a tutte e due.
LAU.
Se Madama l'accorda...
LIND.
Io nol contendo.
LAU.
Io son contenta, e le sue grazie attendo.
CON.
Eccomi. Favorisca, faccia grazia.
Sull'umil braccio mio poggi la mano.
LAU.
Camminate più presto.
LIND.
Andate piano.
GIAC.
(Son godibili assai) (a Rosanna)
ROS.
(Più grazioso piacer non ebbi mai). (a Giacinto)
LAU.
Ma via, non vi movete?
CON.
Eccomi lesto.
LIND.
Non andate sì presto;
Di già voi mi stroppiate.
LAU.
Con questo andar sì pian voi m'ammazzate.
GIAC.
(Oh belli!)
ROS.
(Oh cari!)
CON.
(Io sono
Nel terribile impegno). Via, Madama, (a Lindora)
Un tantinin più presto;
Eh via, cara signora, (a Laura)
Un tantinin più piano.
LAU.
Più piano di così? Mi vien la morte.
LIND.
Vi dico ch'io non posso andar sì forte.

CON.
Questa forte, e quella piano,
L'una tira, e l'altra molla:
Non so più cosa mi far;
Favoriscano la mano,
Anderò come potrò.
Forti, forti, saldi, saldi.
Vada pur ciascuna sola,
Io gli sono servitor.
Che comanda? eccomi qui.
Ch'io la servi? eccomi pronto.
Camminiam così, così.
Troppo forte? troppo piano?
D'incontrar io spero invano
Di due donne il strano umor. (parte)




SCENA TERZA

Rosanna, Giacinto, Lindora, Lauretta

GIAC.
Ah, ah, che bella cosa!
ROS.
(Cosa in vero piacevole e gustosa!)
LAU.
Madama, andate pian quanto volete;
Per non venir in vostra compagnia,
Vi faccio riverenza, e vado via. (parte)
LIND.
Oibò! correr sì forte
Non conviene per certo ad una dama.
Affettar noi dobbiam, per separarci
Dalla gente ordinaria,
Una delicatezza straordinaria. (parte)



SCENA QUARTA

Rosanna e Giacinto

ROS.
Bei caratteri al certo.
GIAC.
Anzi bellissimi.
Io che stolto non son, scelta ho per ninfa
Donna di senso e di beltà.
ROS.
Di grazia,
Non seguite anche voi quel vil costume
Di adular per piacere.
GIAC.
Ah nol temete;
Io vi stimo assai più che non credete.
ROS.
Per or godo l'onore
Che siate mio pastore,
Ma terminata poi l'Arcadia nostra,
Pastorella non son, non son più vostra.
GIAC.
Chi sa? se non sdegnate
Di chi v'adora il core,
Io per sempre sarò vostro pastore.
ROS.
Felicissima Arcadia allor direi,
Se tutti i giorni miei
Lieta passar potessi al colle, al prato,
Col mio pastor, col mio Giacinto a lato.

Se di quest'alma i voti
Ascolta il Dio d'amor,
Lieto sarà il mio cor,
Sarò felice.
Per or di più non dico,
Ma forse un dì verrà,
Che il labbro dir potrà
Quel ch'or non lice. (parte)



SCENA QUINTA

Giacinto solo.


Pur troppo è ver che s'introduce il foco
D'amor ne' nostri petti, e a poco a poco
Queste villeggiature,
In cui sì francamente
Tratta e conversa ognun di vario sesso,
Queste cagionan spesso
Nella stagion de' temperati ardori
Impegni, servitù, dolcezza, amori.

Per passar dagli occhi al core
Apre il varco al Dio d'amore
La moderna libertà.
Anche amore andria sommesso
Se si usasse col bel sesso
La primiera austerità. (parte)



SCENA SESTA

Fabrizio e Foresto

FABR.
Non vuò, non vuò sentire.
FOR.
Eh via, signor Fabrizio,
Siete un uom di giudizio,
Siete un uomo civile:
Non fate che vi domini la bile.
FABR.
Che bile? che m'andate
Bilando e strabilando?
Ve ne dovete andar qualor vi mando.
FOR.
Finalmente fu scherzo.
FABR.
Sì, fu scherzo, ma intanto
L'orologio, la scatola e l'anello
Non si vedono più.
FOR.
Siete in errore:
Eccovi l'orologio,
La scatola e l'anello.
Ciò ch'ha di vostro ognun di noi vi rende,
Né d'usurpar il vostro alcun pretende.
(gli dà l'orologio, la scatola e l'anello)
FABR.
Eh non dico, non dico, ma vedermi
Strapazzato e deriso...
FOR.
Lo fan sul vostro viso
Per prendersi piacer, ma dietro poi
Le vostre spalle ognun vi reca lode,
del vostro buon cuor favella e gode.
FABR.
Son buon amico; e faccio quel ch'io posso.
FOR.
A proposito, amico,
Che facciam questa sera?
La carrozza è venduta;
Sono andati i cavalli,
E da cena non v'è.
FABR.
Come? In un giorno
Tanti bei ducatoni sono andati?
FOR.
I debiti maggior si son pagati.
FABR.
Io non so che mi far.
FOR.
Siete in impegno,
Sottrarvi non potete.
FABR.
Consigliatemi voi, se lo sapete.
FOR.
L'orologio e l'anello
Si potrian impegnar.
FABR.
Sì, dite bene.
FOR.
Ma non so se denaro
Si troverà abbastanza.
FABR.
Ecco, prendete
Questa scatola ancora.
Altro più non mi resta,
Foresto caro, a terminar la festa.
FOR.
Siete un grand'uom! Peccato
Non abbiate il tesor maggior del mondo
(Che presto noi gli vederemmo il fondo).
Vado a trovar denaro,
E tosto a voi ritorno.
Un certo non so che si va ideando:
Qualor torno, saprete il come e il quando. (parte)



SCENA SETTIMA

Fabrizio, poi Lindora

FABR.
Tutto va ben. Lo so che mi rovino;
Ma non importa. Almen anch'io godessi
Da codeste mie ninfe traditore
Un qualche segno di pietoso amore.
LIND.
Signor Fabrizio. (di lontano)
FABR.
(Questa, a dir il vero,
Mi par troppo flemmatica).
LIND.
Non sente?
Signor Fabrizio. (come sopra)
FABR.
(E pur, se mi volesse,
Io non ricuserei
Di far un poco il cicisbeo con lei).
LIND.
Si-gnor Fa-bri-zio. (con caricatura)
FABR.
Oh cielo! Mi perdoni.
Non l'aveva sentita
LIND.
Ho gridato sì forte, che la gola
Mi si è tutta enfiata;
Quasi in petto una vena m'è crepata.
FABR.
Cancaro! Se ne guardi;
Favorisca.
LIND.
M'aiuti.
FABR.
Eccomi lesto.
LIND.
Non mi tocchi.
FABR.
Perché?
LIND.
Son tenerina.
FABR.
Impastata mi par di ricottina.
LIND.
Ahi! son stanca.
FABR.
S'accomodi, Madama.
LIND.
Sederei volentier, ma questa sedia
È dura indiavolata.
Sul morbido seder son avvezzata.
FABR.
Ehi... dico pian, non tema. Ehi, reca tosto
Una sedia miglior. (viene il Servo)
LIND.
Molt'obbligata.
(Il Servo va, e torna con una sedia di damasco)
FABR.
Sieda qui, starà meglio.
LIND.
Oibò, è sì dura
Cotesta imbottitura,
Ch'io non posso sperar di starvi bene.
FABR.
Rimediarvi conviene.
Porta la mia poltrona.
LIND.
Compatisca, signor.
FABR.
Ella è padrona. (Torna il Servo con la poltrona)
Eccola, se ne servi.
LIND.
Oh peggio, peggio;
No, no, non me ne curo.
Il guancial di vacchetta è troppo duro.
FABR.
Eh corpo d'un giudìo!
Ora la servo io. (parte)
LIND.
Portate via
La sedia ed il guanciale;
Quell'odor di vacchetta, ahi, mi fa male.
(Torna Fabrizio con un matarazzo)
FABR.
Eccole un matarazzo;
Di più non posso far.
LIND.
Quest'è un strapazzo.
Lo conosco, lo so; no, non credevo
Dover soffrir cotanto.
Ahi, che mi vien per il dolore il pianto.

Voglio andar... non vuo' più stare,
Più beffata esser non vuò.
Signor sì, me n'anderò.
Sono tanto tenerina,
Ch'ogni cosa mi scompone;
E voi siete la cagione
Che m'ha fatto lagrimar.
Se sdegnarmi almen sapessi,
Vendicarmi or io vorrei.
Ma senz'altro morirei,
Se m'avessi ad arrabbiar. (parte)



SCENA OTTAVA

Fabrizio, poi Foresto

FABR.
Si contenga chi può. Corpo del diavolo!
Non ne poteva più.
FOR.
Signor Fabrizio,
Il principe d'Arcadia ha comandato
Che dobbian recitar all'improvviso
Stassera una commedia.
FABR.
Io non ne so.
FOR.
Non temete, ch'io vi contenterò.
Il Conte ha destinato
Di far da innamorato;
Da innamorata dovrà far Madama.
Lauretta fa la serva,
Io fo da genitore,
E voi dovete far da servitore.
FABR.
Da servitor?
FOR.
Cioè la parte buffa.
FABR.
Il buffo io dovrò far? Quest'è un mestiere
Ch'è difficile assai;
Per far ridere i pazzi
Non vi vuol grand'ingegno.
Ma far rider i savi è grand'impegno.
FOR.
Già s'avanza la notte:
Andatevi a vestir, ch'io venirò.
FABR.
Farò quel che potrò:
Mi dispiace il parlar all'improvviso.
Se fosse una commedia almen studiata,
Si potrebbe salvar il recitante
Dicendo che il poeta è un ignorante. (parte)



SCENA NONA

Foresto solo.


Certo non dice mal; sogliono tutti
Gettar la colpa su la schiena altrui.
Se un'opera va mal, dice il poeta:
«La mia composizion è buona e bella;
Quel ch'ha fallato è il mastro di cappella ».
E questo d'aver fatto
Gran musica si vanta,
E che il difetto vien da chi la canta.
Infine l'impresario,
Senza saper qual siane la cagione,
Se ne va dolcemente in perdizione.

Perché riesca bene un'opera,
Quante cose mai vi vogliono!
Libro buono e buona musica,
Buone voci e donne giovani,
Balli, suoni, scene e macchine.
E poi basta? Signor no.
Che vi vuol? Io non lo so.
Ma nol sa nemmen chi critica,
Benché ognun vuol criticar.
Parla alcuno per invidia,
Alcun altro per non spendere,
Mentre il più di tutti gli uomini
Col capriccio che li domina
Suol pensare e giudicar. (parte)



SCENA DECIMA

Sala.

Il Conte col nome di Cintio, e Fabrizio da Pulcinella. Lauretta da Colombina, Lindora col nome di Diana, e in fine Foresto da Pantalone

CON.
Seguimi, Pulcinella.
FABR.
Eccome ccà.
CON.
Siccome un'atra nube
S'oppone al sole, e l'ampia terra oscura,
Così da quelle mura
Coperto il mio bel sol cui l'altro cede,
L'occhio mio più non vede. Ond'è che afflitto
I nuovi raggi del mio sole attendo.
FABR.
Tu me parle tidisca, io non t'intendo.
CON.
Fedelissimo servo,
Batti tu a quella porta.
FABR.
A quale porta?
CON.
A quella.
FABR.
Io non la vedo.
CON.
Finger dei che vi sia.
In vece della porta,
In un quadro si batte o in una sedia,
Come i comici fanno alla commedia.
FABR.
Aggio caputo, ma famme una grazia;
Perché da tozzolare aggio alla porta?
CON.
Acciò che la mia bella
Venga meco a parlar.
FABR.
Ccà sulla strada?
CON.
È ver, non istà bene
Che facciano l'amor sopra la strada
Civili onesti amanti:
Ma ciò sogliono usar i commedianti.
FABR.
Sì sì, tozzolerò; ma se qualcuno,
Quando ho battuto io, battesse a me?
CON.
Lascia far, non importa, io son per te.
FABR.
O de casa.
LAU.
Chi batte? (di dentro)
FABR.
Sono io.
LAU.
Serva sua, signor mio.
FABR.
Patron, chessa è per me.
CON.
Chi siete voi,
Quella giovine bella?
LAU.
Io sono Colombina Menarella.
CON.
Di Diana cameriera?
LAU.
Per servir vussustrissima.
FABR.
Obregato, obregato.
CON.
Deh vi prego,
Chiamatela di grazia.
LAU.
Ora la servo.
FABR.
Sienteme, peccerella,
Vienence ancora tuie,
Che ance devertarimmo fra de nuie.
LAU.
Sì, sì, questa è l'usanza;
Se i padroni fra lor fanno l'amore,
Fa l'amor con la serva il servitore.

Il padron con la padrona
Fa l'amor con nobiltà:
Noi andiamo più alla bona
Senza tanta civiltà.
Dicon quelli: «Idolo mio,
Peno, moro, smanio, oh Dio! »
Noi diciam senz'altre pene:
«Mi vuoi ben? ti voglio bene»;
E facciamo presto presto
Tutto quel che s'ha da far.
Dicon lor ch'è un gran tormento
Quell'amor che accende il core;
Diciam noi ch'è un gran contento
Quel che al cor ci reca amore.
Ma il divario da che viene?
Perché han quei mille riguardi:
Penan molto, e parlan tardi.
Noi diciam quel che conviene
Senza tanto sospirar. (si ritira fingendo chiamar Diana)

CON.
Ti piace, Pulcinella?
FABR.
A chi non piaceressi, o Menarella?
CON.
Ecco, viene quel bel che m'innamora.
FABR.
Con essa viene Menarella ancora. (Vengono Lindora e Lauretta)
CON.
Venite, idolo mio.
Venite per pietà.
LIND.
Vengo, vengo, mio bene, eccomi qua.
CON.
Voi siete il mio tesoro.
LIND.
Per voi languisco e moro.
FABR.
Ah, tu sì la mia bella. (a Lauretta)
LAU.
Ah voi siete il mio caro Pulcinella.
CON.
A voi donato ho il core. (a Lindora)
LIND.
Ardo per voi d'amore.
FABR.
Per te me sento lo Vesuvio in pietto. (a Lauretta)
LAU.
Cotto è il mio core al foco dell'affetto.

CON.
Vezzosetta, mia diletta, (a Lindora)
FABR.
Cintio caro, Cintio mio.
LIND.
Menarella, mia carella.([1])
LAU.
Pulcinella bello mio.
LIND.
Che contento, che diletto!
LAU.
Vien, mio bene, a questo petto.
a quattro
Io ti voglio un po' abbracciar. (Viene Foresto, da Pantalone)
FOR.
Olà, olà, cossa feu?
Abrazzai?
Cagadonai!
Via cavève, via de qua.
LIND.
Io m'inchino al genitore.
LAU.
Serva sua, signor padrone.
CON.
Riverisco, mio signore.
FABR.
Te so' schiavo, Pantalone.
FOR.
El ziradonarve attorno;
Tutti andève a far squartar.
CON.
Vuol ch'io vada?
FOR.
Mi ve mando.
FABR.
Vado anch'io?
FOR.
Mi v'ho mandao.
CON.
Anderò colla mia bella.
FABR.
Anderò con Menarella.
LIND.
Io contenta venirò.
FABR.
Via, tiolè sto canelao.
FOR.
Co le putte? oh questo no.
LIND.
Signor padre, per pietà. (s'inginocchia)
LAU.
Gnor padron, per carità. (s'inginocchia)
CON.
Deh, vi supplico ancor io. (fa lo stesso)
FABR.
Pantalon, padrone mio. (fa lo stesso)
FOR.      
Duro star no posso più.
Via, mattazzi, levè su.
a quattro
Io vi prego.
FOR.
Zitto là.
a quattro
Vi scongiuro.
FOR.
Vegnì qua.
Cari fioi, deve la man.
Alla fin son Venezian,
M'avè mosso a compassion.
a quattro
Viva, viva Pantalon.
a cinque
Viva, viva il dolce affetto;
Viva, viva quel diletto
Che produce un vero amor,
Che consola il nostro cor. (partono)





ATTO TERZO




SCENA PRIMA

Camera.

Fabrizio, poi Lauretta

FABR.
Oimè! dove m'ascondo?
Oimè! che son andato in precipizio.
Povera Arcadia! povero Fabrizio!
È finito il denaro;
È venduto il vendibile. Ogni cosa
Alfin s'è terminata il giorno d'ieri,
E non v'è da mangiar pei forastieri.
Oh sorte! oh cielo! oh fato!
Io non so che mi far, son disperato.
LAU.
Signor Fabrizio, d'ogni grazia adorno,
Io gli auguro buon giorno.
FABR.
Grazie a vussignoria.
LAU.
Che mai ha, che mi pare
Alterato un tantin?
FABR.
Mi duole il capo.
LAU.
Me ne dispiace: anch'io
Mi sento nello stomaco aggravata.
Beverei volentier la cioccolata.
FABR.
(La solita campana).
LAU.
Vuol far grazia
D'ordinarla in cucina?
FABR.
(Certo tu non la bevi stamattina).



SCENA SECONDA

Madama Lindora e detti.

LIND.
Signor Fabrizio amabile e garbato,
Ella sia il ben levato.
FABR.
Ancora lei...
LIND.
Supplicarla vorrei
Ordinar mi sia data
La mia colazioncina praticata.
FABR.
E in che consiste la sua colazione?
LIND.
Fo pestar un cappone,
Poscia lo fo bollire a poco a poco,
E lo fo consumar fin che vi resta
Di brodo un scodellino,
E vi taglio due fette di panino.
FABR.
Se il cappon non vi fosse...
LIND.
Oh me meschina!
Certo mi ammalerei,
Certo per debolezza io morirei.
FABR.
(Se il brodo di cappon vuol aspettare,
Stamattina Madama ha da crepare).



SCENA TERZA

Il Conte e detti.

CON.
Nostro eroe, nostro nume, (a Fabrizio)
Giacché nel principato
Anco per questo dì fui confermato,
Impongo che si faccia
Una solenne strepitosa caccia.
I cacciator son lesti,
Sono i cani ammanniti; altro non manca
Che il generoso core
D'ospite così degno
Supplisca dal suo canto al grande impegno.
FABR.
Come sarebbe a dir?
CON.
Poco, e polito:
Un sferico pasticcio,
Due volatili allessi,
Un quadrupede arrosto,
Torta, latte, insalata, e pochi frutti;
E poi il di lei bel cor contenta tutti.
FABR.
Ah, non vuol altro? Sì, sarà servito;
Stamane il desinar sarà compito.



SCENA QUARTA

Foresto e detti.

FOR.
Signor Fabrizio.
FABR.
Ebben, che c'è di nuovo?
FOR.
È un'ora che vi cerco, e non vi trovo.
Dove diavolo è
Il rosolio, il caffè?
Giacinto ne vorria, Rosanna il chiede,
E un cane che lo porti non si vede.
FABR.
Oh canchero! mi spiace. Presto, presto,
Pancrazio, dove sei? (viene il Servo)
Apri l'orecchio bene:
Servi questi signor come conviene.

A Lauretta la sua cioccolata,
A Madama un tazzin di ristoro,
Il rosolio a quegli altri, e il caffè.
Poi farai una torta sfogliata.
(Zitto... ascolta). Farai un pasticcio...
(Zitto, dico. Non dir non ve n'è).
(Già lo so tutto quel che vuoi dire.
Non v'è roba, non v'è più denaro.
Non importa, sta cheto, l'ho caro;
Tai pensieri non toccan a te). (parte col Servo)



SCENA QUINTA

Il Conte, Madama Lindora, Lauretta e Foresto

CON.
Generoso è Fabrizio.
LIND.
E di buon core.
LAU.
Per le ninfe d'Arcadia è un buon pastore.
FOR.
Signori miei, disingannar vi voglio.
Il povero Fabrizio è disperato.
Egli s'è rovinato:
Ordina di gran cose, ma stamane
Non ha due soldi da comprarsi un pane.
LAU.
Ma la mia cioccolata?
FOR.
Per stamattina è andata.
CON.
La caccia e il desinar?
FOR.
Convien sospendere
Fin che si trovin quei che voglion spendere.
LIND.
Ma il cappon vi sarà?
FOR.
No, certamente.
LIND.
Come viver potrò senza ristoro?
Ahimè, che languidezza! Io manco, io moro.
CON.
Ah Madama, Madama,
Eccovi samperiglie,
Spirito di melissa,
Acqua della regina,
Estratto di cannella soprafina.
LIND.
V'è alcuna spezieria?
FOR.
Sì, mia signora.
LIND.
Deh fatemi il piacer, Contino mio,
Andatemi a pigliare,
Giacché non ho ristoro,
Della polvere d'oro,
Un cordiale di perle,
Un elixir gemmato
Con qualche solutivo delicato.
CON.
Per servirvi, Madama, in un istante,
Pongo lo sprone al cor, l'ali alle piante. (parte)



SCENA SESTA

Madama Lindora, Lauretta e Foresto

LAU.
Eh, Madamina mia,
So io che vi vorria
Perché ogni vostro mal fosse guarito.
LIND.
E che mai vi vorrebbe?
LAU.
Un bel marito.

Le fanciulle giovinette
Son soggette a certi mali,
Ma non hanno gli speziali
La ricetta che vi vuol.
Altro recipe richiede
Della giovine il difetto:
Un amante giovinetto
D'ogni mal sanar la puol. (parte)



SCENA SETTIMA

Madama Lindora e Foresto

FOR.
Che ne dite, Madama? la ricetta
Piacevi di Lauretta?
LIND.
Io non ascolto
Né di lei, né di voi le debolezze.
Le passioni d'amor son leggerezze.
FOR.
Modestia è gran virtù. Ma finalmente
La passione del cor convien che sbocchi;
Che se il labbro non parla, parlan gli occhi.
Voi adorate il Conte.
LIND.
State zitto, ch'ei viene.
FOR.
Parto, perché sturbarvi non conviene. (parte)



SCENA OTTAVA

Madama Lindora, poi il Conte con uno Speziale
con vari medicamenti.

LIND.
Io l'amo, è ver, ma non vuò dirlo adesso;
Vuò sostener la gravità del sesso.
CON.
Eccovi lo spezial, signora mia,
Ed ha mezza con lui la spezieria.
LIND.
Il cordiale? (al Conte)
CON.
(Allo Speziale) Il cordiale. Ecco il cordiale. (a Madama)
LIND.
Mezzo voi, mezzo io.
CON.
Io non ho male.
LIND.
Quando si serve dama,
Ricusar non si può.
CON.
Dite ben, dite bene: io beverò. (ne getta mezzo in un bicchiere, e lo beve, poi dà il resto a Lindora)
LIND.
È gagliardo?
CON.
Un po' troppo.
LIND.
Ne vuò assaggiar un poco:
Ah no, no, non lo voglio, è tutto foco.
Datemi l'elixir.
CON.
Eccolo qui.
LIND.
Bevetene voi prima in quel bicchiere.
CON.
Ma io...
LIND.
Ma voi non siete cavaliere...
CON.
Vi domando perdono:
Vi servo, io bevo, e cavalier io sono.
LIND.
Vi piace?
CON.
Niente affatto.
Mi ha posto un Mongibel nel corpo mio.
LIND.
Dunque, quand'è così, non lo vogl'io.
CON.
Ed io intanto l'ho preso.
LIND.
Oimè! mi sento
Lo stomaco pesante.
Ha portato il purgante?
CON.
Sì, Madama,
È questo un solutivo
Ch'è molto operativo;
E se voi vi sentite indigestione,
In poch'ore farà l'operazione.
LIND.
Lasciatelo veder.
CON.
Eccolo.
LIND.
È troppo
Per lo stomaco mio.
Mezzo voi il beverete, e mezzo io.
CON.
Bisogno non ne ho.
LIND.
Che importa questo?
Prendetelo e bevete,
Se cavalier voi siete.
CON.
Beverò, beverò, sì, Madamina.
(Ella ha mal, ed io prendo medicina).
LIND.
Oibò, nausea mi fa. No, non lo voglio.
CON.
Io sento un grande imbroglio
Nello stomaco mio.
LIND.
Conte, soffrite voi, che soffro anch'io.

CON.
Sì, Madama, soffrirò;
Ma mi sento un certo che...
Che vorrebbe tornar su.
Ahi, soffrir non posso più.
Deh, ch'io vada permettete,
Attendete, tornerò.
No, vi dico, non vorrei...
Se sentiste i dolor miei!
Nol credete? io tacerò.
Voi volete? io creperò. (parte)



SCENA NONA

Madama Lindora, poi Giacinto

LIND.
Povero Conte! Al certo riderei,
Se non mi fesse il rider tanto male.
GIAC.
Madama, siete attesa.
Avrete di già intesa
La disgrazia dell'ospite compito,
Che per la bell'Arcadia è già fallito.
Rosanna, che non lungi ha la sua villa,
Tutti seco c'invita:
Colà l'Arcadia unita
Sarà con più giudizio,
E con noi condurremo anco Fabrizio.
LIND.
Oh povero Fabroni!
Me ne dispiace assai; ma non ci penso,
Perché se ci pensassi,
Forse per compassion m'attristerei,
E attristandomi un poco, io morirei.

Non voglio affanni al core,
Non vuò pensare a guai,
Non ci ho pensato mai,
E non ci penserò.
Io son d'un certo umore,
Che par che mesta sia,
pur malinconia
Dentro il cor mio non ho. (parte)



SCENA DECIMA

Giacinto, poi Rosanna

GIAC.
Può darsi ch'ella sia
Allegra più di quel ch'ognuno crede,
Ma fa morir d'inedia chi la vede
ROS.
Giacinto, il tutto è pronto.
Preparato è il burchiello,
Mandato avanti ho i servitori miei;
Che veniste voi meco io bramerei.
GIAC.
Non ricuso l'onor che voi mi fate.
ROS.
Anzi, se non sdegnate,
Quando nella mia casa voi sarete,
Io farovvi padrone, e disporrete.
GIAC.
Io, Rosanna, perché?
ROS.
Perché se veri
Son quei detti di ieri...
Basta, di più non dico.
GIAC.
Sì, mia cara, v'intendo,
E da voi sol la mia fortuna attendo. (parte)



SCENA UNDICESIMA

Rosanna sola.


Giacinto ha un certo brio
Che piace al genio mio.
Per lui, a poco a poco,
M'accese un dolce foco in seno Amore.
L'amo, l'adoro, e gli ho donato il core.

Principiai amar per gioco,
E d'amor il cor m'accesi;
Già m'alletta il dolce foco,
E maggiore ognor si fa.
Fra i piaceri e fra i diletti
Oggi nacque il mio tormento:
Ma d'amare io non mi pento,
Perché spero alfin pietà. (parte)



SCENA ULTIMA

Giardino che termina al fiume Brenta, in cui evvi il burchiello che attende la compagnia dell'Arcadia.

Fabrizio, poi Foresto, poi Rosanna, poi Giacinto, Madama Lindora, poi Lauretta, e per ultimo il Conte

FABR.
No, non vuò che si dica
Ch'io abbia avuto di grazia
D'andar in casa d'altri
Dopo aver rovinata casa mia.
Vuò fuggir la vergogna, e scampar via. (s'incontra in Foresto)
FOR.
Dove, signor Fabrizio?
FABR.
Vado a far un servizio:
Aspettatemi qui, che adesso torno
(vuol andar da una parte, e s'incontra in Rosanna)
ROS.
Cercato ho ogni contorno,
Alfin v'ho ritrovato;
Signor Fabrizio amato,
Degnatevi venir in casa mia.
FABR.
Con buona grazia di vussignoria.
(vuol andar da un altro lato, e s'incontra in Giacinto)
GIAC.
Fermatevi, signore;
Fateci quest'onore:
Venite da Rosanna a star con noi.
FABR.
Aspettate un pochino, e son con voi.
(si volta da una parte, e incontra madama Lindora)
LIND.
Dove correte?
FABR.
(Oh bella!) (vuol rigirarsi per un altro lato, e incontra il Conte)
CON.
Voi siete prigionier, non vi movete.
FABR.
Che vi venga la rabbia a quanti siete.
FOR.
Orsù, signor Fabrizio,
Permettete ch'io parli; ognuno sa
Che siete un galantuomo,
Che siete rovinato,
Che non v'è più rimedio. Ognun vi prega
Che venghiate con noi: se ricusate,
Superbia e non virtù voi dimostrate.
ROS.
Vi supplico.
LIND.
Vi prego.
LAU.
Vi scongiuro.
CON.
Non siate con tre donne ingrato e duro.
FABR.
Orsù, m'arrendo al generoso invito.
Non è poca fortuna
Per un uom rovinato
Esiger compassion dal mondo ingrato.
Per lo più quegl'istessi,
Ch'hanno mandato il misero in rovina,
Lo metton con gli scherni alla berlina.

TUTTI
Signor Fabrizio,
Venga con noi,
E lieto poi
Ritornerà.
FABR.
Vengo, e ringrazio
Tanta bontà
TUTTI
L'Arcadia in Brenta
È terminata,
E la brigata
Via se ne va.
FABR.
Andata fosse
Tre giorni fa.
TUTTI
Signor Fabrizio,
Venga con noi,
E lieto poi
Ritornerà.
FAB.
Vengo, e ringrazio
Tanta bontà.

Fine del Dramma.


([1]) Così nel testo. Probabilmente devono essere invertite le battute:
LIND.
Cintio caro, Cintio mio.
FABR.
Menarella, mia carella.