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domenica 30 ottobre 2011

STREHLER ALLE PROVE CHE GRANDE SPETTACOLO


MILANO - "Che succede, Andrea, hai paura?". "Sì, Giorgio ho proprio paura". "Ma di che, stiamo provando, stiamo fra noi. Di chi hai paura, di me, degli amici che sono qua?". "No, non ho paura di loro. Ho paura di me". "Hai ragione. Soltanto i giovani sono incoscienti e gli basta un po' di polvere di palcoscenico per inebriarsi. I giovani o i buffoni, gli attori che non capiscono niente. Invece, più cresce, più un vero attore ha paura. E ci sono due ragioni, una oggettiva e una soggettiva. Si ha paura per inadeguatezza, perchè ci si rende conto di essere lontanissimi da quei grandi personaggi che siamo chiamati a rappresentare, e per autocoscienza, per la consapevolezza di noi stessi. E' giusto aver paura. Ma bisogna farsela passare. Ora va dentro, per favore, che cominciamo". E' una sera dell' ultima settimana di prova di Come tu mi vuoi. Siamo nella "storica" sala sotterranea di via Rovello, col soffitto bianco bucherellato da Fontana. In mezzo al corridoio della platea è piazzato un tavolo di regia: una lampada fioca, qualche tazza dell' "orribile tè" che Strehler sorseggia ogni tanto, un copione fittamente annotato, un paio di assistenti solerti, lo scenografo Frigerio, e lui, Strehler, tutto nero, il maglione dolce vita e i pantaloni; molto più calmo di come lo descrivono normalmente in prova, molto cortese, addirittura paziente con gli inciampi tecnici, a tratti divertente per qualche battuta o qualche imitazione che si lascia sfuggire. Dietro a lui una trentina di persone in silenziosa osservazione: studenti della sua scuola, qualche attore, un paio di giornalisti. I suoi collaboratori mi hanno spiegato che "in fondo si potrebbe andare in scena già da una decina di giorni, perchè le cose sono filate lisce, la regia lui ce l' aveva già tutta in testa", e si prova ormai spesso tutto lo spettacolo di seguito (il che normalmente a teatro si riesce a fare solo alla vigilia del debutto o quasi); ma ora "il maestro sta lavorando di cesello". E proprio a uno di questi "filage" sono stato invitato ad assistere. "Mezza sala" comanda Strehler, dopo il dialogo ad alta voce con Andrea Jonasson, la protagonista dello spettacolo oltrechè nel privato sua moglie: grandissima attrice che spesso e anche qui indossa ruoli duri, ma è molto bella e commovente in questa fragilità dietro le quinte. "Sipario, buio, via, incominciamo". Il posto regia del Piccolo non ha un aspetto particolarmente tecnologico, niente a che fare con i cercapersona, i walkie talkie, le cuffie e i telefoni della Scala. Ma si ha la sensazione di un' èquipe affiatatissima, docile alla volontà di Strehler, precisa come quella di un lancio spaziale o di un' operazione chirurgica. Rispetto a tutte le altre prove che ho seguito, qui le esitazioni e i tempi morti sono minori, tutto sembra più oleato e più rodato, la concentrazione e la pazienza dei collaboratori sono assolute. Il sipario - arnese poco usato al Piccolo - è una parete rigida decorata a sbalzo in un liberty nero e dorato. Dietro c' è un salotto dello stesso stile dominato dalla statua bianca di una figura femminile nuda e da una grande vetrata a colori. Qui gli spettatori avranno la prima sorpresa, perchè buona parte del primo atto è recitato in tedesco "in una traduzione che abbiamo fatto appositamente noi, perchè le versioni tedesche disponibili sono inutilizzabili": una scelta che potrebbe sembrare naturalistica, dato che la scena è ambientata a Berlino. Ma, ammonisce Strehler facendo ripetere a un certo punto qualche battuta: "Attenzione, qui Pirandello molto spesso scherza. Neanche una riga di quest' atto è psicologicamente realistica, non si capisce niente a cercare una coerenza. Certo che però ho letto di recente un giornale che raccontava il caso Bruneri-Canella, quello scambio di persona cui è ispirata la commedia, e anche allora successero delle cose abbastanza incredibili: la moglie che spia lo smemorato dietro al paravento, lo fa riconoscere dagli amici, poi se lo porta via...". Strehler si appassiona a mostrare come Pirandello doveva vedere la vicenda, e ogni tanto interloquisce con gli attori in una specie di dialetto siciliano di maniera: "Vedesse, brigadiere, nulla sapevo, io, nulla vidi...". Altre volte ironizza sull' idea di Berlino capitale di tutti i vizi perorata dalla protagonista del dramma: ""Specchi, bicchieri, bottiglie, tutti nudi": questo era il modo in cui lui si figurava l' inferno, pensate voi! Oggi bisognerebbe dire, chessò, "siringhe, eroina..."". La scena è concitata, drammatica, ma il primo atto questa sera procede lentamente, con molte ripetizioni. L' azione è molto forte, Andrea Jonasson si contorce in un abito molto audace, è straordinaria per intensità "come in uno psicodramma", ma il regista non è soddisfatto: "Ho l' impressione che sapete troppo bene la parte, la fate un po' meccanicamente, non c' è freschezza, voglio più qualità", continua a esortare in italiano e in tedesco. Mentre gli attori dicono le loro battute, Strehler le ripete o le anticipa o le varia o le spiega a voce molto alta, offre un appoggio o dà un' intonazione, non è mai passivo. Lavora a lungo sul monologo finale della protagonista, si alza, mima una voce femminile e a tratti mi ricorda un disco che ho sentito una volta con certe prove di Toscanini, in cui il direttore cantava, bofonchiava, approvava o sgridava, creando una strana apparenza di cacofonia alla ricerca della perfezione. Nella pausa arriva a spiegarsi Franz Bhm, l' amante tedesco della protagonista: Strehler lo rassicura, invitandolo a fidarsi di più della sua intuizione, a pensare di meno fra le battute. Poi spiega ai presenti che quell' attore di Monaco gli piace, che l' ha preso anche se i video dei suoi spettacoli non erano granchè. "Non è una star, ma crescerà senz' altro molto" è la sentenza del maestro. Si riapre il sipario sulla scena molto chiara che rappresenta una stanza affrescata di una villa veneta, che però appare solo dietro una grande scatola di plexiglas, che è la stessa dell' atto precedente, diventata però ora trasparente. E qui però vien fuori il solo vero problema della serata. Andrea Jonasson nell' atto precedente aveva un vestito di lamè molto scollato, con i capelli sotto un caschetto; adesso invece l' abito è vaporoso e i capelli sono liberi, acconciati anch' essi in stile liberty. Ma non c' è il tempo per acconciarli nell' intervallo fra i due atti, e dunque si usa una parrucca. La quale però per Strehler si vede troppo, e non ha senso quando un' attrice "ha quei capelli stupendi che Andrea chiama spinaci". Che fare? Ridurre il toupèt, montare un casco da parrucchiere in camerino, dove però sembra che non ci sia posto? Consultazioni, dibattiti, un po' di nervosismo; si vedrà. L' attrice va a farsi pettinare provvisoriamente, e poi si procede, quasi senza interruzioni. Fuggita dalla vita degradante di Berlino, la Sconosciuta si trova in mezzo a sgradevoli conflitti di interessi, suo marito è perseguitato dall' amante berlinese che vuole vendetta. I tempi incalzano, forse troppo. Spesso Strehler deve fermare gli attori per ottenere da essi delle pause. "Ricordati" dice a un certo punto il regista all' attrice "che la nostra posizione è questa: il tuo personaggio non è una volgare mentitrice, deve aver avuto quanto meno una storia simile a quella della donna che l' hanno chiamata a impersonare, non ricorda davvero, ogni tanto crede di riconoscersi nelle cose che si trova intorno, dubita, cerca effettivamente se stessa, prova sul serio a ritrovare la memoria. La sua non è un' impostura ma una ricerca di identità". Il terzo atto, col grande rifiuto finale della Sconosciuta, è quello meno perfetto, su cui bisogna lavorare di più, ma stranamente corre quasi filato, con solo un paio di interruzioni, soprattutto per mettere a punto l' ingresso del berlinese con l' altra smemorata, che trasforma l' atmosfera chiara della villa in un luogo nebbioso e plumbeo, illuminato in controluce, quasi prenazista. Il colpo di scena finale, con la donna che se ne va portandosi via quasi con affetto misterioso da sorella la carrozzella della sua sosia, è appena accennato. Si lavora per un po' alle luci, e poi si rinvia tutto al giorno dopo. E' quasi mezzanotte, passa a salutare Andrea Jonasson, con la faccia segnata dalla stanchezza e un sorriso fra l' appagato e il timido, dagli uffici arrivano carte, programmi e foto per Strehler. Un po' rauco, con un calo evidente di tensione il regista se ne va. E anch' io esco dal teatro, quasi sei ore dopo esserci entrato. Ma non provo fatica. E' stata una serata teatrale densa e viva, una delle poche della stagione. Perchè non c' è dubbio, hanno ragione i registi e gli attori, è molto più divertente e interessante farlo il teatro, o vederlo fare, piuttosto che riceverlo pronto da spettatore. - di UGO VOLLI

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