Annamaria Trevale intervista Sergio Scorzillo a proposito di "Non ti preoccupare"
Tu scrivi da sempre, dalle canzoni ai testi teatrali, ma solo adesso hai deciso di
dedicarti alla narrativa. Cosa ti ha fatto scegliere la forma del romanzo?
Infatti scrivo da sempre, ho sempre scritto anche romanzi, soprattutto gialli e noir, ma li
trovi solo in fondo ai miei cassetti. Dopo che ho vinto un paio di premi nazionali come
drammaturgo mi sono dedicato a scrivere e a far girare soltanto i mei testi di teatro. Lì mi
sentivo più “forte”, se vogliamo…visto che il riscontro esterno era sempre positivo. Da
alcuni anni i testi per la scena mi vengono “richiesti”, nel senso che mi viene affidato un
tema da un committente e poi lavoro io su come rendere sul palco quel tema. Ha iniziato
lo scrittore Paolo Roversi, affidandomi la scrittura teatrale del suo romanzo “Taccuino di
una sbronza”, poi tutto è venuto di conseguenza grazie al passaparola. Mi scrivi uno
spettacolo sulla Prima guerra mondiale? Sulla seconda? Su una parabola a sfondo
familiare? Da Oscar Wilde? Ed ecco i miei “La guerra di Alvise”, “Fuori dal fango”,
“Prodigus”, “Ballata lirica”. Il più delle volte mi si chiede di farne anche la regia, e li
porto in scena con la mia compagnia Reading Gaol.
Anche questa volta l’idea non è venuta da me. Francesco Danile, che ha aperto
l’Associazione Antonio Danile che si occupa di raccogliere fondi per la depressione, mi ha
chiesto di scrivere un libro sulla storia di suo fratello, suicidatosi nel 2018. Ho accettato
con entusiasmo perché i grandi temi, importanti, mi interessano moltissimo. Mi piace
scrivere di argomenti forti. Mi piace l’idea di lasciare un segno, di emozionare, non di
“divertire”. Gli ho subito detto che non avrei voluto fare un racconto giornalistico, volevo
proprio farne un romanzo, che raccontasse la storia vera, ma che fosse anche emblematico,
poetico…
In realtà, “Non ti preoccupare” è un libro ibrido, perché utilizza due forme differenti
per raccontare la stessa storia: il romanzo esprime la voce narrante di Francesco, il
testo teatrale che segue è incentrato sul fratello Antonio. Quale dei due è nato per
primo?
È nato per primo il testo teatrale. Lo spettacolo avrebbe dovuto andare in scena subito
dopo l’approvazione del testo, purtroppo per la pandemia in corso non è stato possibile, e
conto di portarlo sul palco i primi mesi del 2023. Quando ho scritto il copione mi sono
immedesimato in Antonio, soprattutto. Mi sono figurato di essere lui, nella sua stanza,
intento a prepararmi al gesto finale. Pochi oggetti in scena, un letto, una valigia grande,
una valigia piccola…E negli ultimi istanti prima di compiere l’atto, rivedere (proiettare
fuori di me) momenti del passato, dialoghi col fratello, con un dottore, frammenti di cose
sentite e rielaborate. Il testo è molto simbolico. Avevo poche informazioni in quel
momento e mi sono basato soprattutto su impressioni e visioni mie. Figura chiave della
vicenda la presenza di una Lei, che inizialmente sembra una delle donne di Antonio, in
realtà si tratta della Depressione, che lo guida e lo manipola fino all’epilogo. Il romanzo
invece l’ho scritto dal punto di vista del fratello Francesco, è una sorta di diario, un
monologo in prima persona, in cui Francesco si rivolge continuamente ad Antonio,
ricordandogli il passato, e quello che è accaduto fino a questo momento, il momento in cui
lui sta andando a vedere in casa del fratello cosa è successo.
Quale delle due voci è stata per te più difficile da raccontare?
Direi il romanzo, dove sono Francesco. Perché i fatti che avrei dovuto riportare, veri,
erano molti. Si parla della famiglia nel suo complesso, indietro nel tempo fino ai nonni. La
struttura che ho voluto utilizzare non segue la vicenda in modo lineare. Parto dal momento
in cui Francesco si reca, chiamato da una donna delle pulizie, in casa di Antonio che non
vede da qualche tempo e più si avvicina al luogo più la mente lo ributta indietro,
continuamente indietro, a ripensare fatti, situazioni, a momenti felici e altri drammatici, e
questo gioco di rimandi e ritorni rende il tutto faticoso. Come se la parola finale definitiva
non volesse essere raggiunta. Come se fosse appunto faticoso scoprire la realtà. Credo sia
(e i molti riscontri positivi che ho avuto me lo confermano) la chiave vincente e
avvincente del libro. La sua struttura labirintica.
Si parla abbastanza di depressione, oggi, oppure continuiamo a sottovalutare la sua
gravità e le conseguenze che ha sulla vita non solo dei soggetti malati, ma anche delle
persone costrette a relazionarsi con loro, dai familiari agli amici o colleghi?
Se ne parla un po’ più che nel passato, ma ancora viene molto sottovalutata. Se ne ha
vergogna anche a parlarne. Se ne vergogna chi è colpito, i familiari…Decidere di andare
da uno psicologo risulta difficile. È come ammettere di essere mentalmente non stabili,
“matti”.
Dal racconto in prima persona di Francesco, che ci trasmette tutta la sua impotenza
di fronte alla depressione che distrugge la vita del fratello, emerge prima di tutto la
sensazione che sia quasi impossibile comunicare in modo corretto con una persona
seriamente depressa, e quindi molto complicato aiutarla a superare la malattia. Pensi
che il tuo libro possa aiutare qualcuno nella stessa situazione ad agire meglio, per
esempio evitando gli errori che Francesco ritiene di aver compiuto lungo il percorso?
Infatti. La storia del rapporto tra Antonio e Francesco credo di averla trattata proprio in
modo da fare rilevare questo. La difficoltà a rilevare la malattia, sia da parte del malato
che da parte di chi si relaziona con lui. La confusione, l’impossibilità, gli errori, le prove,
la rabbia, la frustrazione, la negazione, il desiderio di fuga, i sensi di colpa. Penso che
molti si possano riconoscere. È difficile dare risposte, più che altro sei costretto a farti
domande. Cosa avrei fatto io? Cosa ho fatto io che avrei potuto non fare? Come mi
comporterei in futuro dopo avere superato un’esperienza simile?
Dal racconto emerge un paradosso, comune a tutte le terapie volte a curare malattie
psichiche: spesso gli psicoterapeuti instaurano un rapporto col soggetto malato senza
prendere in considerazione i punti di vista delle persone che lo circondano, e che
potrebbero smentire i suoi racconti, non sempre sinceri perché alterati dalla
malattia. Ti sei fatto un’opinione a questo riguardo?
Infatti. Anche di questo parlo. Dello sconcerto che prende Francesco (e gli altri familiari)
nel capire di essere tagliati fuori dal percorso di terapia. I dottori si relazionano solo col
malato, non informano, se non in casi eccezionali. Insomma, si ha la sensazione, anche se
si fa qualcosa, di essere trascurati, ininfluenti, soli. Salvo poi capire che invece si è
fondamentali nel dare delle direttive precise. Nel mio romanzo cerco di trattare tutto
questo, in maniera non distaccata ma empatica, e, ne sono certo, emozionante.