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martedì 29 novembre 2022

 Annamaria Trevale intervista Sergio Scorzillo a proposito di "Non ti preoccupare"


Annamaria Trevale è nata e vive a Milano. La scrittura è sempre stata una delle sue passioni, in coppia con la lettura. Ha pubblicato una raccolta di racconti, Solitudini (2008), il romanzo Tutta colpa di mia sorella! (2016) diversi racconti in antologie con altri autori e ha partecipato all'esperienza del multiblog Ibridamenti, creato dall’Università Ca’ Foscari di Venezia, da cui sono scaturiti i due libri Pratiche collaborative in rete e Dai blog ai social network. Organizza serate di reading letterari. Dalla passione per la fotografia è nata la rubrica per Sul Romanzo Grandi fotografi grandi narratori, a cui ha fatto seguito Scrittori da riscoprire.  Scrive recensioni su https://www.thepodd.it/


Tu scrivi da sempre, dalle canzoni ai testi teatrali, ma solo adesso hai deciso di

dedicarti alla narrativa. Cosa ti ha fatto scegliere la forma del romanzo?

Infatti scrivo da sempre, ho sempre scritto anche romanzi, soprattutto gialli e noir, ma li

trovi solo in fondo ai miei cassetti. Dopo che ho vinto un paio di premi nazionali come

drammaturgo mi sono dedicato a scrivere e a far girare soltanto i mei testi di teatro. Lì mi

sentivo più “forte”, se vogliamo…visto che il riscontro esterno era sempre positivo. Da

alcuni anni i testi per la scena mi vengono “richiesti”, nel senso che mi viene affidato un

tema da un committente e poi lavoro io su come rendere sul palco quel tema. Ha iniziato

lo scrittore Paolo Roversi, affidandomi la scrittura teatrale del suo romanzo “Taccuino di

una sbronza”, poi tutto è venuto di conseguenza grazie al passaparola. Mi scrivi uno

spettacolo sulla Prima guerra mondiale? Sulla seconda? Su una parabola a sfondo

familiare? Da Oscar Wilde? Ed ecco i miei “La guerra di Alvise”, “Fuori dal fango”,

“Prodigus”, “Ballata lirica”. Il più delle volte mi si chiede di farne anche la regia, e li

porto in scena con la mia compagnia Reading Gaol.

Anche questa volta l’idea non è venuta da me. Francesco Danile, che ha aperto

l’Associazione Antonio Danile che si occupa di raccogliere fondi per la depressione, mi ha

chiesto di scrivere un libro sulla storia di suo fratello, suicidatosi nel 2018. Ho accettato

con entusiasmo perché i grandi temi, importanti, mi interessano moltissimo. Mi piace

scrivere di argomenti forti. Mi piace l’idea di lasciare un segno, di emozionare, non di

“divertire”. Gli ho subito detto che non avrei voluto fare un racconto giornalistico, volevo

proprio farne un romanzo, che raccontasse la storia vera, ma che fosse anche emblematico,

poetico…

In realtà, “Non ti preoccupare” è un libro ibrido, perché utilizza due forme differenti

per raccontare la stessa storia: il romanzo esprime la voce narrante di Francesco, il

testo teatrale che segue è incentrato sul fratello Antonio. Quale dei due è nato per

primo?

È nato per primo il testo teatrale. Lo spettacolo avrebbe dovuto andare in scena subito

dopo l’approvazione del testo, purtroppo per la pandemia in corso non è stato possibile, e

conto di portarlo sul palco i primi mesi del 2023. Quando ho scritto il copione mi sono

immedesimato in Antonio, soprattutto. Mi sono figurato di essere lui, nella sua stanza,

intento a prepararmi al gesto finale. Pochi oggetti in scena, un letto, una valigia grande,

una valigia piccola…E negli ultimi istanti prima di compiere l’atto, rivedere (proiettare

fuori di me) momenti del passato, dialoghi col fratello, con un dottore, frammenti di cose

sentite e rielaborate. Il testo è molto simbolico. Avevo poche informazioni in quel

momento e mi sono basato soprattutto su impressioni e visioni mie. Figura chiave della

vicenda la presenza di una Lei, che inizialmente sembra una delle donne di Antonio, in

realtà si tratta della Depressione, che lo guida e lo manipola fino all’epilogo. Il romanzo

invece l’ho scritto dal punto di vista del fratello Francesco, è una sorta di diario, un

monologo in prima persona, in cui Francesco si rivolge continuamente ad Antonio,

ricordandogli il passato, e quello che è accaduto fino a questo momento, il momento in cui

lui sta andando a vedere in casa del fratello cosa è successo.

Quale delle due voci è stata per te più difficile da raccontare?

Direi il romanzo, dove sono Francesco. Perché i fatti che avrei dovuto riportare, veri,

erano molti. Si parla della famiglia nel suo complesso, indietro nel tempo fino ai nonni. La

struttura che ho voluto utilizzare non segue la vicenda in modo lineare. Parto dal momento

in cui Francesco si reca, chiamato da una donna delle pulizie, in casa di Antonio che non

vede da qualche tempo e più si avvicina al luogo più la mente lo ributta indietro,

continuamente indietro, a ripensare fatti, situazioni, a momenti felici e altri drammatici, e

questo gioco di rimandi e ritorni rende il tutto faticoso. Come se la parola finale definitiva

non volesse essere raggiunta. Come se fosse appunto faticoso scoprire la realtà. Credo sia

(e i molti riscontri positivi che ho avuto me lo confermano) la chiave vincente e

avvincente del libro. La sua struttura labirintica.

Si parla abbastanza di depressione, oggi, oppure continuiamo a sottovalutare la sua

gravità e le conseguenze che ha sulla vita non solo dei soggetti malati, ma anche delle

persone costrette a relazionarsi con loro, dai familiari agli amici o colleghi?

Se ne parla un po’ più che nel passato, ma ancora viene molto sottovalutata. Se ne ha

vergogna anche a parlarne. Se ne vergogna chi è colpito, i familiari…Decidere di andare

da uno psicologo risulta difficile. È come ammettere di essere mentalmente non stabili,

“matti”.

Dal racconto in prima persona di Francesco, che ci trasmette tutta la sua impotenza

di fronte alla depressione che distrugge la vita del fratello, emerge prima di tutto la

sensazione che sia quasi impossibile comunicare in modo corretto con una persona

seriamente depressa, e quindi molto complicato aiutarla a superare la malattia. Pensi

che il tuo libro possa aiutare qualcuno nella stessa situazione ad agire meglio, per

esempio evitando gli errori che Francesco ritiene di aver compiuto lungo il percorso?

Infatti. La storia del rapporto tra Antonio e Francesco credo di averla trattata proprio in

modo da fare rilevare questo. La difficoltà a rilevare la malattia, sia da parte del malato

che da parte di chi si relaziona con lui. La confusione, l’impossibilità, gli errori, le prove,

la rabbia, la frustrazione, la negazione, il desiderio di fuga, i sensi di colpa. Penso che

molti si possano riconoscere. È difficile dare risposte, più che altro sei costretto a farti

domande. Cosa avrei fatto io? Cosa ho fatto io che avrei potuto non fare? Come mi

comporterei in futuro dopo avere superato un’esperienza simile?

Dal racconto emerge un paradosso, comune a tutte le terapie volte a curare malattie

psichiche: spesso gli psicoterapeuti instaurano un rapporto col soggetto malato senza

prendere in considerazione i punti di vista delle persone che lo circondano, e che

potrebbero smentire i suoi racconti, non sempre sinceri perché alterati dalla

malattia. Ti sei fatto un’opinione a questo riguardo?

Infatti. Anche di questo parlo. Dello sconcerto che prende Francesco (e gli altri familiari)

nel capire di essere tagliati fuori dal percorso di terapia. I dottori si relazionano solo col

malato, non informano, se non in casi eccezionali. Insomma, si ha la sensazione, anche se

si fa qualcosa, di essere trascurati, ininfluenti, soli. Salvo poi capire che invece si è

fondamentali nel dare delle direttive precise. Nel mio romanzo cerco di trattare tutto

questo, in maniera non distaccata ma empatica, e, ne sono certo, emozionante.