Il silenzio di Cleaver
Nell’autunno del 2004, a breve distanza dalla memorabile intervista con il presidente degli Stati Uniti e pochi giorni dopo che il figlio maggiore aveva dato alle stampe un’autobiografia romanzata dall’impietoso titolo Alla sua ombra, il celebre giornalista, presentatore televisivo e documentarista Harlod Cleaver si imbarcò su un volo British Airways da Londra Gatwick a Milano Malpensa, proseguì a bordo delle ferrovie italiane fino a Bruneck, nel Sud Tirolo, e da lì prese un taxi in direzione nord per Luttach, un paese a pochi chilometri dal confine austriaco che si augurava di utilizzare come base per la ricerca di una remota dimora montana dove trascorrere i successivi e forse anche gli ultimi anni della sua vita. Battendo in ritirata di fronte alle responsabilità, nell’interpretazione di Amanda. La madre dei suoi figli. A questo punto della vita, aveva replicato l’illustre e sovrappeso Cleaver a quella che da trent’anni era la sua compagna, le mie responsabilità sono esclusivamente economiche e, spinto da una decisione di appena qualche ora prima, le aveva intestato una considerevole somma di denaro della quale né lei né i loro tre figli viventi avevano alcun bisogno immediato, a eccezione forse di Phillip, il minore, che pur in eterno stato di bisogno non accettava mai niente.
La mattina dopo, salendo sul treno per Gatwick, ancora piuttosto stordito di fronte al passo decisivo che si trovava a compiere, Cleaver spense i due telefoni cellulari. Questo non è uno dei tuoi tanti progetti, si andava ripetendo. Davanti a lui era seduto un ragazzo con un lettore CD in grembo, le labbra che intonavano un canto muto. Non stai, come nel caso di altri lunghi viaggi, progettando di scrivere un libro, né di fare un documentario. Il ragazzo, si accorse, aveva lo sguardo vitreo. Grazie a Dio non mi ha riconosciuto. Il lettore CD ronzava. Non c’è alcun bisogno, si disse risolutamente Cleaver, di analizzare, mettere in ridicolo, criticare o elogiare la cultura, per quello che vale, del Sud Tirolo. Una voce registrata avvertì che le porte stavano per chiudersi. Non c’è alcun bisogno di ricavare uno spettacolo o uno sceneggiato dalla vita in una baita sperduta di montagna. Né di riscriverla alla Thoreau facendone una specie di Walden. Il treno si mise in moto. In un attimo si ritrovarono il Tamigi sotto, poi alle spalle. Quella distesa familiare e scomposta che era la periferia londinese si allontanava a tutta velocità.
Né si tratta nel modo più assoluto di raccomandare qualcosa a qualcuno, stava ancora riflettendo Cleaver un’ora dopo, mentre lo shuttle dell’aeroporto lo conduceva al Terminal Due, e nemmeno di dar conto, al rientro, dell’acquisizione di chissà quale saggezza. Per fortuna riuscì ad acquistare il biglietto per un volo che partiva quasi subito. Non ho bagaglio, dichiarò. Niente. Niente, borbottò alla fine, allacciandosi la cintura di sicurezza intorno al pancione, verrà riportato da questo viaggio per finire nel dibattito nazionale. Maestro indiscusso dell’opinione pubblica per tanti anni, Cleaver stava per lasciarsi tutto alle spalle. Ecco l’idea straordinaria che si è come imposta a Harold Cleaver nel corso degli ultimi giorni di incredibile notorietà pubblica e di profonda crisi privata: devo tapparmi questa boccaccia.
Sul treno che lo conduceva da Milano a Verona, Cleaver divise lo scompartimento con una giovane donna assorta nello studio di quella che sembrava una specie di indagine di mercato. Tra i vari grafici scorse il sottotitolo Bacino di afflusso. Gli occhi della donna scorrevano avanti e indietro sullo stampato, mostrando qualche rara esitazione un attimo prima che lei si fermasse a sottolineare una parola o una frase con uno scatto rapido e predatore del polso. Di tanto in tanto, distrattamente, si sistemava uno scialle bianco che continuava a scivolarle lungo le braccia esili e a volte, sovrappensiero, sorrideva, o si accigliava, e con la mano libera arrotolava lentamente una ciocca di capelli scuri intorno alle dita sapienti. Arrivati a Verona, Cleaver fu contento di non aver cercato di attaccare bottone. Si alzò per uscire dallo scompartimento e solo allora i loro sguardi si incrociarono, accomunati dalla consapevolezza che non si sarebbero mai più rivisti. E’ un ottimo inizio, pensò. Mia madre lamentava di continuo, aveva scritto il figlio maggiore nelle primissime righe di Alla sua ombra, la totale incapacità di mio padre di lasciare in pace qualsivoglia donna, come pure la totale, assoluta e irrimediabile incapacità di declinare qualsivoglia offerta di cibi, bevande o sigarette e anche, ma qui si rasentava il patologico, qualsivoglia occasione di comparire in pubblico a qualsivoglia ora del giorno o della notte. Era la personificazione dell’ambizione, dell’avarizia e dell’avidità − le tre A, come le chiamava lui − al tempo stesso e senza eccezione carnale e carnivoro. Oggi non ho mangiato niente, si rese conto a un tratto Cleaver consultando la tabella delle partenze a Verona Porta Nuova, a parte il pane tostato con il tè, stamattina presto.
Da Verona un altro treno seguì l’Adige puntando a nord lungo la Valpolicella e inoltrandosi fra i cupi monti del Trentino. Poche le case sui pendii. La massa brulla e informe che incombeva ai lati del treno lasciava presagire una massiccia barriera montuosa. Era interessante la reazione scatenata dal libro del figlio, pensò Cleaver, o meglio, dal libro del figlio unito alla famosa intervista che lui aveva fatto al presidente degli Stati Uniti. Era stufo di pensare a quelle cose. Quando, a Rovereto, salì un gruppo di adolescenti con lo zainetto, Cleaver frugò nelle tasche in cerca dei tappi per le orecchie. Non che avesse portato materiale da leggere. Basta con i libri, aveva deciso. Era solo che non voleva sentire, nemmeno in una lingua sconosciuta, la vita che quei ragazzi condividevano, la loro chiassosa identità collettiva. Se devo tapparmi la bocca, pensò, tanto vale turarmi anche le orecchie. Non ci sarebbero più state voci di alcun tipo.
Pressoché solo al binario di Franzensfest, proprio sotto il valico del Brennero, Cleaver fu colpito dalla fragranza dell’aria. Che odore è? Di erba tagliata, sterco di mucca e legna, di neve sciolta che scorre sulla pietra. Rimase lì, turbato, ad ascoltare lo scampanellio insistente che annunciava l’arrivo del suo treno. Alzando lo sguardo vide una cascata capitombolare giù dagli altissimi declivi. Non scriverò lettere, pensò, consapevole che la fine del viaggio era prossima. Non aveva con sé un portatile. Né un taccuino. E nemmeno carta e penna. Non ci sarà alcun bisogno di raccontare né di esprimere qualunque cosa succeda a me, o intorno a me.
Tim Parks
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