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lunedì 21 maggio 2012

Sogno d'una notte di mezza estate






WILLIAM SHAKESPEARE


SOGNO D’UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE
Titolo originale: “A MIDSUMMER NIGHT’S DREAM”


Commedia in 5 atti


Traduzione e note di Goffredo Raponi


TESEO, duca d’Atene

EGEO, padre di Ermia

LISANDRO, DEMETRIO giovani spasimanti di Ermia

FILOSTRATO, maestro delle feste alla corte del duca

COTOGNA, falegname
CONFORTO, stipettaio
BOTTONE, tessitore
FLAUTO, aggiustatore di mantici
NASONE, calderaio
IL LANCA, sarto

IPPOLITA, regina delle Amazzoni, promessa a Teseo

ERMIA, figlia di Egeo, innamorata di Lisandro

ELENA, innamorata di Demetrio

OBERON, re delle fate
TITANIA, regina delle fate

PUCK, detto “Robin Bravomo”, folletto-monello

FIORDIPISELLO, RAGNATELA, BRUSCOLO, GRANDISENAPE, elfi


Personaggi dell’Interludio

PROLOGO
PIRAMO
TISBE
MURO
CHIARDILUNA
LEONE

ALTRI SPIRITI al seguito di Oberon e Titania

SERVI di Teseo e Ippolita



 

SCENA: Atene, e un bosco nelle adiacenze della città

Atto Primo



SCENA I - Atene, sala nel Palazzo di Teseo




Entrano TESEO, IPPOLITA, FILOSTRATO e seguito

TESEO -
La nostra ora nuziale, bella Ippolita,
s’approssima: quattro giorni felici
ci porteranno la novella luna…
Oh, come questa vecchia pare lenta
a dileguarsi, quasi a ritardare
malignamente, come una matrigna,([2])
l’appagamento dei miei desideri,
o somigliante ad una ricca vedova
ostinatasi a viver troppo a lungo
per rendere a più a più sottili
le rendite del suo giovane erede.

IPPOLITA -
Quattro giorni faran presto a svanire
con le lor notti, e queste a dileguarsi
coi loro sogni; e la novella luna
come un arco d’argento teso in cielo([3])
salirà a contemplare sulla terra
la notte dei solenni nostri riti.

TESEO -
Va’, Filostrato, smuovi alla letizia
la gioventù d’Atene,
desta vivezza e gioia nei lor cuori,
ricaccia ai funerali l’umor triste,
ché quel pallido socio mal s’addice
alla festosità del nostro rito.


(Esce Filostrato)


Se con la spada, Ippolita,
t’ho corteggiata e ho vinto l’amor tuo([4])
con la forza, ora in ben diversa chiave
voglio condurti sposa: con gran pompa
e gran tripudio di festeggiamenti.


Entra EGEO, conducendo per mano sua figlia ERMIA; dietro di loro LISANDRO e DEMETRIO

EGEO -
Pace e gioia all’illustre nostro Duca!

TESEO -
Grazie, mio buon Egeo. Che c’è di nuovo?

EGEO -
Ecco, vengo da te col cuore amaro
a lagnarmi di questa mia creatura,
mia figlia Ermia.


(A Demetrio, che è rimasto indietro)
Vieni Demetrio, vieni pure avanti.


(A Teseo, indicando Demetrio)
Signore, questo giovine, Demetrio,
ha il mio consenso per condurla in moglie;
quest’altro - vieni avanti, tu, Lisandro -
me l’ha stregata, mio grazioso Duca.
Sì, proprio tu, Lisandro, l’hai stregata!
Hai profferto a mia figlia versi e rime,
hai scambiato con lei pegni d’amore;
sei venuto di notte, tu, Lisandro,
sotto la sua finestra, al chiar di luna,
a cantarle, con voce di lusinga,
strofe di falso amore;
ed hai rubato la sua fantasia
coll’inviarle in grazioso regalo
braccialetti di tuoi capelli in treccia,
e con anelli e dolci paroline
e chicche e zuccherini d’ogni sorta,
tutti araldi di forte seduzione
sulla sconsiderata gioventù,
sei giunto con astuzia a catturare
il cuore di mia figlia, fino al punto
di volgere in aperta ribellione
l’obbedienza di figlia che mi deve.


(A Teseo)
E se ora, grazioso mio signore,
ella non voglia acconsentire qui,
dinanzi a te, a sposare Demetrio,
io invoco per me l’applicazione
dell’antico privilegio di Atene:
poiché è cosa mia,
io posso far di lei quello che voglio;
o darla sposa a questo gentiluomo,([5])
o ad immediata morte,
come dispone in tal caso la legge.

TESEO -
E tu, Ermia, che dici?
Pensaci bene, vezzosa fanciulla.
Tuo padre dovrebb’essere per te
un dio, perché è lui, fanciulla mia,
che t’ha foggiata in questa bella forma;
come un blocco di cera
ch’egli con le sue mani ha modellato,
e può quindi lasciar così com’è,
o mandare distrutto, a suo talento.
Demetrio è un giovane degno di te.

ERMIA -
Lisandro non lo è meno.

TESEO -
Non lo nego;([6])
ma essendo necessario, in questo caso,
l’assenso di tuo padre,
più degno deve ritenersi l’altro.

ERMIA -
Vorrei solo, signore, che mio padre
potesse veder me con gli occhi miei.

TESEO -
Eh, no, sono piuttosto gli occhi tuoi
che devono vedere col suo senno.

ERMIA -
Perdonami signore, io non so
da quale misteriosa interna forza
mi venga tanta temerarietà,
né se s’addica alla mia pudicizia
perorare a favor dei miei pensieri
qui, dinnanzi a sì inclita presenza,
ma voglio supplicarti, mio signore,
di dirmi il peggio che mi può venire
se mi rifiuto di sposar Demetrio.

TESEO -
Esser mandata a morte,
o segregata per sempre dal mondo
in clausura. Perciò, ragazza mia,
indaga a fondo nei tuoi desideri,
considera la tua giovane età,
esamina gli impulsi del tuo sangue
e chiediti, qualora ti ostinassi
a ricusar la scelta di tuo padre,
se veramente ti senti la forza
di sopportar la veste monacale
restando chiusa per tutta la vita,
sterile monaca, in un tetro chiostro,
ad intonare notte e giorno cantici
alla gelida ed infeconda luna.([7])
Siano pure tre volte benedette
quelle che così bene san reprimere
e dominare gli impulsi del sangue
da incamminarsi come pellegrine
per il sentiero della castità;
ma più felice è assai su questa terra
la rosa che distilla il suo profumo
di quella che sul suo virgineo spino
avvizzendo, fiorisce, vive e muore
in sacra virginale solitudine.

ERMIA -
E così io, mio nobile signore,
voglio crescere, vivere e morire,
piuttosto che dover ceder la chiave
del mio virgineo ingresso ad un signore,
sotto il cui giogo non desiderato
l’animo mio non intende restare.

TESEO -
Prendi pure il tuo tempo per riflettere,
ma non più tardi della luna nuova
che vedrà suggellar solennemente
il patto d’un legame imperituro
fra l’amor mio e me. Dopo quel giorno,
disponiti pur l’animo a morire
per rifiutata obbedienza a tuo padre,
o a vivere, com’è sua volontà,
accettando d’andar sposa a Demetrio;
o a pronunciar sull’altare di Diana
i voti d’una vita austera e sola.

DEMETRIO -
Piègati, dolce Ermia. E tu, Lisandro,
desisti da un’invalida pretesa
a confronto d’un mio diritto certo.

LISANDRO -
Tu tieniti l’amore di suo padre
- spòsati lui, se vuoi! - e lascia a me
quello di Ermia.

EGEO -
Insolente Lisandro!
Sì, Demetrio sicuramente gode
del mio affetto, e deve aver da me
quello ch’è mio, e cosa mia è Ermia;
e in testa a lui io voglio trasferire
tutti i diritti miei sopra di lei.

LISANDRO -
Io, signor mio, discendo come lui
da nobili natali,
e pari al suo è il mio stato sociale;
ma più forte del suo è l’amor mio.
Le mie fortune sono pari in tutto
a quelle sue, se non anche maggiori;
ma al disopra di tutti questi vanti
quello che conta più di tutto il resto
è ch’io sono riamato da Ermia bella.
Perché dunque dovrei io desistere,
non far valere questo mio diritto?
Demetrio - glielo voglio dire in faccia -
ha intrattenuto rapporti d’amore
con la figliola di Nestore, Elena,
e se n’è conquistato tanto il cuore,
che quella dolce e bella creatura
si strugge in un amore appassionato,
devoto ed idolatra per quest’uomo
leggero, screditato ed incostante.

TESEO -
Di ciò, confesso, m’era giunta voce
e m’ero già proposto, in verità,
di parlarne a Demetrio;
altre cure me n’hanno poi distolto.
Ma venite di là, Egeo, Demetrio,
che ho da darvi in privato a tutti e due
qualche istruzione.([8])


(A Ermia)
Quanto a te, mia carina,
sforzati di trovare nel tuo animo
la forza di acconciare il tuo capriccio
al desiderio del tuo genitore,
altrimenti il rigore della legge
che a noi non è concesso mitigare
per alcun verso, ti consegnerà
alla morte o alla vita monacale.
Vieni, Ippolita. Come va, mia cara?([9])
Voi, Demetrio ed Egeo, accompagnateci.
Dovrò giovarmi dei vostri servigi
per disbrigare più di un’incombenza
in occasione delle nostre nozze.
Eppoi ho da parlarvi di qualcosa
che vi riguarda molto da vicino.([10])

EGEO -
È un gradito dovere accompagnarti.


(Escono tutti meno Lisandro ed Ermia)

LISANDRO -
Ed ora, amore mio?…
Perché sì pallida quella tua gota?
Com’è possibile che quella rosa
abbia perso sì presto il suo colore?

ERMIA -
Forse perché le è mancata la pioggia;
con la quale potrei ben irrorarla
sfogando la tempesta dei miei occhi.

LISANDRO -
Ahimè, per quanto io abbia udito o letto
d’antiche favole o d’istorie vere,
mai al mondo fu piano e senza ostacoli
il cammino dei grandi amori, cara,
o per disparità di condizione…

ERMIA -
Oh, quale croce, stare troppo in alto
e volersi legare troppo in basso!

LISANDRO -
… o per l’ineguaglianza dell’età…

ERMIA -
Oh, qual dispetto, stare in là con gli anni
e impegnarsi con chi è assai più giovane!

LISANDRO -
… o perché a scegliere sono i parenti…

ERMIA -
Ah, qual maledizione, dover scegliere
il proprio amore cogli occhi degli altri!

LISANDRO -
… E quando pur vi sia stata fra i due
perfetta intesa nella mutua scelta,
o guerra o morte, o altra traversìa
han sempre cinto d’assedio l’amore,
sì da ridurlo aereo come un suono,
fugace come un’ombra,
labile, evanescente come un sogno,
fulmineo come un baleno notturno
che illumina d’un tratto e cielo e terra,
e prima che tu possa dire “Guarda!”
le mascelle del cielo son richiuse
ad inghiottirlo rapide nel buio.
Perché con questa subitaneità
tutto che al mondo splende, si dilegua.

ERMIA -
Se dunque al mondo tutti i grandi amori
sono stati in eterno contrastati,
vuol dire che è decreto del destino;
e questa prova, cui siam sottoposti
anche noi due ci sia di ammonimento
che ci dobbiamo armare di pazienza,
pensando ch’è retaggio dell’amore
d’esser sempre impedito,
come lo sono i sogni, i desideri,
i pensieri, le lacrime, i sospiri
che fan corteggio all’amore conteso.

LISANDRO -
È vero.([11]) Ordunque, Ermia, sta’ a sentire:
io ho una ricca zia, rimasta vedova,
erede d’un cospicuo patrimonio,
e che mi tiene caro come un figlio;
la casa dove abita è distante
da Atene non più di sette leghe;
ma quanto basta perché fin laggiù
possa arrivare la legge di Atene.
Se dunque mi vuoi bene,
domani notte invòlati da casa;
ad una lega fuori di città,
nel bosco, dove t’incontrai con Elena
quella mattina del Calendimaggio,
sarò ad attenderti.

ERMIA -
Mio buon Lisandro,
per l’arco più robusto di Cupido,
pel migliore dei suoi dorati strali,
pel piumato candor delle colombe
che fan corteggio a Venere celeste,
per tutto ciò che al mondo
unisce i cuori e alimenta gli amori,
per quel fuoco che divorò d’amore
la misera regina di Cartagine
allorché vide allontanarsi in mare
la vela del fedifrago Troiano;([12])
pei giuramenti che da sempre gli uomini,
assai più che noi donne, hanno violato,
ti giuro ch’io domani, puntuale,
ti verrò incontro al luogo che m’hai detto.

LISANDRO -
Va bene, amore. Tieni la promessa.


(Entra Elena)


Oh, guarda, viene Elena.

ERMIA -
Salute, Elena bella, dove vai?

ELENA -
“Bella” dici tu a me?… Ritira il “bella”!
“Bella”, Ermia, sei tu,
ché della tua non della mia bellezza([13])
Demetrio è innamorato, fortunata,
fortunata davvero quella tua!!
Hai due occhi che paiono due stelle
ed il dolce alitar della tua voce
suona all’orecchio suo più melodioso
del canto dell’allodola al pastore
nella stagione che verzica il grano
e spuntano le gemme al biancospino.
Se fosse contagiosa come un male
la bellezza, Ermia bella,
come vorrei attaccarmi la tua,
e rapirti la voce col mio orecchio,
lo sguardo col mio occhio, con la bocca
la dolce musica di quella tua!
Avessi in mio possesso tutto il mondo,
lo darei via, tranne solo Demetrio,
pur di potermi trasformare in te.
Oh, insegnami il tuo modo di guardare,
e l’arte che ti fa tenere avvinto
il cuore palpitante di Demetrio!

ERMIA -
Non lo so. Più gli faccio il viso duro,
più lui mi si dimostra innamorato.

ELENA -
Oh, potesse quel tuo duro cipiglio
insegnare quell’arte ai miei sorrisi!

ERMIA -
Più lo ricolmo di maledizioni,
più mi ricambia con frasi d’amore.

ELENA -
Oh, potessero mai le mie preghiere
destare in lui una pari reazione!

ERMIA -
Più lo detesto, più mi viene dietro.

ELENA -
Ed io più l’amo, più lui mi detesta.

ERMIA -
Di questa sua follia io non ho colpa.

ELENA -
Tu no, ce l’ha però la tua bellezza.
Come vorrei aver io questa colpa!

ERMIA -
Rassicùrati, non mi vedrà più.
Lisandro ed io ce n’andremo da qui.
Atene, prima che incontrassi lui,
era per me un vero paradiso…
Quale incantesimo avrà preso stanza
in questo amore da mutar così
quel ch’era paradiso in un inferno?

LISANDRO -
Elena, a te possiamo rivelare
quello che abbiamo progettato insieme.
Domani notte, appena giunta l’ora
che Febe([14]) specchierà l’argenteo volto
nell’acque e spanderà liquide perle
sovra gli steli dell’erba dei prati
(l’ora adatta alla fuga degli amanti),
noi varcheremo, come abbiam deciso,
furtivamente le porte di Atene…

ERMIA -
… e in quel boschetto dove tante volte
ci siam sedute insieme, tu ed io,
su molli e languidi letti di primule
a versarci nel petto, una dell’altra,
i più dolci segreti,
c’incontreremo il mio Lisandro ed io,
e volgerem per sempre là da Atene
la vista, per cercare in altri luoghi
nuovi amici ed ignote compagnie.
Perciò, Elena, addio,
dolce compagna dell’età mia tenera.
Prega per noi, e a te la buona sorte
faccia ottenere il cuore di Demetrio.


(Accingendosi a partire, a Lisandro che la vuol baciare)
No, Lisandro, mantieni la parola:
fino alla mezzanotte di domani
noi dobbiamo tenere gli occhi nostri
a digiuno del cibo degli amanti.([15])

LISANDRO -
La manterrò, mia cara.


(Esce Ermia)


Elena, addio. Possa Demetrio amarti
di quello stesso amor che porti a lui.


(Esce)

ELENA -
Quanto può esser più felice al mondo
un essere di un altro!…
In tutta Atene io son tenuta bella
almeno quanto lei. Ma a che mi vale?
Tale non mi considera Demetrio;
rifiuta di vedere coi suoi occhi
quel che vedono tutti, meno lui.
Ed io, lo stesso abbaglio ch’egli prende
a infatuarsi degli occhi di Ermia,
lo prendo ad ammirar le sue virtù.
L’amore può dar forma e dignità
a cose basse e vili, e senza pregio;
ché non per gli occhi Amore guarda il mondo,
ma per sua propria rappresentazione,
ed è per ciò che l’alato Cupido
viene dipinto col volto bendato.
Né Amore ha il gusto del saper discernere:
ali ed occhi bendati sono il simbolo
d’irriflessività precipitosa.
Perciò si dice che Amore è bambino:
perché s’inganna spesso nello scegliere,
e, simile ai bambini nei lor giochi,
che fanno spensierati giuramenti,
il fanciulletto Amore
è sempre mancatore di parola.
Così Demetrio. Prima che i suoi occhi
incontrassero il bello sguardo d’Ermia,
grandinava promesse e giuramenti
d’essere solo mio; ma quella grandine
appena che avvertì il calore d’Ermia
si dissolse, con tutti i giuramenti.
Voglio andare comunque ad informarlo
della fuga della sua bella Ermia;
così domani notte, già lo vedo,
correrà per il bosco dietro a lei;
e se in cambio di questa informazione
avrò da lui un po’ di gratitudine,
me la sarò acquistata a caro prezzo…
anche se mi vedrò poi ripagata
dal vederlo tornar senza di lei.


(Esce)




SCENA II - Atene, in casa del falegname Cotogna




Entrano COTOGNA, CONFORTO, BOTTONE, FLAUTO, NASONE e IL LANCA([16])

COTOGNA -
Ci siamo tutti della compagnia?

BOTTONE -
Farai meglio a chiamarli ad uno ad uno
come figurano nella tua lista.

COTOGNA -
Questo è l’elenco completo dei nomi
di quelli reputati in tutta Atene
adatti a recitare l’interludio
davanti al Duca ed alla sua Duchessa
alla sera del loro dì nuziale.

BOTTONE -
Prima però, mio buon Piero Cotogna,
dicci che cosa tratta la commedia;
poi leggerai i nomi degli attori,
e quindi arrivi al punto. Non ti pare?

COTOGNA -
Ebbene, il titolo del dramma è questo:
“La molto lamentevole commedia
“con la crudele e tristissima morte
“di Piramo e di Tisbe”.

BOTTONE -
Roba buona!
Un assai bel lavoro, v’assicuro,
e allegro. Adesso, buon Piero Cotogna,
puoi pure far l’appello degli attori
nell’ordine di lista. E voi, maestri,
verrete avanti come lui vi chiama.

COTOGNA -
(Leggendo l’elenco)
Ognun risponda quando chiamo il nome.
“Bottone Nicoletto, tessitore”.

BOTTONE -
Pronto, dimmi qual è la parte mia,
e tira avanti.

COTOGNA -
(Sempre leggendo)
“Bottone Nicola”…
Sei assegnato alla parte di Piramo.

BOTTONE -
E che cos’è nel dramma questo Piramo?
L’amoroso? Il tiranno?

COTOGNA -
L’amoroso, che coraggiosamente
s’uccide per amore.

BOTTONE -
Questa parte, a volerla fare bene,
richiederà ch’io versi qualche lacrima;
e s’io mi metto a piangere,
gli spettatori stiano attenti agli occhi,
perché scatenerò coi miei lamenti
dei veri temporali… Andiamo avanti,
sentiamo quali sono le altre parti.
Però, in coscienza, la mia vocazione
sarebbe quella di fare il tiranno.
Ti saprei fare un Ercole, mannaggia,
come è difficile sentirlo altrove;([17])
o una parte dal roboante eloquio([18])
da far saltare in aria tutto e tutti.


“Rocce ruggenti
“massi frementi,
“della prigione
“rompo i battenti.
“Di Febo il carro
“dall’alto splende
“e i folli fati
“innocui rende”.


Eh, maestri, qui andiamo nel sublime!
Bah!… Chiama pure adesso gli altri, va’!
Eccolo, questo è il tono per un Ercole,
il tono del parlare da tiranno.
L’amoroso s’esprime più sommesso.

COTOGNA -
(Leggendo)
“Flauto Francesco, mastro aggiustamantici”.

FLAUTO -
Presente.

COTOGNA -
Flauto, tu dovrai far Tisbe.

FLAUTO -
E chi è Tisbe, un cavaliere errante?

COTOGNA -
È la dama che deve amare Piramo.

FLAUTO -
Ah, no! parti da donna per me, no!
Non vedi che ho la barba?

COTOGNA -
Non fa niente.
Vuol dire che ti metterai la maschera,
e farai la vocina che vorrai.

BOTTONE -
Anch’io posso nascondermi la faccia.
Lasciami far la parte anche di Tisbe:
saprò fare un vocino prodigioso!


(Con voce grossa, imitando Piramo)
“Oh, Tisbe, Tisbe!”.


(In falsetto imitando la voce femminile)
“Piramo, amor mio!”.
“La tua Tisbe! La tua diletta Tisbe!”.

COTOGNA -
No, no, tu devi fare solo Piramo.
Tisbe la farà Flauto.

BOTTONE -
E sia così! Andiamo pure avanti.

COTOGNA -
(Leggendo)
“Robin Lanca, sartore”.

LANCA -
Presente, Pier Cotogna.

COTOGNA -
Robin Lanca,
tu devi fare la madre di Tisbe.


(Leggendo)
“Conforto Felicetto, stipettaio”.
A te tocca la parte del leone.
Ecco, mi pare siate tutti a posto.

CONFORTO -
Ce l’hai scritta, la parte del leone?
Se sì, ti prego di darmela subito,
perché son tardo a mandare a memoria.

COTOGNA -
Non c’è bisogno; questa la improvvisi.
Non devi altro che emettere ruggiti.

BOTTONE -
Senti, Piero Cotogna,
lascialo fare a me anche il leone.
So ruggire così meraviglioso,
che sarà a tutti un vero godimento.
Così bene, che il Duca dovrà dire:
“Ancora, fatelo ruggire ancora!”.

COTOGNA -
A ruggire però così terribile
potresti spaventare la Duchessa
e le sue dame, fino a farle urlare.
Allora sì che n’avremmo abbastanza
per finir tutti quanti sulla forca.

TUTTI GLI ALTRI
(meno Bottone) -
Eh, sì, impiccàti, poveretti noi!

BOTTONE -
Ah, certo, se accadesse che le dame
dovessero svenire di paura,
non si farebbero davvero scrupolo
a mandarci alla forca tutti quanti.([19])
Ma io saprò aggravare([20]) la mia voce
da ruggire sì delicatamente,
che sembrerà il tubar d’una colomba.([21])
Ruggirò come fossi un usignolo.

COTOGNA -
Che ruggire e ruggire, un accidente!
Tu fai Piramo e basta.
Ché Piramo ha da essere un bell’uomo,
faccia fresca, pulita, un tipo amabile
di quelli che si vedono d’estate,
il tipo del perfetto gentiluomo.
Questa parte la devi fare tu.

BOTTONE -
Come vuoi. Quella parte la fo io.
Con che barba conviene recitarla?

COTOGNA -
Che domanda! Con quella che ti pare.

BOTTONE -
Diciamo color stoppia?…
O forse meglio un bel colore arancio?…
O un color porporino…
O un colore corona francese,
quel bel giallo dorato…

COTOGNA -
Già, ma attento, corone francesi
ce ne sono anche che non han più peli,
il che vuol dir che reciti sbarbato.([22])
Amici, queste son le vostre parti,
ed io vi chiedo, supplico e scongiuro
che l’impariate per domani sera.
Ci troveremo al bosco del palazzo,
nel parco, a un miglio fuori di città;
perché se ci riuniamo qui in città
avremo dietro un codazzo di gente
e tutti scoprirebbero in anticipo
i nostri trucchi e le nostre intenzioni.
Io mi dedico intanto a buttar giù
un inventario di tutti gli attrezzi
necessari alla rappresentazione.
Mi raccomando a tutti, non mancate!

BOTTONE -
Nessuno mancherà, sta’ pur tranquillo.
Sì, là potrem provare a nostro agio
oscenissimamente([23]) e con coraggio.
All’opera, mettetecela tutta.
Dovete esser perfetti. Vi saluto.

COTOGNA -
Domani sera, alla quercia del Duca.

BOTTONE -
Basta così. O la va o la spacca!([24])


(Escono)


Atto secondo




SCENA I - Bosco presso Atene




Entrano da parti opposte, una FATA e PUCK

PUCK -
Ehi, spiritello, dove vai girando?

FATA -
“Vo’ per il folto della selva bruna,
“per rovi, orti e valloni,
“vo’ tra fulmini e tuoni
“leggero come un raggio della luna,
“a servir delle fate la regina;
“ad imperlare di rorida brina
“i sentieri dov’ella s’incammina
“insieme con le sue dame e donzelle;
“vo’ cercando le fresche campanelle
“la cui veste leggera
“spira profumo già di primavera.
“Vo’ cercando stelline di rugiada
“da appiccar con amore
“come orecchini di pendula giada
“alla corolla aperta d’ogni fiore”.


Ma debbo andare, curiosone, addio,
ché la regina sta per arrivare
col suo corteggio, e intende qui restare.

PUCK -
Ma qui stanotte fa baldoria il re;
e la regina se ne stia lontana,
perché Oberon è infuriato con lei
per via ch’ella si trattiene con sé
come paggetto un vago fanciulletto
da lei sottratto ad un regnante indiano.
Mai fu rubato oggetto([25]) a lei più caro,
e Oberòn è in dispetto
perché vorrebbe avere al suo servizio
il ragazzetto, a far da battitore.([26])
Ma, sorda al suo rancore,
ella trattiene a forza il bel fanciullo,
gli foggia una corona d’ogni fiore,
e se ne fa gradevole trastullo.
Così non c’è una volta che quei due,
dovunque si ritrovino di fronte,
che sia un bosco, un prato, un chiaro fonte,
non sfoghino l’acerbo lor rancore,
al punto che i lor elfi, impauriti,
si vanno ad acquattare, al lor furore,
nei gusci delle ghiande.

FATA -
Tu, se dalle maniere e dal sembiante
io non m’inganno, sei quel discolaccio,
quel folletto bugiardo e malizioso
che tutti chiamano Robin Bravomo.([27])
Non sei tu quel bizzoso spiritello
che al villaggio spaventa le ragazze,
che fa cagliare il latte dentro i secchi,
che armeggia tra le pale del mulino,
e si rende molesto alle massaie
vanificando la loro fatica
a sbattere la crema nella zangola?
Ed altre volte a far schiumar la birra,
o a far smarrire il cammino ai viandanti
di notte, e ridere del loro disagio?
E t’adoperi, invece, premuroso,
ad aiutare nel loro lavoro,
ed a portar fortuna
a quelli che ti chiaman vezzeggiandoti,
“mio caro diavoletto”([28]) e “dolce Puck”?

PUCK -
Hai detto giusto: sono proprio io
quell’allegro notturno vagabondo.
Io faccio da buffone ad Oberon,
e lo faccio morir dalle risate
quando mi metto a far l’imitazione
del verso d’una puledrina in foja,
e uno stallone ben sazio di fava
corre qua e là a cercarla e non la trova.
Talvolta vado, quatto, ad appiattarmi,
nella forma d’un granchiolino arrosto,([29])
nel fondo del boccale d’una vedova,
sì che al momento ch’ella fa per bere
le salto sulle labbra all’improvviso,
e la birra le si rovescia tutta
giù giù per l’avvizzita pappagorgia.
Talvolta una comare saccentona
nel raccontare, tutta sussiegosa,
una delle sue storie strappalacrime,
mi scambia per un tripode sgabello:
io, d’un tratto, le sguscio dalle natiche,
quella va a gambe all’aria,
e scatarrando grida: “Accidentaccio!”([30])
e là tutti a crepare dalle risa
ed a giurare, tra tossi e starnuti,
di mai aver passato ora più allegra.
Ma largo adesso, Fata, ecco Oberòn.

FATA -
Ed ecco pure la padrona mia.
Come vorrei che fosse già partito!


Entrano, da parti opposte, OBERON e TITANIA coi rispettivi corteggi

OBERON -
Male incontrata, orgogliosa Titania;
al chiaror della luna!

TITANIA -
Anche tu qui?
Andiamo, fate, andiamocene via!
Di lui ho rinnegato letto e mensa!([31])

OBERON -
Fèrmati, presuntuosa libertina!
Non sono il tuo signore?

TITANIA -
Com’io dovrei sentirmi tua signora,
se non sapessi, ahimè, fin troppo bene
di quando dal paese delle Fate
ti sei allontanato di nascosto
e, assumendo il sembiante di Corino,
sei rimasto seduto tutto il giorno
a zufolar su canne di granturco
e rimeggiar d’amore alla tua Fillide!([32])
Perché ti trovi qui? Sarai accorso
chi sa da qual remota balza d’India([33])
solo perché la tua spavalda Amazzone,
il coturnato tuo amor guerriero
è in procinto d’andar sposa a Teseo,
e vieni a dispensare al loro talamo
gioia e prosperità. Non è così?

OBERON -
Ah, svergognata! Come puoi, Titania,
alludere così malignamente
alla mia amicizia con Ippolita
quando sai ch’io conosco troppo bene
l’antica tua passione per Teseo?
Non l’hai condotto tu, di nottetempo,
da Perìgone, ch’egli avea stuprato?
E non sei stata tu
a indurlo a romper la giurata fede
ad Egle bionda, ad Arianna, ad Antiope?([34])

TITANIA -
Queste son pure fantasticherie
dettate a te dalla tua gelosia.
Non c’è stata una volta,
da quando è cominciata questa estate,
che, ovunque c’incontrassimo, noi due,
su un colle, a fondovalle, o dentro un bosco,
o tra i giunchi alla riva d’un ruscello,
tu non abbia turbato i nostri giochi
con le tue solite baruffe. E i venti,
sdegnati per dover fischiare invano
per noi, per vendicarsi,
si sono volti a suggere dal mare
contagiosi vapori, e questi, poi,
rovesciandosi in pioggia sulla terra,
hanno talmente gonfiato di boria
anche il più striminzito fiumiciattolo,
da farlo tracimar fuori dagli argini;
onde al bove s’è fatto adesso vano
tirare avanti aggiogato all’aratro,
e al contadino faticar sudando;
e il verde grano è costretto a marcire
prima che la sua spiga ha messo barba;
e nei campi inondati dalle piene
ora gli ovili son rimasti vuoti,
mentre corvi e sparvieri si rimpinzano
delle carogne delle bestie morte;
e coperto di mota è il campo-giochi([35])
e cancellati son tutti i sentieri
segnati sopra il rigoglioso verde
in forma d’ingegnosi labirinti,
perché non più calcati da alcun piede;
più non possono i poveri mortali
goder dei passatempi dell’inverno,
né più allietate son le loro veglie
da canti e danze… Perfino la luna,
la grande artefice delle maree,
pallida d’ira, impregna tutta l’aria
d’umidi umori, sì che per il mondo
abbondano le malattie reumatiche.
E per causa di queste disturbanze([36])
noi vediamo alterarsi le stagioni:
brine canute nel vermiglio grembo
cadono della rosa mo’ sbocciata
e sovra il capo calvo e raggelato
del vecchio inverno sta, come per scherno,
calcata un’odorosa coroncina
di vivaci e leggiadri fiori estivi.
La primavera, l’estate, l’autunno
di messi gravido, l’irato inverno
van mutando la lor consueta veste;
e il mondo, sbalordito,
non sa più riconoscere dai frutti
qual sia questa stagione, qual quest’altra.
E tutta questa progenie di mali
è generata dai nostri litigi,
dalle continue nostre ostilità;
noi soli siamo i loro genitori,
l’unica e sola loro scaturigine.([37])

OBERON -
A te porre rimedio a tutto questo,
allora: è in te la cagione di tutto!
Perché deve Titania contrastare
un desiderio del suo Oberòn?
Io non ti chiedo in fondo che un bimbetto,
un bimbetto rubato nella culla([38])
da farne un mio paggetto…

TITANIA -
Mettiti il cuore in pace:
non basta tutto il regno delle fate
a comprare da me quel fanciulletto.
Sua madre era devota del mio ordine
e, nelle profumate notti indiane,
sovente conversava accanto a me;
e spesso è stata seduta con me
sulle pallide sabbie di Nettuno
a contemplar le vele mercantili
sull’onde: e allora insieme abbiamo riso
al veder quelle vele concepire
e inturgidire come messe incinte
ad opera d’una lasciva brezza;
ed ella, con grazioso e molle incedere,
seguendole con l’occhio (già il suo ventre
era ricco del giovin mio scudiero)
sembrava ne imitasse l’ondeggiare,
anch’ella veleggiando lungo il lido
a raccoglier conchiglie ed altre inezie,
tornando poi da me come da un viaggio
stracarica di quella mercanzia.
Ma era donna mortale, e partorendo
morì, lasciando questo fanciulletto,
che per amor di lei ho allevato,
per non volermene più separare.

OBERON -
Quanto intendi restare in questo bosco?

TITANIA -
Fino a dopo le nozze di Teseo.
S’hai voglia di restar, buono e tranquillo,
a intrecciare carole insieme a noi
e a prender parte al nostro tripudiar
sotto la luna, resta pure qui;
ma se tu non ne hai voglia,
schiva la mia presenza, come io stessa
farò dei luoghi da te frequentati.

OBERON -
Se desideri ch’io resti con te,
cedimi quel ragazzo.

TITANIA -
Nemmeno in cambio di tutto il tuo regno!
Fate, venite, andiamo, andiamo via!
Se resto qui, si litiga di brutto!


(Esce con tutto il seguito)

OBERON -
Va’, va’, vattene pur per la tua strada…
Non uscirai però da questo bosco
se prima io non abbia escogitato
come farti pagare questo torto.
Vieni, mio caro Puck.
Ti rammenti, mio caro, quella volta
ch’io, seduto su d’una roccia a picco
sul mare, erta come un promontorio,
ascoltavo, rapito, una sirena
che assisa sulla groppa d’un delfino
cantava sì soave ed armoniosa
da far che fino il mare, assai ingrugnato,
si placasse, cortese, ad ascoltarla?
E quante stelle dalle loro sfere
vedemmo irrompere, come impazzite,
per venir più vicino ad ascoltare
il canto dell’equorea fanciulla?

PUCK -
Lo rammento.

OBERON -
Io vidi, in quel momento,
come veder tu non potevi certo,
trasvolare Cupido tutto armato
tra la gelida luna e questa terra,
e drizzare la mira del suo arco
su una bella vestale assisa in trono
in occidente, e scoccar dalla corda
un amoroso strale, e con tal forza
da trapassare non un solo cuore,
ma centomila cuori messi in fila.
Ecco che invece l’infuocato dardo,
com’io potei vedere, s’andò a spegnere
tra i casti raggi dell’umida luna
mentre quella real sacerdotessa
restava a proseguire indisturbata
le verginali sue meditazioni,
immune da amorose fantasie.
Vidi anche dove il dardo di Cupido
era caduto: sopra un fiorellino
che, prima bianco-latte, ora è purpureo
per la ferita d’amor ricevuta.
Le fanciulle lo chiaman “fior d’amore”.([39])
Va’, cercami quel fiore.
T’ho mostrato una volta la sua pianta.
Il suo succo, spremuto sulle ciglia
di chi dorme, sia esso uomo o donna,
lo fa cadere innamorato folle
del primo esser vivente
che si trova davanti al suo risveglio.
Va’, trovami quell’erba,
e non metter più tempo, a ritornare,
d’un leviatano([40]) a nuotare una lega.

PUCK -
In quaranta minuti metto un cinto
tutt’intorno alla pancia della terra!


(Esce)

OBERON -
Come avrò nelle mani questo succo,
sorprenderò Titania addormentata
e le distillerò sugli occhi il liquido,
e la creatura viva che per prima
le verrà innanzi agli occhi al suo risveglio,
sia essa un orso, un lupo, od un leone,
un toro od una scimmia ficcanaso,
o un’irrequieta e garrula bertuccia,
ella sarà costretta ad inseguirla
con tutta l’ansia d’un’innamorata.
E allora, prima ch’io le sciolga gli occhi
da codesto incantesimo - e lo posso,
servendomi del succo d’un’altr’erba -
mi faccio cedere quel suo paggetto.
Ma chi viene?… Rendiamoci invisibili,([41])
e stiamo ad origliar quel che si dicono.


Entra DEMETRIO seguito da ELENA

DEMETRIO -
Io non t’amo, lo sai,
e dunque smetti di venirmi dietro.
Dove sono Lisandro ed Ermia bella?…
Lui lo ammazzo, ma lei ammazza me!
M’hai detto che se n’erano fuggiti
in questo bosco; ed eccomi ora qui,
selvaggiamente folle in questa selva,
per non riuscire a trovar la mia Ermia.
Vattene, va’, non mi seguire più!

ELENA -
Sei tu, cuor duro, a tirarmiti dietro
come una calamita;
ma in me tu non attiri del vil ferro,
perché il mio cuore è acciaio temperato.
Perdi questa tua forza d’attrazione,
io perderò la forza di seguirti.

DEMETRIO -
T’attiro, io? Son io che ti seduco
parlandoti con voce di lusinga?
O non son io che in piena lealtà
ti dico e ti ripeto che non t’amo,
e che sento di mai poterti amare?

ELENA -
Ed è proprio per questo, vedi un po’,
ch’io mi sento d’amarti sempre più.
Son ridotta, Demetrio, il tuo segugio,
che più lo batti e più ti viene intorno.
Trattami come fossi il tuo spaniello,
trascurami, disdegnami, percuotimi,
smarriscimi; ti chiedo solo questo:
che mi consenti, indegna come sono,
di seguirti. Qual più modesto posto
ti posso domandare nel tuo cuore
che d’essere trattata come un cane
(e ancor lo tengo come un privilegio)?

DEMETRIO -
Non tentar troppo l’odio del mio animo;
perché sto male soltanto a vederti.

ELENA -
Ed io sto male solo a non vederti!

DEMETRIO -
Hai già troppo invilito il tuo pudore
uscendo sola fuori di città,
affidandoti ad uno che non t’ama,
esponendo alle insidie della notte
e al mal consiglio di luoghi deserti
il tesoro della tua castità.

ELENA -
La tua stessa onestà m’è garanzia:
non è più notte, se vedo il tuo volto,
perciò non mi par più d’essere al buio;
né questo bosco mi pare un deserto:
se ci sei tu con me, c’è tutto il mondo.
Perché sentirmi sola,
se a proteggermi ho tutto intero il mondo?

DEMETRIO -
Ma io ti fuggirò, andrò a nascondermi
nella foresta, e ti lascerò sola,
alla mercé delle bestie feroci.

ELENA -
La bestia più feroce della terra
non può aver cuore più crudo del tuo.
Va’, va’, fuggi; sarà così invertita
l’antica favola: Apollo che fugge
e Dafne che lo insegue disperata:([42])
la colomba che insegue il girifalco,
la docile cerbiatta
che si lancia per afferrar la tigre!

Vana corsa, purtroppo,
quando chi insegue è la timidità
e chi fugge il coraggio.

DEMETRIO -
Non starò qui a sentir le tue querele!
Lasciami andare, e non venirmi dietro;
e poi non credere, se mi perseguiti,
ch’io nel bosco non possa farti male.

ELENA -
Male tu me ne fai sempre e dovunque,
nel tempio, per le vie della città,
in aperta campagna. Ahimè, Demetrio,
i torti che mi fai sono vergogna
non solo a me, ma all’intero mio sesso,
perché a noi donne non è consentito
combattere per ottenere amore,
come a voi uomini; noi siamo nate
per essere da voi desiderate,
non per desiderarvi corteggiandovi.


(Esce Demetrio)


Ti seguirò, Demetrio, ovunque vai,
e farò dell’inferno un paradiso
se morirò per mano di chi adoro.


(Esce)

OBERON -
(Ricomparendo)
Addio, ninfa;([43]) ma sarai tu a fuggirlo,
prima ch’egli abbandoni questo bosco,
e lui, innamorato, ad inseguirti!


Rientra PUCK


Bentornato, mio caro giramondo.
Quel fiore, allora, l’hai con te?

PUCK -
Sì, eccolo.

OBERON -
Dammelo qua. C’è un posto in riva al fiume
dove fiorisce del timo selvatico
e rigogliose vi crescon le primule
e le viole dal capo tentennante
sotto il lussureggiante baldacchino
formato da un aulente caprifoglio,
e profumate rose borraccine.
In quel luogo Titania
suol mettersi a giacere e addormentarsi
per una buona parte della notte,
cullata, in mezzo a quel fiorito asilo,
da danze, musiche ed altre delizie.
Ivi anche è solita lasciar la serpe
la sua veste smaltata, ampia abbastanza
da ammantarci una fata.
Io bagnerò col succo di quest’erba
le sue palpebre e questo avrà il potere
di riempirla di odiosi desideri.
Prendine tu qualche stilla con te,
e mettiti a cercare in questo bosco:
una leggiadra fanciulla di Atene
si strugge per un giovane sdegnoso;
trovalo, e spalmargli questo sugli occhi.
Ma fallo con la massima attenzione,
così che al suo risveglio questo giovane
si ritrovi di lei innamorato
più di quanto non sia ella di lui.
E torna qui prima che canti il gallo.

PUCK -
Non dubitare, padrone: il tuo servo
farà tutto a puntino, come dici.


(Escono)




SCENA II - Altra parte del bosco




Entra TITANIA col suo corteggio di FATE

TITANIA -
Andiamo, su, alla svelta!
Appena un girotondo e una canzone;
venti secondi soli, e poi via tutte,
quali ad uccidere i piccoli bruchi
sui bocci delle rose damaschine,
quali a dare la caccia ai pipistrelli
(con le loro ali si fan bei corsetti
di cuoio per i miei piccoli elfi);
quali a cacciar la stridula civetta
che strilla a notte la sua meraviglia
vedendo i nostri strani spiritelli.
Cantatemi la vostra ninna nanna,
e poi, mentr’io riposo, tutte all’opera!


CANZONE DELLE FATE

1a FATA -
“Voi, serpi maculate
“dalle lingue forcute,
“voi, irti porcospini,
“voi, salamandre, voi, ciechi orbettini,
“nelle tenebre mute
“nascosti rimanete,
“a Titania regina delle fate
“offesa non recate”.

CORO -
“Filomela, tu, carina
“culla il sonno alla regina
“con la melodiosa canna,
“ninna nanna, ninna nanna.
“Dal suo sonno lunge sia
“ogni male, ogni malia,
“dolce sia del sonno l’ora
“all’amabile signora”.

2a FATA -
“Voi, ragnetti tessitori,
“zampalunga, andate via!
“Via, lumache, scarafaggi,
“via da questi suoi paraggi.
“Vermi, via, non disturbate
“la regina delle fate”.

CORO -
“Filomela, tu, carina
“culla il sonno alla regina
“con la melodiosa canna,
“ninna nanna, ninna nanna.
“Dal suo sonno lunge sia
“ogni male, ogni malia,
“dolce sia del sonno l’ora
“all’amabile signora”.


(Titania s’addormenta)

2a FATA -
“Dorme. Via, sciamate lesti,
“una qui a vegliarla resti”.


(Escono tutte le fate)


OBERON compare, s’accosta a Titania che dorme e le spreme il fiore sulle palpebre

OBERON -
Pel primo che vedrai, aprendo gli occhi,
insano amor ti tocchi.
Sia pur mostro tutto orrore,
languirai per lui d’amore.
Sia pur orso, o pardo, o cervo,
o cinghial dal pelo acerbo
che al tuo occhio primo appare,
quello tu dovrai amare.
Perciò sol ti sveglierai
quando quello accanto avrai.


(Sparisce)


Entra LISANDRO con ERMIA appoggiata al suo braccio

LISANDRO -
Amore mio, tu svieni;
questo lungo vagare per il bosco
t’ha stancata, e, a dir la verità,
ho smarrito il cammino.
Riposiamoci qui, Ermia, se credi,
a attendere il conforto del mattino.

ERMIA -
Sì, Lisandro.
Tròvati tu un giaciglio come puoi;
io mi distendo qui,
poggiata il capo sopra questo greppo.

LISANDRO -
Questo ciuffetto d’erba, mia diletta,
può servir da cuscino a tutti e due:
un sol cuore, un sol letto,
due anime, ed una stessa fede.

ERMIA -
No, buon Lisandro, no; se mi vuoi bene,
stattene più discosto,
non ti giacer così vicino a me.

LISANDRO -
Oh, dolcezza, non devi fraintendere
l’innocenza di questa mia proposta!
Amore coglie da se stesso il senso
del parlare amoroso:([44]) voglio intendere
che il mio cuore è così legato al tuo
che d’entrambi se ne può fare un solo;
due cuori incatenati con voto,
due anime congiunte in un sol nodo.
Non negarmi perciò, Ermia, un giaciglio
accanto a te, perché così giacendo
non ti voglio ingannare, mia diletta.([45])

ERMIA -
Lisandro sa giocare molto bene
con le parole. Che siano dannate
le mie brusche maniere e il mio orgoglio,
se Ermia abbia mai potuto intendere
che Lisandro volesse abbindolarla
Ma se ti chiedo, gentile compagno,
per un atto d’amore e cortesia,
di metterti a dormire un po’ lontano,
è per pudore: una separazione,
com’essa può ben essere chiamata,
qual si conviene a un giovane virtuoso
e a una fanciulla vergine.
Sta’ discosto, perciò, dolce compagno
e buona notte. E mai l’amore tuo
si guasti fino al fine di tua vita!

LISANDRO -
Amen, amen, a questa tua preghiera
io dico; e che finisca la mia vita
se mai finisca la mia fedeltà!
Qui è il mio letto; a te conceda il sonno
il suo pieno ristoro.

ERMIA -
Questo augurio riposi per metà
sugli occhi di colui che me l’ha detto.


(Si distendono e s’addormentano)


Appare PUCK

PUCK -
“Tutto il bosco, fino in fondo,
“sono andato perlustrando,
“l’ateniese invan cercando
“sulle cui ciglia saggiare
“il potere del mio fiore
“a far nascere l’amore.
“Notte… non uno stormire…


(Vede Lisandro addormentato)


“Ma chi vedo qui dormire?
“Sembra, all’abito, il garzone
“che, a sentire il mio padrone,
“tiene a sdegno la pulzella,
“l’ateniese damigella”.
“Ecco, infatti, che distesa
“vedo ch’ella pur riposa
“sopra queste umide zolle.
“Pover’anima! Ella volle
“certamente star lontano
“da un tal fior di disumano
“schiva-amore e gran villano”.


(S’avvicina a Lisandro che dorme, e gli spreme il succo sulle palpebre)


“Sui tuoi occhi, sciagurato,
“verso il filtro mio fatato.
“Quando ti sarai destato
“sui tuoi occhi già insediato
“sarà Amore, e da gran donno,
“a impedirti e pace e sonno.
“Or ti lascio, devo andare,
“da Oberon devo tornare”.


(Sparisce)


Entrano DEMETRIO ed ELENA, correndo

ELENA -
Demetrio caro, fèrmati un momento,
fosse pur solamente per uccidermi.

DEMETRIO -
Va’ via di qui, te l’ordino,
Elena! E smetti perseguitarmi!

ELENA -
Vuoi dunque abbandonarmi qui nel buio?
Ah, non farlo, Demetrio!

DEMETRIO -
Rimani qui, se vuoi,
ma a tuo rischio e pericolo. Io vado.


(Esce)

ELENA -
Ahimè, sono rimasta senza fiato
per questa folle corsa dietro a lui.
E più l’imploro, e meno lui m’ascolta!
Ermia felice, ovunque ella si trovi,
per gli occhi suoi così belli e maliosi!
Come avran fatto ad esser sì lucenti
quegli occhi?… Non col salso delle lacrime,
perché se così fosse gli occhi miei
sarebbero splendenti più dei suoi.
No, io son brutta, brutta come un orso,
perché le stesse fiere che m’incontrano
fuggono spaventate. Che stupirsi
allora se mi fugge anche Demetrio
come se fossi un mostro?
Quale specchio malvagio e deformante
poté farmi paragonare ad Ermia,
i cui occhi son due lucenti stelle?


(Scorge Lisandro addormentato)


Ma chi c’è qui?… Lisandro?…
E qui, per terra?… Morto?… Addormentato?…
Non vedo sangue… non vedo ferita…


(Scotendolo)
Lisandro, caro, se sei vivo, svègliati!

LISANDRO -
(Svegliandosi)
Sul fuoco passerò per amor tuo,
Elena trasparente!
Che artista sopraffino è la natura
a fare ch’io ti scopra il cuore in petto
attraverso il tuo seno!
Dov’è Demetrio? Oh, questo vile nome
ben s’adatta a perir per la mia spada!

ELENA -
Non dir così, Lisandro, non lo dire!
Che t’importa s’egli ama la tua Ermia?
Che t’importa, Lisandro?
Ermia ama te, e dunque stai contento.

LISANDRO -
Contento io, con Ermia? No, mi pento
dei tediosi minuti che ho trascorsi
insieme a lei! Non è Ermia ch’io amo,
ma Elena! E chi non cambierebbe
una cornacchia per una colomba?
La volontà dell’uomo è governata
dalla ragione, e la ragione mia
mi proclama che tu sei la più degna.
Le cose crescono e non son mature
finché non giunga la loro stagione;
e così io, essendo troppo giovane,
non ero ancor maturo di ragione.
Ed avendo raggiunto ora il punto
dell’esperienza umana, la ragione
si fa guida della mia volontà
e m’induce a mirar gli occhi tuoi
dov’io contemplo le storie d’amore
più preziose che mai furono scritte
nel libro dell’amore.

ELENA -
Perché dovevo io essere nata
per sì sottile beffa? Che ho mai fatto
per meritare da te questo scherno?
Non ti basta, Lisandro, non ti basta
ch’io mai abbia potuto, e mai potrò
meritarmi soltanto un dolce sguardo
dall’occhio di Demetrio, che anche tu
ti debba divertire a farti scherno
della mia insufficienza? Mi fai torto,
in fede mia, mi fai davvero torto
a corteggiarmi così per dileggio.
Ma statti bene; devo confessarti
che ti consideravo un gentiluomo
di maggior correttezza e cortesia.
Ah, che una donna, dopo che da un uomo
è stata rifiutata, perciò stesso
debba sentirsi insultare da un altro!


(Esce)

LISANDRO -
Non s’è accorta di Ermia…
Ermia, tu sèguita a dormire qui,
e Lisandro non t’abbia più vicina.
È proprio vero che la sazietà
delle cose più dolci porta l’uomo
a provare più forte ripugnanza
per quelle; e così come le eresie,
se abiurate, son tanto più aborrite
da quelli ch’esse trassero in inganno,
tu che sei insieme la mia sazietà
e la mia ingannevole eresia,
possa da tutti esser tu aborrita,
e da me più di tutti.
E ad Elena rivolgano i miei sensi
tutto l’amore di cui son capaci,
perch’io possa onorarla
e farmi suo devoto cavaliere!


(Esce)

ERMIA -
(Svegliandosi)
Lisandro, aiuto! Aiutami Lisandro!…
Strappami via con tutta la tua forza
questo serpente che m’avvinghia il seno!
Oh, poveretta me, che brutto sogno!
Guarda, son tutto un tremito, Lisandro.
M’è sembrato che un serpe
mi si mangiasse il cuore, e tu, Lisandro,
stessi là, ad assister sorridendo
alla crudel sua preda…
Ma dove sei?… Lisandro!… Già levato?
Lisandro, mio signore, non mi senti?…
Se n’è andato… né suono, né parole…
Ahimè, parla, rispondi, se m’ascolti!
Parla, nel nome di tutti gli amori,
ch’io mi sento svenir dalla paura…
No?… Ah, vuol dire che non sei vicino.
Ma io ti troverò, Lisandro, e subito,
o troverò la morte.


(Esce)


Atto terzo




SCENA I - Nel bosco




TITANIA giace addormentata


Entrano COTOGNA, CONFORTO, BOTTONE FLAUTO, NASONE e IL LANCA

BOTTONE -
Ci siamo tutti, allora?

COTOGNA -
Tutti, ed il luogo sembra fatto apposta
per la prova; questa spianata erbosa
farà da palcoscenico;
questa siepe di biancospino è adatta
a spogliatoio, e ci potremo muovere
come fossimo già davanti al Duca.

BOTTONE -
Però, Piero Cotogna…

COTOGNA -
Che c’è, caro?

BOTTONE -
… in questa storia di Piramo e Tisbe
c’è roba che non potrà mai piacere:
una, che Piramo, davanti al pubblico,
deve trarre una spada per uccidersi;
questo farà impressione alle signore.
Non lo sopporteranno. Tu che dici?

NASONE -
Caspita,([46]) c’è da spaventarsi, eccome!

LANCA -
Io per me penso che all’ammazzamento
alla fin fine si può rinunciare.

BOTTONE -
Per niente affatto! Ho io una trovata
che sistemerà tutto: tu, Cotogna,
farai tanto da buttar giù un bel prologo,
e sarà il prologo a spiegare al pubblico
che queste spade non fanno alcun male,
e Piramo s’ammazzerà per finta;
anzi, a rassicurare meglio il pubblico,
gli si dirà che io, che sono Piramo,
in realtà non sono affatto Piramo,
ma Nicola Bottone, tessitore.

COTOGNA -
Va bene, scriveremo questo prologo;
e sarà in ottonari con senari.([47])

BOTTONE -
No, ai senari aggiungici due piedi:
in ottonari, tutto in ottonari.

NASONE -
E del leone non avran paura
le dame?

LANCA -
Ho proprio paura di sì.

BOTTONE -
Eh, già, compagni, pensateci bene:
portare - Dio ne liberi! - un leone
tra le signore è una cosa terribile.
Non c’è uccello che faccia più paura
alle signore d’un leone vivo.
Eh, sì, bisogna starci molto attenti!

NASONE -
Beh, vuol dire che si dirà, nel prologo,
che il leone non è un leone vero.

BOTTONE -
Anzi, si dovrà dire chi è l’attore,
nome e cognome, e in mezzo alla criniera
fare che gli si scorga mezza faccia,
dicendo al pubblico all’incirca questo:
“Mie dame… ovverosia, vi chiederei…
“ovvero, meglio, vi supplicherei
“di non aver paura e non tremare:
“la mia vita risponde della vostra.
“Se pensate ch’io venga innanzi a voi
“come un leone vero in carne ed ossa,
“povera vita mia.([48]) Ma non son quello.
“Io sono un uomo come tutti gli altri…”.
E dica a questo punto il proprio nome,
chiaro, ch’egli è Nasone, stipettaio.

COTOGNA -
Va bene, si farà così. Ma attenti:
ci restan due bisogna un po’ rognose:
come portare dentro, nella stanza,
il chiar di luna, ché Piramo e Tisbe,
come sapete, devono incontrarsi
nottetempo al chiarore della luna.

NASONE -
Ma ci sarà la luna, quella notte?

BOTTONE -
Un calendario, dov’è un calendario?
Avanti, consultiamo un almanacco,
e cerchiamo la luna…

COTOGNA -
(Estrae dalla borsa un almanacco e lo sfoglia)
Eccolo qua.
Sì, ci sarà la luna, quella notte.

BOTTONE -
Bene, allora si lascia spalancata
una finestra del grande salone
dove si recita e attraverso quella
facciamo entrare il chiarore lunare.

COTOGNA -
(Incredulo)
Già… o se no, potrebbe entrare in scena
qualcuno con dei pruni e una lanterna,
e dire ch’è venuto a sfigurare([49])
o a rappresentare il Chiar-di-luna.
Ma c’è dell’altro ancora a cui pensare:
dentro la stanza dev’esserci un muro,
per via del fatto che Piramo e Tisbe
- così vuole la storia - si parlavano
proprio attraverso la crepa d’un muro.

NASONE -
Un muro non ce lo farete entrare mai
nella stanza. Bottone, che ne dici?

BOTTONE -
Beh, vorrà dire che sarà un di noi
a far da muro; lo impiastricceremo
con un po’ di calcina e un po’ di gesso
a figurar l’intonaco d’un muro,
e terrà aperte le dita così,
(Fa il gesto di divaricare il medio
e l’indice di una mano)
ad indicare che per quella crepa
Piramo e Tisbe si bisbiglieranno.([50])

COTOGNA -
Per me, se si può fare, va benone.
Sotto, figli di mamma, intorno a me,
a provare ciascuno la sua parte.
Piramo, via, attacca tu per primo;
poi, terminata che avrai la battuta,
ti ritiri là dietro a quella siepe.
E così gli altri, secondo il copione.


Appare PUCK, restando nel fondo

PUCK -
Che ci faranno qui questi bifolchi
vestiti di cardame casereccio,
che smargiassano sì insolentemente
presso la culla della mia regina?…
Che! Preparano forse una commedia?
Vuol dire che farò da spettatore,
e forse anche da attore, alla bisogna.


(Resta nel fondo, invisibile)

COTOGNA -
Piramo, attacca. Tisbe, vieni avanti.

BOTTONE -
(Recitando)
“Tisbe, soavi olezzano nell’aria
“gli odiosi fiori…

COTOGNA -
(Interrompendolo)
“Odorosi, odorosi!”

BOTTONE -
(Seguitando a recitare)
“… gli odorosi fiori,
“così il tuo fiato, Tisbe mia diletta.
“Ma zitta! Odo una voce. Un poco aspetta,
“vado a vedere un attimo di fuori…”


(Si ritira dietro la siepe)

PUCK -
(A parte)
Un Piramo dei più straordinari
che mai si siano visti sulle scene!


(Si va a mettere anche lui, sempre non visto, dietro la siepe dov’è Bottone)

FLAUTO -
Tocca a me, ora?

COTOGNA -
Infatti, tocca a te.
Tu hai capito che Piramo è uscito
per accertarsi del rumore udito,
e dunque avanti tu con la tua parte.

FLAUTO -
(Recitando)
“Piramo mio, amabile gioiello,
“come candido giglio risplendente,
“come rosa vermiglia trionfante,
“mio dolce innamorato garzoncello,([51])
“fedele qual fu mai stanco morello,
“ecco ch’io vengo ad incontrarti innante
“di Ninì all’avello”.

COTOGNA -
(Correggendolo)
No, “di Nino”!
Eppoi questo non devi dirlo adesso:
è la risposta che darai a Piramo,
tu invece tiri via tutto di seguito,
senza riguardo a quando devi entrare.
Piramo, entra. La tua imbeccata
è passata; era “mai stanco morello”.

FLAUTO -
Eh, già, gliela ripeto:
“Fedele qual fu mai stanco morello”…


Rientra BOTTONE, che ora, al posto della sua, ha una testa d’asino. PUCK ricompare in fondo.

BOTTONE -
(Recitando)
“Se tale io fossi, Tisbe,
“soltanto tuo sarei…”

COTOGNA -
Oh, mostruoso! Che orribile stranezza!
Qui c’è stregoneria! Scappiamo, mastri!
Scappiamo tutti, mastri! Aiuto, aiuto!


(Escono, spaventati, Cotogna, Conforto, Flauto, Nasone e Il Lanca)

PUCK -
Mi metterò dietro alle vostre poste
e v’indurrò per volte e giravolte,
per fossi, rovi, sassi, macchie e fratte.
Ora sarò un segugio, ora un cavallo,
ora un maiale, ora un orso che balla,
ora v’apparirò fatua fiammella,
or m’udrete latrare oppur nitrire
ad ogni svolta, e ruggire e grugnire
come un cane, un cavallo, un porcospino,
un orso, una fiammata, a voi vicino.


(Scompare)

BOTTONE -
Perché sono scappati?… Di sicuro
una lor birberia per spaventarmi.


Rientra NASONE

NASONE -
Bottone, ahimè, come ti sei mutato!
Che hai sul collo?

BOTTONE -
Che vuoi che ci tenga?
Una testa di ciuco, come te.


(Esce Nasone)


Rientra COTOGNA

COTOGNA -
Uh, Bottone, che Dio ti benedica!
Oh, santo Dio, ti sei trasfigurato!


(Scappa)

BOTTONE -
Ho capito, una loro birbonata:
voglion farmi passare per un asino,
per mettermi paura, se potessero.
Facciano pure tutto quel che vogliono,
io di qui non mi muovo. Anzi, che faccio?
Mi metto a passeggiare in su e in giù
qui intorno ed a cantare,
per mostrar loro che non ho paura.


(Canta)
“Il merlo, becco giallo e piuma nera,
“il tordo, la leggiadra capinera,
“il vispo cardellino
“dal gaio pennacchino…

TITANIA -
(Svegliandosi)
“Qual angelo mi desta
“dal mio giaciglio in fiore
“con note sì canore?

BOTTONE -
(Sempre cantando)
“L’allodola, il fringuello,
“l’allegro colombello,
“il monotono cucco
“al cui cantar più d’un marito becco
“rispondere non osa…
e già, perché
chi mai vorrebbe spremersi il cervello
per rispondere ad un siffatto uccello?
Chi vorrebbe un uccello sbugiardare
“cucù”, “cucù”, mettendosi a gridare?([52])

TITANIA -
O gentile mortale, canta ancora,
per le tue note s’è d’amor rapito
l’orecchio mio, così come incantato
s’è il mio occhio a codesto tuo sembiante;
ed il potere delle tue virtù
è tale su di me, dal primo sguardo,
ch’io debbo dir, giurar, che per te ardo.

BOTTONE -
Secondo me, signora,
a confortar tale vostro sentire
molta ragione non dovreste avere
con voi; se pur va detto che oggidì
ragione e amore van di rado insieme;
ed è proprio un peccato
che un qualche onesto loro vicinante
non s’adoperi a renderli alleati…

TITANIA -
Sei assennato per quanto sei bello.

BOTTONE -
Ah, no, davvero né l’uno né l’altro;
perché se avessi abbastanza giudizio
da saper come uscir da questo bosco,
ne avrei già quanto basta per svignarmela.

TITANIA -
Non pensare d’uscir da questo bosco.
Tu, che lo voglia o no, qui con me
devi restare. Io non son uno spirito
da poco: nel mio regno è sempre estate([53])
e io t’amo. Perciò vieni con me;
metterò le mie fate al tuo servizio;
esse andranno a cercar per te gioielli
in fondo al mare, e canteran per te
mentre tu giacerai addormentato
sopra un letto di fiori;
e, sgravato del tuo peso mortale,
ti farò andar vagando tutt’intorno,
come spirito, fatto solo d’aria.


(Chiamando)
Fiordipisello! Ragnatela! Bruscolo!
Grandisénape! Dove siete tutti?

FIORDIPISELLO -
Son qui.

RAGNATELA -
Son qui.

BRUSCOLO -
Son qui.

GRANDISENAPE -
Siam tutti qui.


Entrano FIORDIPISELLO, RAGNATELA, BRUSCOLO e GRANDISENAPE

TUTTI -
(Inchinandosi)
Che c’è da fare? Dove s’ha da andare?

TITANIA -
Mostratevi carine e premurose
con questo cavaliere; sui suoi passi
intrecciate carole e volteggiate;
per lui cogliete more ed albicocche
e mirtilli, uva rossa e verdi fichi;
rubate il miele nei lor favi all’api,
staccate dalle lor cosce la cera
per fabbricarne lumini da notte,
e accendeteli agli occhi delle lucciole
così da illuminare all’amor mio
la via del letto e l’ora del risveglio.
Strappate l’ali multi-colorate
alle farfalle e fatene ventaglio
ai raggi della luna sui suoi occhi
addormentati. Inchinatevi a lui,
elfi, e rendetegli un cortese omaggio.

I QUATTRO ELFI -
(Inchinandosi a Bottone)
Salve, mortale!
Salve!
Salve!
Salve!

BOTTONE -
Di tutto cuore, domando mercé
a tutte quante vostre signorie.


(A Ragnatela)
Tu, di grazia, il tuo nome?

RAGNATELA -
Ragnatela.

BOTTONE -
Vorrò fare più stretta conoscenza
con te, mio caro Mastro Ragnatela;
se mi succede di tagliarmi un dito,
mi farò ardito a ricorrere a te.([54])


(A Fiordipisello)
E il tuo nome, compìto signorino?

FIORDIPISELLO -
Fiordipisello.

BOTTONE -
Salutami, allora,
tanto tua madre, la signora Buccia,
ti prego, ed altrettanto ser Baccello,
tuo padre, buon signor Fiordipisello.
Anche con te mi piacerebbe tanto
di far col tempo miglior conoscenza.


(A Grandisenape)
Il tuo nome, di grazia, signorino?

GRANDISENAPE -
Grandisenape.

BOTTONE -
Mastro Grandisenape!
Conosco bene la tua tolleranza.
Quel gigantesco vigliacco del bue
s’è mangiato parecchi valentuomini
del tuo casato; e posso assicurarti
che al pensiero di tanti tuoi parenti
mi son venute le lacrime agli occhi.
Sono bramoso, Mastro Grandisenape,
di far con te migliore conoscenza.

TITANIA -
Suvvia, scortatelo al mio padiglione.
La luna guarda con occhio di pianto,
a quanto pare; e se la luna piange,
piange con lei ogni piccolo fiore,
come per qualche castità violata.([55])
Cucitegli la lingua, all’amor mio,
e conducetelo via in silenzio.


(Escono)




SCENA II - Altra parte del bosco




Entra OBERON

OBERON -
Sono proprio curioso di saper
se Titania a quest’ora s’è svegliata,
e che cosa si sia trovata innanzi
per cui dovrà delirar di passione,
appena ha aperto gli occhi nel risveglio.


Entra PUCK


Ebbene, birba d’uno spiritello,
quali notturni eventi sono in corso
nel dolce incanto di questo boschetto?

PUCK -
Questo: che la regina mia padrona
s’è invaghita d’un mostro.
Presso la sacra sua segreta alcova,
nell’ora ch’ella si giaceva là
addormentata in un profondo sonno,
una combriccola di rattoppati,
rozzi e triviali artigiani ateniesi,
di quelli che nelle lor bottegucce
guadagnano sì e no di che sfamarsi,
erano radunati a far le prove
d’una commedia da mettere in scena
la sera delle nozze di Teseo.
Il più balordo della compagnia
di tutti quegli stolidi zucconi,
che recitava la parte di Piramo,
a un certo punto è uscito dalla scena
per entrare nel folto d’una siepe;
e qui, io, profittando del momento,
gli calzo in testa una capoccia d’asino.
Subito dopo, il mio bel commediante
perché doveva rispondere a Tisbe,
esce fuori. I compagni, nel vederlo,
scappano come tante oche selvatiche
che scorgano il furtivo uccellatore,
o come se uno stormo di cornacchie
s’alzasse tutte insieme ad uno sparo,
starnazzando e gracchiando a perdifiato,
o svolazzando da spazzare il cielo
per ogni parte, folli di paura.
Così sono scappati, nel vederlo,
tutti, inciampando e cadendosi addosso
di qua, di là, gridando: “All’assassino!”
chiamando per aiuto tutta Atene.
Le loro menti, già piuttosto deboli,
in preda ad un così violento panico
facevan veder loro una minaccia
nelle cose più innocue e inanimate,
sì da farli pensar che rovi e pruni
s’accanissero contro i lor vestiti,
li ghermissero, quali per le maniche,
quali per i capelli, nella corsa
ch’essi facevano nel ritirarsi.
Così li ho tratti via come impazziti
lasciando lì soltanto il dolce Piramo,
così come l’avevo trasformato.
In quel mentre Titania si svegliava,
e di quell’asino s’innamorava.

OBERON -
Meglio di quanto potessi pensare!
Ma poi le palpebre dell’ateniese
l’hai spalmate con quel succo d’amore,
come ti dissi?

PUCK -
Ho fatto pure questo.
L’ho trovato disteso che dormiva
e a fianco a lui la ragazza ateniese;
sicché per forza sarà stata lei
ch’egli ha dovuto vedere svegliandosi.


Entrano DEMETRIO e ERMIA

OBERON -
Eccolo l’ateniese. Nascondiamoci.

PUCK -
La donna è lei, ma l’uomo non è lui.

DEMETRIO -
(A Ermia)
Ah, trattare così colui che t’ama!
Queste amare parole di rimprovero
riservale pel tuo maggior nemico.

ERMIA -
Per adesso mi limito ai rimproveri;
ma ti dovrei trattare ancora peggio,
perché tu, com’io temo, hai fatto cosa
per cui davvero debbo maledirti.
Se hai ucciso Lisandro nel sonno,
visto che sguazzi coi piedi nel sangue,
affonda il tuo pugnale nel mio petto,
e uccidi pure me.
Il sole non fu mai fedele al giorno
com’egli è a me; Lisandro
non si sarebbe mai allontanato
da Ermia addormentata ed indifesa:
mi sarebbe più facile pensare
che la terra si lasci traforare
e che la luna sgusci per quel foro
per andare a spiazzare suo fratello([56])
agli antipodi, in pieno mezzogiorno.
Tu l’hai ucciso; non può esser altro:
un assassino non ha un altro aspetto,
così funereo, così sinistro.

DEMETRIO -
Tale è l’aspetto dell’assassinato,
come son io, trafitto fino al cuore,
dall’implacabile tua crudeltà;
mentre tu, l’assassina, sei splendente
e chiara come la stella di Venere
nel pieno sfolgorar della sua sfera.

ERMIA -
Che c’entra questo con il mio Lisandro?
Dov’è ora, dov’è, mio buon Demetrio?
Ah, dimmi che me lo restituirai!

DEMETRIO -
La sua carcassa in pasto ai miei segugi,
piuttosto!

ERMIA -
Ah, cagnaccio maledetto!
Vattene via da me, cane bastardo!
Ecco vedi, m’hai spinto a trapassare
i limiti della sopportazione!
Allora l’hai ucciso, sì o no?
Che tu non possa più d’ora in avanti
figurare nel novero dei vivi!
Dimmi la verità, per una volta,
dimmela, almeno per pietà di me!
Tu non osavi riguardarlo in viso
quand’era sveglio, e l’hai assassinato
mentre dormiva… Che grande prodezza!
Un serpente, una vipera qualunque
poteva farlo. E l’ha fatto una vipera;
perché mai vipera linguaforcuta
più di te, serpe, punse tanto forte!

DEMETRIO -
Stai sprecando la tua furia amorosa
per un abbaglio: io non son colpevole
del sangue di Lisandro,
che, tra l’altro, per quanto a me risulta,
non è morto.

ERMIA -
Se sai che è vivo, allora,
dimmi che è sano e salvo, ti scongiuro.

DEMETRIO -
Se te lo dico, che mi dài in cambio?

ERMIA -
Il privilegio di non più vedermi.
Perché dall’aborrita tua presenza
io fuggirò: sia egli vivo o morto
non comparirmi più dinanzi agli occhi.


(Esce)

DEMETRIO -
Seguirla adesso non mi pare il caso,
così infuriata. Starò qui perciò
per un poco. Per chi è nell’angoscia
la gravezza si fa sempre più grave
per il debito che deve pagarle
il sonno in bancarotta; ma un acconto
si potrà darle, se rimango qui
ad aspettar che il sonno glielo offra.([57])


(Si stende per terra e s’addormenta)

OBERON -
(Venendo avanti con Puck)
Ma che pasticcio hai fatto?
Hai sbagliato completamente tutto!
Hai cosparso del succo dell’amore
le ciglia d’un fedele innamorato;
sicché adesso ne seguirà per forza
che un vero amore si tramuti in odio,
e non già che si muti in amor vero
un amore sleale.

PUCK -
Allora è il fato a far tutto a rovescio,
che, per un uomo che resta fedele
ce ne siano milioni che tradiscono,
con falsi giuramenti uno sull’altro.

OBERON -
Va’, vola come il vento per il bosco
e rintracciami Elena d’Atene.
È pallida d’amore, e i suoi sospiri
costano cari al giovane suo sangue.
Conducimela qui con qualche inganno.
Io farò d’incantar gli occhi di lui
per quando lei gli apparirà davanti.

PUCK -
Vado, vado, volando: sta’ a guardare!
Più ratto d’una freccia
scoccata dal tremendo arco d’un Tartaro.


(Esce)

OBERON -
(Si avvicina a Demetrio addormentato e gli spreme
il succo del fiore sulle ciglia)
“Fior di porpora vestito,
“dalla freccia di Cupido,
“scendi, affonda le tue stille
“di quest’uomo alle pupille
“sì che amor per quella il tocchi
“sulla quale aprirà gli occhi,
“e la veda ancor più bella
“che di Venere la stella.
“Sì, al destarti l’hai vicina:
“chiedi a lei la medicina”.


Riappare PUCK

PUCK -
Capitano di nostra aerea armata,
Elena è qui da presso, l’ho trovata.
Con lei è il giovane da me stregato,
che, di lei follemente innamorato,
le richiede d’amore un attestato.
Gustiamoci ora i loro battibecchi.
Questi mortali, signore, che sciocchi!

OBERON -
Scostiamoci, però, ché il lor parlare
potrebbe anche Demetrio risvegliare.

PUCK -
In due per una femmina languire:
basta questo per farmi divertire!
Per me le cose ch’hanno più sapore
sono quelle che nascon dall’errore.


(Oberon e Puck si ritirano in disparte)


Entrano ELENA e LISANDRO

LISANDRO -
Perché, se giuro, Elena, di amarti
dovresti credere che è sol per burla?
Mai burla e scherno si sciolsero in lacrime;
e io piango a giurarti l’amor mio.
Giuramenti che nascono dal pianto
contengono nel loro stesso nascere
la prova della lor sincerità.
Come ti può apparir fatto per burla
il mio comportamento, se in se stesso
porta il segno della sincerità?

ELENA -
Tu spingi più e più oltre il tuo raggiro.
Oh, qual diabolico-santo conflitto,
quando una verità ne uccide un’altra!
Questi tuoi giuramenti son per Ermia:
vuoi finirla con lei?
Pesali insieme, voto contro voto,
e troverai che il loro peso è zero.([58])
I voti a lei giurati e a me giurati
posti su due bilance,
daranno un peso pari, l’uno e l’altro
leggeri e vuoti come son le chiacchiere…

LISANDRO -
Quando giurai a lei d’esser fedele
non ero in grado ancor di giudicare.

ELENA -
Né lo sei ora che rinunci a lei,
secondo me.

LISANDRO -
Demetrio l’amerà;
perché lui ama lei, non ama te.

DEMETRIO -
(Svegliandosi e vedendosi Elena davanti)
O Elena, dea, ninfa,
perfezione divina! A che, amor mio,
potrò mai somigliare gli occhi tuoi?
Il cristallo, al confronto è solo fango!
Oh, come mi si mostran tentatrici
le tue labbra, ciliege da baciare!([59])
Il gelido biancor dell’alte nevi
sul Tauro ventilato del libeccio
diventa color nero-corvo
se tu fai tanto da alzar la tua mano!
Oh, lascia ch’io lo ricopra di baci
questo sovrano tuo puro candore,
questo sigillo di felicità!

ELENA -
O rabbia! O inferno! Tutti consociati,
vedo, per divertirvi alle mie spalle!
Se foste appena appena costumati
e dotati d’un po’ di cortesia
non mi potreste offendere così!
Ma non potete seguitare a odiarmi,
come sono sicura che m’odiate,
senza che vi alleiate in questo modo
per schernirmi? Se foste veri uomini,
come sembrate essere all’aspetto,
non vi comportereste in questo modo
con una gentildonna come me:
dire entrambi, e giurare, che m’amate,
far lodi sperticate di mie grazie,
quando son certa che mi detestate?
Siete rivali nell’amare Ermia,
e lo volete essere egualmente
ora nel prendervi gioco di Elena?
Un gran bel gesto, una virile impresa
evocar con la vostra derisione
le lacrime a una povera ragazza!
Nessuno, che appartenga al vostro rango,
offenderebbe così una fanciulla,
e metterebbe a così dura prova,
sol per gioco, la sua sopportazione!

LISANDRO -
Sei crudele, Demetrio. Non lo fare.
Tu ami Ermia, e sai che io lo so.
Ebbene, vedi, io con tutto il cuore,
ti cedo la mia parte del suo amore,
e tu a me lascia l’amore di Elena,
ch’io amo ed amerò fino alla morte.

ELENA -
Mai si sprecò più fiato
da chi volle burlarsi di qualcuno.

DEMETRIO -
Tienti pure, Lisandro, la tua Ermia,
io non la voglio più. Se già l’ho amata,
quell’amore è del tutto dileguato.
Il mio cuore mio con lei ha soggiornato
come un ospite, solo di passaggio,
ed ora torna ad Elena,
come alla propria casa, per restarci.

LISANDRO -
Elena, non gli credere.

DEMETRIO -
Lisandro, non offender quella fede
che non conosci, se non vuoi rischiare
di pagarlo assai caro…


Entra ERMIA, affannata

ERMIA -
Il buio della notte, che impedisce
all’occhio di vedere, dà all’orecchio
la percezione più viva e sottile;
diminuendo il senso della vista,
raddoppia in cambio quello dell’udito.
Non è stato il mio occhio a ritrovarti,
Lisandro, ma l’orecchio, e lo ringrazio,
m’ha portato ad udire la tua voce.
Perché, scortese, sei andato via
così da me, e m’hai lasciato sola?

LISANDRO -
Perché sarebbe dovuto restare
chi dall’amore è sospinto ad andare?

ERMIA -
Quale amore potrebbe mai sospingere
Lisandro a distaccarsi dal mio fianco?

LISANDRO -
L’amore di Lisandro,
quello appunto, che non gli permetteva
d’indugiare con te: Elena bella,
colei che fa la notte più splendente
che non possano far tutte le stelle,
quell’orbite di fuoco, occhi di luce,
che tu vedi lassù. Perché mi cerchi?
Possibile che questo non ti dica
ch’è il disgusto di te, di starti accanto,
a far ch’io t’abbia così abbandonata?

ERMIA -
Tu dici cosa che non puoi pensare.
Non può esser così!

ELENA -
Ecco, anche lei è alleata con loro!([60])
Ora capisco: si sono accordati
tutti e tre per tramare alle mie spalle
questa ipocrita burla. Ermia insolente!
Ingrata amica, con loro anche tu,
a cospirar per ridere di me
con questa sciocca quanto atroce beffa?
Tutti i segreti che ci siamo detti,
i nostri giuramenti di sorelle,
le ore che passate abbiamo insieme,
rimproverando il tempo dispettoso
che trascorrendo troppo frettoloso
voleva separarci… tutto questo,
oh, l’hai davvero tu dimenticato?
E l’amicizia dei giorni di scuola,
e la nostra innocente fanciullezza?
Noi, Ermia, come due divini artefici,
abbiam creato insieme, coi nostri aghi,
un sol fiore, d’un unico modello,
sedute sopra un unico cuscino,
cantando insieme la stessa canzone
all’unisono, sulla stessa chiave,
come se avessimo in un sol essere
confusi e mani e fianchi e voci e menti.
Così siamo cresciute, tu ed io,
simili a due ciliege, nate in coppia,
che sembrano divise sui due gambi,
ma nella divisione sono unite;
due belle coccole su un solo stelo
spuntate, con due corpi all’apparenza,
due delle prime, come nell’araldica
due stemmi appartenenti a due famiglie
ma sovrastati da una sola cresta.
E vuoi spezzare questo antico affetto
tu, ora, per unirti, donna a uomini,
nell’irrider la tua povera amica?
Non è da amica, né da donna, questo.
L’intero nostro sesso, insieme a me,
potrebbe rinfacciarti quest’offesa,
quand’anche sia io sola ora a soffrirne.

ERMIA -
Son davvero stupita
di queste tue parole appassionate…
Non son io, a burlarmi di te,
sei tu, mi pare, a burlarti di me.

ELENA -
Non hai tu forse istigato Lisandro,
ad inseguirmi, come per ischerno,
e a fare dei miei occhi e del mio volto
false ipocrite lodi; non hai tu
indotto l’altro tuo innamorato,
Demetrio, il quale ancora poco fa
mi respingeva a calci,
ad invocarmi coi nomi di dea,
ninfa, divina, rara, celestiale?
Perché dovrebbe parlare così
a chi detesta? E perché mai Lisandro
dovrebbe rinnegare quell’amore
che sì ricco per te gli ferve in cuore,
se non da te istigato, te d’accordo?
Che fa s’io non possiedo le tue grazie,
s’io non son così amata e fortunata,
e tanto più di te infelice e misera
per amare senz’esser riamata?
Mi dovresti compiangere per questo,
piuttosto che coprirmi di disprezzo!

ERMIA -
Non capisco perché parli così.

ELENA -
E dài, seguita ancora!
Atteggia pure il viso alla tristezza,
e fa’ boccacce appena volto il dorso;
fatevi l’occhiolino l’un con l’altro,
proseguite questo gioioso scherzo;
questo gioco, portato bene avanti,
sarà da raccontare bene in giro.
Se aveste un briciolo di compassione,
di cortesia e buona educazione,
non fareste di me tanto ludibrio.
Ma addio. La colpa è anche un poco mia
e saprò porvi subito rimedio,
col togliermi di mezzo, o con la morte.

LISANDRO -
No, Elena gentile, non andartene!
Senti le mie ragioni, amore mio,
mia vita, anima mia, Elena bella!

ELENA -
Oh, ma bene, benissimo!

ERMIA -
(A Lisandro)
Caro, non devi schernirla così.

DEMETRIO -
(A Lisandro)
E se non basta lei a persuaderti,
so io come costringerti a desistere!

LISANDRO -
Tu non saprai costringermi, Demetrio,
più di quanto ella sappia supplicarmi!
Con me le tue minacce han meno forza
delle sue deboli supplicazioni.
Io, t’amo, Elena, sulla mia vita!
E ti giuro su questa stessa vita
ch’io sono pronto a perdere per te,
che proverò mendace per la gola
chiunque venga a dirti ch’io non t’amo.

DEMETRIO -
Io affermo che t’amo
più di quanto non sappia amarti lui.

LISANDRO -
Se lo affermi a parole,
allontaniamoci e provalo col ferro!

DEMETRIO -
Subito, andiamo, vieni.

ERMIA -
(Trattenendolo)
Lisandro, a quale scopo tutto questo?

LISANDRO -
(Allontanandola)
Va’ via, etiope!([61])

ERMIA -
(Sempre trattenendolo)
No, che lui, sta’ attento…([62])

DEMETRIO -
Tu fai finta di rompere il guinzaglio…
e volermi seguire, ma non vieni.
Sei un uomo addomesticato, va’!

LISANDRO -
(Divincolandosi da Ermia)
Tòglimiti di dosso, gatta, zeccola!
Lasciami andare, vilissimo insetto!

ERMIA -
Perché sei diventato sì volgare?
Che mutamento è questo, amor mio?

LISANDRO -
Amore mio?… Via, tartara di bronzo!([63])
Vattene, nauseabonda medicina!
Detestata pozione, via di qui!

ERMIA -
Non stai scherzando?

ELENA -
Sì, che scherza! Scherza!
E tu sèguiti a farlo, insieme a lui!

LISANDRO -
Con te, Demetrio, terrò la parola.

DEMETRIO -
Magari fossi sicuro di averla!
Ma m’accorgo che basta a trattenerti
un esil laccio. Sulla tua parola
non c’è da fare alcun affidamento.

LISANDRO -
E che vorresti, che la malmenassi,
che la battessi a morte, l’uccidessi?
M’è in odio, sì, ma farle male, no.

ERMIA -
E qual male peggiore mi puoi fare
che avermi in odio?… Odiarmi… Ma perché?
Povera me! Che ti succede amore?
Non son io Ermia? E non sei tu Lisandro?
Bella son ora quanto l’ero prima.
Fino a stanotte m’hai voluto bene,
e tuttavia stanotte m’hai lasciata…
Allora tu mi vuoi abbandonare…
Oh, che Dio non lo voglia!… Fai sul serio?

LISANDRO -
Sulla mia vita, sì,
Ermia, e non ti voglio più vedere!
Perciò togliti pure dalla mente
ogni speranza, non chiedermi più,
abbandona ogni dubbio: sta’ pur certa
che non c’è nulla di più vero al mondo,
nulla di più lontano da uno scherzo
se ti dico che t’odio e che amo Elena.

ERMIA -
Misera me!


(A Elena)
Perfida ingannatrice!
Bruco che rode i boccioli di rose!
Ladra d’amore! Come!
Sei venuta di notte a trafugare
il cuore del mio amore dal suo seno?

ELENA -
Oh, quest’è proprio bella!
Hai perduto davvero ogni ritegno,
ogni pudore, ogni ombra di rossore!
Vuoi per forza strappar dalla mia lingua,
finora dimostratasi gentile,
risposte d’ira? Vergogna, vergogna,
simulatrice ignobile, pupattola!

ERMIA -
“Pupattola”… Perché?…
Ah, ecco allora com’è andato il gioco!
Ora ho capito: lei lo ha persuaso
a confrontar le nostre due stature,
s’è fatta bella con la propria altezza
e la propria persona, sì, sì, certo,
la sua statura, l’alta sua persona,
ed è riuscita ad attirarlo a sé…
E sei potuta crescer tanto in alto
nella sua stima, sol perché al confronto
io sono così nana e così bassa?
Quanto son bassa, di’, quanto son bassa,
eh!, dillo, pertica riverniciata!
Certamente non tanto che quest’unghie
non possano arrivare così in alto
da raggiungere e sgraffignarti gli occhi!

ELENA -
(A Demetrio e Lisandro)
Signori, ve ne prego,
burlatevi di me quanto vi pare,
ma trattenetela dal farmi male.
Io non son buona a dir male parole,
non son capace di far sgarberie,
e per spirito imbelle, sono donna.
Impeditele che mi venga addosso:
non pensate ch’io possa starle a fronte
perché è più bassa.

ERMIA -
“Più bassa”: sentite?
E lo ripete, ancora!

ELENA -
Mia buona Ermia,
non essere così aspra con me.
Io t’ho sempre voluto bene, Ermia,
ho sempre custodito i tuoi segreti,
non t’ho mai fatto torto,
salvo che, per amore di Demetrio,
gli ho detto della tua segreta fuga
in questo bosco. Lui t’ha qui seguita,
ed io, per amor suo, ho seguito lui.
Ma egli m’ha scacciata via da sé,
minacciando di battermi, frustarmi,
di uccidermi perfino, sì, di uccidermi!
E adesso, se mi lascerete in pace,
me ne torno ad Atene,
portandomi con me la mia follia
e non vi seguo più. Fatemi andare.
Vedete come son franca e sincera,
e come sono, ahimè, innamorata.

ERMIA -
Vattene pure, chi te lo impedisce?

ELENA -
Uno stupido cuore innamorato,
ch’io lascio dietro, qui.

ERMIA -
Che! Con Lisandro?

ELENA -
Con Demetrio.

LISANDRO -
Ma non aver paura,
Elena, lei non ti farà alcun male.

DEMETRIO -
No, signor mio, non le farà alcun male,
malgrado ci sia tu dalla sua parte.

ELENA -
Oh, la conosco, lei quand’è infuriata,
è pungente e cattiva. Era un’arpia,
da piccola, quando andavamo a scuola.
Pur piccolina com’è, è feroce.

ERMIA -
“Piccolina”, di nuovo?…
Non sai dir altro che “piccola” e “bassa”?


(A Demetrio e Lisandro)
E voi, come potete tollerare
che m’insulti così?… Ci penso io!


(Si slancia contro Elena)

LISANDRO -
(Trattenendola)
Va’, va’, nanetta, cosuccia da niente,
fatta d’infuso d’erba sanguinella,([64])
grano di cece, coccola di ghianda!

DEMETRIO -
Ti scaldi troppo in favore di Elena,
che sdegna invece queste tue premure.
Lasciala stare. Non parlar nemmeno
di lei, non prendere le sue difese;
ché se mai ti passasse per la testa
di mostrarle anche un briciolo d’amore,
l’avrai da far con me.

LISANDRO -
Adesso lei non mi trattiene più:
seguimi, allora, andiamo, se hai coraggio
di provare chi vanta più diritti,
se tu od io, su Elena.

DEMETRIO -
Seguirti?
No, guancia contro guancia, insieme a te.


(Escono Lisandro e Demetrio)

ERMIA -
Tutto per causa tua questo trambusto!
Non andartene, adesso.

ELENA -
Non mi fido.
Di te non posso avere più fiducia,
né intendo trattenermi un solo istante
con la vostra dannata compagnia.
Le tue mani saranno, sì, più leste
a menar colpi, però le mie gambe
son più lunghe per farmi fuggir via.


(Esce)

ERMIA -
Sono stordita e non so più che dire.


(Esce)

OBERON -
(Ricomparendo, a Puck)
Questo è il frutto della tua sventatezza.
Ti sbagli sempre, o lo farai apposta
a combinar queste tue birbonate.

PUCK -
No, re dell’ombre, non l’ho fatto apposta;
devo aver preso un uomo per un altro.([65])
Tu non m’avevi detto
che avrei dovuto riconoscer l’uomo
dalla foggia ateniese del vestito?
Ebbene questo ho fatto:
ho spalmato del succo di quel fiore
gli occhi d’un ateniese; e fino qui
l’impresa mia si dimostra innocente.
Del resto fino ad ora son contento
che sia andata così, perché per me
questa lor lite è stata un vero spasso.

OBERON -
Già, ma vedi che questi due amanti
ora cercano un luogo dove battersi.
Perciò affrettati, Robin,
a far calare il buio della notte;
copri il cielo stellato
con una fitta coltre di caligine
oscura e tetra come l’Acheronte,
sì da condurre per diverse vie
questi irosi rivali,
che non s’abbiano più a trovar di fronte.
Mettiti a contraffare, con la tua,
a vicenda la voce di Lisandro,
eccitando la stizza di Demetrio
col rivolgergli qualche acerbo oltraggio;
e poi, a volta, quella di Demetrio,
con altrettali ingiurie verso l’altro,
e bada che si tengano lontani
finché non cali sulle loro palpebre
coi suoi piedi di piombo
e con l’ali di pipistrello un sonno
così profondo da sembrare morte.
Quindi spremi sugli occhi di Lisandro
quest’erba che ha il benefico potere
di scioglierli da ogni incantamento,
rendendo loro la vista di sempre;
sì che costoro al prossimo risveglio
crederanno che tutta questa beffa
sia stata un sogno, una vana illusione;
e se ne torneranno i quattro amanti
ad Atene, riuniti gli uni agli altri,
in lunga e santa fedeltà d’amore.
Mentre tu sbrigherai questa faccenda,
io per mio conto andrò dalla regina
a farmi dare quel ragazzo indiano;
e allora toglierò dagli occhi suoi
l’incanto della vista di quel mostro,
e tutto tornerà com’era prima.

PUCK -
Mio fatato signore, tutto questo
dev’esser compiuto ben in fretta,
perché i veloci draghi della notte
già squarciano le nuvole,
e laggiù splende l’araldo del giorno
al cui levar gli spiriti vaganti
tornano in massa ai loro cimiteri,
e quelli morti in disgrazia di Dio
ch’ebbero sepoltura nei quadrivi
o giù nel fondo dei marini abissi
son già tornati ai lor letti di vermi,
perché temendo che il chiaror del giorno
abbia a svelare le loro vergogne,
bramosamente fuggono la luce
costretti ad essere consorti eterni
della Notte dal tenebroso ciglio.

OBERON -
Noi siamo spiriti d’altra natura
ed anzi io spesso mi son deliziato
a vagheggiare l’amore d’Aurora;([66])
e posso andar di notte per i boschi,
liberamente, come un guardacaccia
fino a quando le porte dell’Oriente
rosse di fuoco, aprendosi a Nettuno,
non trasformino in oro sfolgorante
col divino splendor dei loro raggi
la distesa del suo salmastro azzurro.
Ma su, alla svelta! Non perdiamo tempo!
Possiamo compiere l’operazione
prima che spunti la luce del giorno.

PUCK -
“Li menerò di qua,
“li menerò di là,
“per campagna e città,
“dove Robin vorrà.
“Eccone uno già”.


Rientra LISANDRO

LISANDRO -
Demetrio spaccamonti, dove sei?
Parla, fatti sentire?

PUCK -
(Imitando la voce di Demetrio)
Son qua, vigliacco, con la spada in pugno,
e pronto a battermi. Ma dove sei?

LISANDRO -
Eccomi. Sono subito da te!

PUCK -
(c.s.)
Seguimi, allora, su terreno aperto.


(Lisandro esce, come a seguir la voce di Demetrio)


Rientra DEMETRIO

DEMETRIO -
Non parli più, Lisandro?… Dove sei?
Te la sei data a gambe, eh, vigliacco!
Parla! Ti sei nascosto in qualche siepe?
Dove hai ficcato il capo?

PUCK -
(Imitando la voce di Lisandro)
Tu, vigliacco,
che fai il rodomonte con le stelle
cercando di far credere ai cespugli
che vai cercando chi sa quali guerre,
e non ti fai avanti. Su, vigliacco,
vieni avanti, bamboccio!
Te le voglio suonar con la bacchetta,
ché ad usare la spada
con uno come te, mi disonoro.

DEMETRIO -
Ah, sei là?

PUCK -
(c.s.)
Vieni dietro alla mia voce.
Non è qui che potremo misurarci.([67])


(Escono Demetrio e Puck)


Rientra LISANDRO

LISANDRO -
Mi scappa avanti, e séguita a sfidarmi;
e, come arrivo là dove ha chiamato,
non ci si fa trovare più, furfante!
Ha i calcagni più celeri dei miei;
per quanto io sia veloce nel rincorrerlo,
lui fa sempre più presto a scomparire,
e adesso mi ritrovo qui nel buio,
in questo impervio e tortuoso sentiero…
Mi riposerò qui.


(Si sdraia per terra)


Giorno gentile, fa’ presto a venire,
ché appena il tuo barlume apparirà,
io scoverò Demetrio, avrò vendetta
di questo suo irritante dispetto.


(S’addormenta)


Rientra DEMETRIO, riappare PUCK

PUCK -
(Dal fondo, imitando la voce di Lisandro)
Beh, vigliacco, perché non vieni avanti?

DEMETRIO -
Fèrmati, finalmente, se hai coraggio!
Ché ben m’accorgo che mi corri innanzi
sgattaiolando d’uno ad altro luogo,
senza avere il coraggio di fermarti
e di guardarmi in faccia. Dove sei?

PUCK -
(c.s.)
Eccomi, vieni qua, da questa parte.

DEMETRIO -
No, ti burli di me…
Ma se riesco a veder la tua faccia
alla luce del giorno, me la paghi!
Adesso vattene per la tua strada,
la stanchezza mi forza a misurare
con tutta la lunghezza del mio corpo
questo freddo giaciglio.
Ma aspèttati domani, appena giorno,
ch’io ti rintraccerò, sta’ pur sicuro!


(Si stende a terra e s’addormenta)


Rientra ELENA

ELENA -
Oh, notte stracca, accorcia le tue ore,
notte tediosa, lunga, interminabile!
Conforto della luce, torna a splendere
all’orizzonte dell’azzurro Oriente,
ch’io possa volger verso Atene i passi,
via da chi odia la mia compagnia!
Ma ora venga il sonno, che all’angoscia
chiude talvolta gli occhi, a rubar me
anche alla compagnia di me medesima.


(Si stende a terra e s’addormenta)

PUCK -
“Solo tre? La quarta appaia,
“che sian quattro a far due paia.
“Ecco, infatti, ch’essa arriva:
“non mi par molto giuliva.
“La freccia di Cupido è dispettosa,
“rende pazza la donna più ritrosa”.


Rientra ERMIA

ERMIA -
Mai tanto stanca, mai tanto angosciata,
fradicia fino al capo di rugiada,
da rovi e spine tutta lacerata.
Non reggo più, mi sento uno sconquasso,
più non reggono le mie gambe il passo
con la mia volontà. Rimango qui,
a riposare fino al far del dì.


(Si distende a terra)


Dio protegga Lisandro da ogni danno,
se domani quei due si batteranno.


(S’addormenta)

PUCK -
(S’avvicina a Lisandro e gli spreme sulle palpebre il succo d’amore)
“Mentre al tuo sonno è culla
“or questa terra brulla,
“io te ne palmo gli occhi,
“perché amor ne trabocchi.
“E quando li aprirai
“gran gioia proverai
“a mirare il sembiante
“della tua vecchia amante.
“E s’avveri così l’antico detto
“noto alla nostra gente di campagna:
“A ognun la sua compagna,
“Gisetta al suo Gisetto.
“Al maschio la sua femmina si dia,
“e vivan tutti in pace e in allegria”.


(Sparisce)


Atto quarto




SCENA I - Nel bosco




LISANDRO, DEMETRIO, ELENA ed ERMIA giacciono addormentati


Entrano TITANIA e BOTTONE-testa-d’asino seguiti da FIORDIPISELLO, RAGNATELA, BRUSCOLO, GRANDISENAPE e altri elfi e fate; dietro di loro, non visto, OBERON

TITANIA -
(A Bottone)
“Vieni su questo letto
“a riposar tra i fiori,
“ch’io possa senza posa
“carezzar questa tua guancia pelosa,
“il tuo capo di petali di rosa
“adornare, e sommergere di baci
“codesti orecchi tuoi così procaci”.

BOTTONE -
Dov’è Fiordipisello?

FIORDIPISELLO -
Sono qua.

BOTTONE -
Fiordipisello, grattami la testa.
E monsù Ragnatela?

RAGNATELA -
Son qua anch’io.

BOTTONE -
Ah, monsù Ragnatela, buon monsù,
ti prego, prendi in mano la tua arma
corri da quel pecchione cosce-rosse
che sta ronzando su quel carro, ammazzalo,
e portami la borsa del suo miele.
Ma, monsù, non ti scalmanare troppo,
e bada specialmente, buon monsù,
che la borsa del miele non si rompa:
mi farebbe un po’ senso in verità
vederti naufragare in mezzo al miele.
E monsù Grandisenape dov’è?

GRANDISENAPE -
Son qua.


(S’inchina più volte)

BOTTONE -
Dammi la mano, buon monsù,
e lascia stare tutti questi inchini.

GRANDISENAPE -
In che posso servirti?

BOTTONE -
Niente, niente,
solo dare una mano, buon monsù,
al nostro cavaliere Ragnatela
nell’aiutarlo a grattarmi la faccia.
Mi toccherà passare dal barbiere
perché mi sembra d’esser tutto pieno
d’una peluria fuor dall’ordinario;
io sono un ciuco tanto delicato,
e basta che mi pruda un solo pelo
che non posso tenermi dal grattarmi.

TITANIA -
Gradisci un po’ di musica, amor mio?

BOTTONE -
Ho un orecchio discreto, per la musica.
Sentiamo un po’ di tamburelli e nacchere.

TITANIA -
O vuoi dirmi, amor mio,
che cosa avresti voglia di mangiare?

BOTTONE -
A dir la verità, ho una gran voglia
d’una bella manciata di foraggio,
ed anche un po’ di buona avena fresca;
ma, pensandoci bene,
mi pare di desiderar di più
un nannello di fieno: il fieno buono,
non c’è niente che eguagli il dolce fieno.

TITANIA -
Ho un ardito folletto tra il mio seguito
che andrà a cercarti le nocciòle fresche
saccheggiandone il nido allo scoiattolo.

BOTTONE -
Un paio di manciate di lupini,
ben stagionati, andrebbero anche meglio.
Ma ti prego, di tutta la tua gente
fa’ che nessuno venga a disturbarmi:
sento una certa esposizione([68]) al sonno.

TITANIA -
Dormi pure tranquillo, amore mio,
ch’io ti terrò tra le mie braccia avvolto.
Voi, Fate, allontanatevi
e rimanete quanto più distante.


(Le Fate escono)


(Bottone si stende a terra, tra le braccia di Titania)


Così s’avvince tenero il convolvolo
al caprifoglio in un gentile amplesso,
così inanella l’edera dell’olmo
le sugherose dita… Oh, quanto t’amo!
O, quanto son di te innamorata!


(Si addormentano)


Entra PUCK

OBERON -
(Venendo avanti)
Salute, Robin. Vedi che spettacolo?
Delizioso! Comincio quasi quasi
ad avere pietà del suo delirio.
L’ho incontrata nel bosco, poco fa,
che andava in cerca d’amorosi pegni([69])
da offrire a questo orribile zuccone.
L’ho sgridata, e ci siamo bisticciati;
aveva incoronato proprio allora
quelle pelose sue tempie asinine
d’un serto d’olezzanti fiori freschi;
e stille di rugiada mattutina
quali si vedon tremule sui bocci
come lucenti perline d’oriente,
se ne stavano a luccicar negli occhi
di tutti quei graziosi fiorellini
simili a tante lacrime di pianto
per la vergogna di trovarsi là.
Dopo averla coperta di ridicolo
come meglio m’è parso, mentre lei
mi supplicava, con teneri accenti,
ch’io le mostrassi un po’ di comprensione,([70])
l’ho richiesta di darmi quel fanciullo;
ed ella me l’ha subito concesso,
ed ha spedito uno dei suoi elfi
a prenderlo e scortarlo alla mia pergola,
la mia dimora nel regno incantato.
Ed ora che ho il ragazzo,
posso rimuovere dagli occhi suoi
questa esecrabile imperfezione.
E tu, da bravo, Puck,
dal capo di quel becero ateniese
togli via quello scalpo da somaro,
così che, al suo risveglio,
se ne possa tornare insieme agli altri
ad Atene, e pensare a questa notte
e ai casi che vi sono succeduti
solo come ad un incubo notturno.
Ma prima voglio smagar la regina.


(Si avvicina a Titania che dorme, le sfiora
gli occhi con l’erba del disincanto)


“Torna ad essere com’eri
“e a veder come ieri.
“Sul fiore di Cupido il fior di Diana
“prevalga con la sua grazia sovrana”.


Ed ora dèstati, Titania mia,
mia soave regina.

TITANIA -
(Svegliandosi)
Oh, Oberon!…
Oberon mio, che strano sogno ho fatto!
Mi pareva - che strano, sta’ a sentire -
d’essermi innamorata d’un somaro.

OBERON -
Eccolo là, il tuo amore, addormentato.


(Indica Bottone che dorme)

TITANIA -
Come posson succeder certe cose?
Ah, che schifo non ha ora quel muso
per gli occhi miei!

OBERON -
Silenzio, un solo istante.
Robin, tu spoglialo di quella testa;
e tu, Titania, chiama la tua musica;
e, più forte del lor profondo sonno,
colpisci i sensi di codesti cinque.

TITANIA -
Olà, musica, musica!
E tale da incantare il loro sonno!


(Musica sommessa)

PUCK -
(A Bottone che dorme)
E adesso, quando ti sarai svegliato,
torna a guardare il mondo intorno a te
coi tuoi occhi da scemo.

OBERON -
Suona, musica!


(La musica diventa più forte)


Su, mia regina, prendimi per mano
e facciamo ondeggiar sotto costoro
a scuoterli, la terra su cui dormono.


(I due intrecciano un passo di danza)


Ora che siamo ritornati amici,
a mezzanotte di domani, insieme,
solennemente danzerem felici
nella dimora del Duca Teseo
e trionfanti lo benediremo
col nostro augurio di prosperità.
E la duplice coppia degli amanti
le sue nozze con lui celebrerà,
tutti insieme felici ed esultanti.

PUCK -
“Tendi l’orecchio, re degli elfi, attento:
“io già l’allodola dell’alba sento.

OBERON -
“Allora, mia regina, a noi partire
“conviene, silenziosi, ad inseguire
“sul suo cammino l’ombra della notte,
“dirigendo con lei la nostra rotta
“tutt’intorno del mondo alla calotta,
“e senza cura aver di tregua alcuna
“volar più lesti dell’errante luna”.

TITANIA -
Sì, mio signore, e allor tu mi dirai
durante questa nostra cavalcata,
com’io quaggiù stanotte mi trovai
tra codesti mortali addormentata.


(Scompaiono)


(Suono di corni all’interno)


Entrano TESEO, IPPOLITA, EGEO e seguito

TESEO -
(A quelli del seguito)
Uno di voi mi cerchi il guardacaccia.
Ora che il nostro rito s’è compiuto,([71])
e poiché siamo al sorgere del giorno
voglio che l’amor mio possa ascoltare

l’armonico abbaiare dei miei cani.
Sguinzagliateli a valle, da ponente,
e lasciateli liberi di andare;
e mandatemi, ho detto, il guardacaccia.


(Esce uno del seguito)


Noi, nel frattempo, mia bella regina,
ci porteremo in cima a quell’altura
a udir la musicale confusione
delle lor voci e l’eco nella valle.

IPPOLITA -
Una volta mi son trovata a Creta
in compagnia di Ercole e di Caco
alla caccia dell’orso
con una muta di cani di Sparta:
mai non ho udito più fiero latrare;
ché oltre ai boschi, i colli e le fontane,
le valli e tutte l’altre prode intorno
d’un sol grido parevan risuonare.
Mai non ho udito più discorde accordo,
mai di tuono più bel rimbombo sordo.

TESEO -
E di razza spartana
son anche questi miei; di quella razza
han le froge cadenti e il pelo biondo,
e lunghe orecchie pendule
che spazzan la rugiada mattutina,
e zampe arcuate, e grandi pappagorge
come quelle dei tori di Tessaglia;
sono un po’ lenti nell’inseguimento
ma uniti ed intonati nel latrare,
come campane tra loro accordate.
Grido più armonizzato mai s’è udito
rispondere puntuale a suon di corno
da caccia a Creta, a Sparta od in Tessaglia.
Giudicherai tu stessa nel sentirli…
Ma, un momento: che ninfe sono queste?

EGEO -
Questa è Ermia, mia figlia, mio signore,
addormentata… e quest’altro è Lisandro,
e quest’altro è Demetrio, e questa è Elena,
la figliola del vecchio Ferdinando.
Ma come mai son qui, tutti riuniti?

TESEO -
Si saranno levati molto presto
per celebrare la festa di maggio,
e, conoscendo le nostre intenzioni,
ci avran voluto precedere qui
per le nostre solenni cerimonie…
Ma dimmi, Egeo, non era questo il giorno
che Ermia ci doveva far conoscere
la sua scelta?

EGEO -
Sì, oggi, mio signore.

TESEO -
(A quelli del seguito)
Andate ed ordinate ai cacciatori
di svegliare costoro a suon di corni.


(Esce uno del seguito)


(Corni da caccia a canizza di dentro)


LISANDRO, DEMETRIO, ELENA ed ERMIA si svegliano di soprassalto e si stropicciano gli occhi


Cari amici, buongiorno!…
San Valentino quest’anno è passato,
e com’è che comincian solo adesso
questi uccelli di bosco ad accoppiarsi?([72])

LISANDRO -
Perdono, mio signore!


(I quattro s’inginocchiano a Teseo)

TESEO -
Su, su, alzatevi!
So che eravate rivali in amore;
come può esser scesa sulla terra
tal concordia d’affetti, perché l’odio
sia sì lontano dalla gelosia
da far che l’odio dorma accanto all’odio,
senza tema d’alcuna inimicizia?

LISANDRO -
Signore, ti rispondo un po’ confuso,
essendo ancora mezzo addormentato;
ma ti posso giurare, in fede mia,
di non saper come mi trovo qui.
Credo, a voler parlar sinceramente,
e dev’esser così a ripensarci,
d’essere qui venuto insieme ad Ermia
con l’intenzione di fuggir da Atene
in luogo dove poterci sposare
senza incappar nelle leggi d’Atene…

EGEO -
Basta così!
(A Teseo)
Signore, avete inteso:
questo mi pare più che sufficiente
perch’io possa invocare sul suo capo
da te l’antico statuto di Atene.
Hai sentito, Demetrio?
L’hanno detto: volevano fuggire
e defraudare te della tua sposa,
e me del mio consenso alle tue nozze.

DEMETRIO -
Fu Elena a informarmi, mio signore,
della loro intenzione di fuggire
e d’incontrarsi qui, in questo bosco;
ed io qui sono accorso in tutta furia
per inseguirli, ed Elena, anche lei,
innamorata di me, mi seguì.
Senonché è successo, mio signore,
non so per quale strano incantamento,
- ché di certo qui uno ce n’è stato -,
che d’improvviso l’amor mio per Ermia
s’è liquefatto come neve al sole,
restandomene in mente un tal ricordo
come d’un innocente passatempo
con cui mi baloccassi da bambino;
ed ora invece tutta la mia fede,
la virtù del mio cuore,
l’oggetto e la delizia dei miei occhi
è Elena. A lei m’ero promesso
avanti di posar l’occhio su Ermia;
ma poi mi sopravvenne per tal cibo
la stessa repugnanza d’un malato.
Ed ora, come s’io fossi guarito,
e tornato al mio gusto naturale,
lei sola voglio, desidero, adoro,
e voglio sempre a lei restar fedele.

TESEO -
Leggiadri amanti, fu buona ventura
per me incontrarvi, e più vorrò saperne,
riparlandone insieme a miglior agio.
Egeo, mi dovrò mettere in contrasto
con la tua volontà; perché nel tempio
queste coppie dovranno, al nostro fianco,
stringere anch’esse un eterno legame.
E poi che ormai la nostra mattinata
è in gran parte trascorsa,
rinunciamo alla caccia, e senza indugio
via tutti insieme con noi per Atene:
tre coppie e un unico rito nuziale,
faremo festa insieme. Vieni, Ippolita.


(Escono Teseo, Ippolita, Egeo e seguito)

DEMETRIO -
Tutto m’appare pallido, indistinto,
appena percettibile alla mente,
come all’occhio montagne da lontano,
che non distingui se sian monti o nuvole.

ERMIA -
A me sembra vedere tutto questo
come se avessi lo strabismo agli occhi:
ogni occhio per suo conto, e tutto doppio.

ELENA -
Ed io lo stesso. Ho trovato Demetrio
come si trova per strada un gioiello,
che ti domandi se sia tuo o no.

DEMETRIO -
Ma siete proprio certi d’esser svegli?
O forse siamo ancora addormentati,
e quello che vediamo è tutto un sogno?
Non v’è parso che qui ci fosse il Duca
poc’anzi e ci ordinasse di seguirlo?

ERMIA -
Sì, era con mio padre.

ELENA -
E con Ippolita.

LISANDRO -
E ci ha ordinato di seguirlo al tempio.

DEMETRIO -
Allora non c’è dubbio, siamo svegli!
E seguiamolo, allora, e per la strada
raccontiamoci tutti i nostri sogni.


(Escono)

BOTTONE -
(Svegliandosi)
Quando viene la mia entrata in scena,
chiamatemi, e vi risponderò…
alle parole: “O bellissimo Piramo…”.
Ma oh!… Piero Cotogna!…
Oh, Flauto aggiustamantici!
Nasone calderaio… dove siete?
E tu, Lanca, ci sei?… Tutti scappati!
Lasciandomi qui solo, addormentato.
Ma che strana visione ho avuta in sogno.
Ho fatto un tale sogno
che non c’è barba di cervello umano
che possa raccontar che sogno era.
Un uomo, a raccontare un sogno simile,
non può essere altro che un somaro.
Era come s’io fossi diventato…
non c’è uomo che possa dir che cosa…
Mi pareva che fossi… mi pareva
che avessi… come faccio a dir che cosa?…
C’è da passar da grande balordaccio
a raccontar che cosa mi pareva.
Mai occhio umano ha udito,
né orecchio umano ha visto,
né mano mai tastato,
né lingua concepito,
né cuore raccontato
che diavolo di sogno è stato il mio.
Dirò a Piero Cotogna
ch’ha da scriverci sopra una ballata
e intitolarla: “Il sogno di Bottone”;
perché davvero è un sogno senza fondo.([73])
La canterò io stesso avanti al Duca,
dopo la nostra rappresentazione;
anzi, per darci ancor maggior risalto,
la canterò dopo che Tisbe è morta.


(Esce)




SCENA II - Atene, in casa di Piero Cotogna





Entrano COTOGNA, FLAUTO, CONFORTO
e IL LANCA

COTOGNA -
Qualcuno è stato a casa di Bottone
a veder se è tornato?

LANCA -
Non si sa.
Nessuno ne ha saputo più notizia.
Quello l’hanno stregato, garantito.

FLAUTO -
Se non ritorna, va in fumo la recita.
Non se ne fa più nulla. Dico bene?

COTOGNA -
Eh, sì, non ce n’è altri in tutta Atene
che sappia fare un Piramo così.

FLAUTO -
Ah, non v’è dubbio: è lui il più dotato
di tutta l’artigianeria d’Atene.

COTOGNA -
E anche il più presente come fisico;
e quanto a voce, è un vero zuccherino
per quanto è dolce.

FLAUTO -
Allora devi dire un gioiellino.
perché uno zuccherino,
che Dio ci benedica, è come niente.([74])

NASONE -
Compagni, il Duca esce ora dal tempio,
e si sono sposate anche, con lui,
altre due o tre coppie
di gentiluomini e di gentildonne.
Se potevamo recitare adesso,
avremmo fatto la nostra fortuna.

FLAUTO -
Quel caro bambolone di Bottone!
Così s’è perso una pensione a vita
di dieci soldi al giorno; perché il Duca,
che m’impiccassero, ma dieci soldi
glieli avrebbe assegnati certamente
dopo averlo sentito fare Piramo.
E sarebbero stati meritati:
per un Piramo come quello suo,
o dieci soldi al giorno, oppure niente.


Entra BOTTONE

BOTTONE -
Dove son queste perle di ragazzi?
Che fine han fatto questi cuori d’oro?

COTOGNA -
Bottone! Oh, quale fortunoso giorno!
Oh, quale ora felice!

BOTTONE -
Amici cari,
vi debbo raccontare meraviglie!
Però non domandatemi che cosa,
perché se ve lo dico, francamente,
non sono un ateniese di rispetto.
Ma sì, vi voglio raccontare tutto,
esattamente come m’è successo.

COTOGNA -
Parla, caro Bottone, ti ascoltiamo.

BOTTONE -
Sì, ma non ora parliamo di me.
Tutto quello che ora voglio dirvi
è che il Duca ha finito di cenare.
Radunate perciò le vostre robe:
lacci che tengano bene le barbe,
stringhe e fiocchetti nuovi agli scarpini,
e troviamoci subito a palazzo.
Si ripassi ciascuno la sua parte,
ché, a dirla tutta breve quanto è lunga,
il nostro dramma è stato preferito
per essere rappresentato subito.
In ogni caso, procurate a Tisbe
una camicia pulita; e il leone,
dico colui che n’ha da far la parte,
si guardi bene dal tagliarsi l’unghie,
perché dovrà mostrarle bene in vista
da figurar gli artigli della belva.
E soprattutto, attori, anime mie,
badate a non mangiar aglio o cipolla,
ché dobbiamo esalare tutti un alito
che deve riuscir dolce e gradevole;
e non dubito che li udremo dire
dolce e gradevole la nostra recita.
Ma basta con le ciance. Avanti, all’opera!


(Escono)


Atto quinto




SCENA I - Atene, il palazzo di Teseo




Entrano TESEO, IPPOLITA, FILOSTRATO
e seguito

IPPOLITA -
Teseo, mio caro, trovo molto strano
quello che ci raccontan questi amanti.

TESEO -
Più strano che reale, anche per me.
Io non saprò mai credere
a queste vecchie favole grottesche,
né a certe amenità di fantasia.
Gli innamorati sono come i pazzi:
hanno sempre il cervello in gran bollore,
ed una fantasia così feconda
da riuscire a concepir più cose
di quante la ragione loro, a freddo,
si mostra poi disposta ad accettare.
Pazzo, amante, poeta: tutti e tre
sono composti sol di fantasia.
Il primo vede sempre più demoni
di quanti ne contenga il vasto inferno;
l’innamorato, tutta frenesia,
sa ravvisar perfino in una etiope([75])
la venustà d’un’ Elena di Troia;
il poeta, volgendo gli occhi intorno,
come rapito in un dolce delirio,
può contemplare la terra del cielo
e il cielo della terra, e la sua penna,
così come l’estrosa sua inventiva
sa dare corpo a ciò che non conosce,
lo ferma, conferendo a un vuoto nulla
una concreta dimora ed un nome.
L’estroso immaginare ha tali trucchi
che se soltanto vagheggia una gioia,
se ne crea pure l’oggetto e l’origine.
E così se talvolta nella notte
sente d’aver paura, facilmente
può scambiare un cespuglio per un orso.

IPPOLITA -
Ma quello che è successo, a udir costoro,
la scorsa notte, e come le lor menti
siano state stravolte tutte insieme,
testimonia che in tutta la vicenda
ci dev’essere qualche cosa in più
che pure immagini di fantasia,
qualche cosa avviata a prender corpo
e, per quanto assai strano e prodigioso,
consistenza d’autentica realtà.

TESEO -
Eccoli, i nostri quattro innamorati,
traboccanti di gioia e d’allegria.


Entrano LISANDRO, DEMETRIO, ERMIA
ed ELENA


Felicità, gentili amici, a tutti!
Gioia e giorni d’amore sempre freschi
accompagnino sempre i vostri cuori.

LISANDRO -
Più che sui nostri, possan tali giorni
vegliare sopra i vostri augusti passi,
sopra la vostra mensa e il vostro talamo.

TESEO -
Suvvia, dunque, con quali mascherate
e quali danze vogliam consumare
il lungo intercalare di tre ore
tra il levar delle mense questa sera
e il momento di guadagnare il letto?
Dov’è il nostro maestro delle feste?
Quali trattenimenti ha predisposto?
Non ci sarebbe una qualche commedia
ad allietarci il tedio dell’attesa?
Chiamatemi Filostrato.

FILOSTRATO -
Son qui presente, possente Teseo.

TESEO -
Dimmi che passatempi tieni in serbo
per questa sera? Spettacoli? Musiche?
Come ingannare questo pigro tempo,
se non con qualche lieto diversivo?

FILOSTRATO -
Ecco un breve sommario
dei vari passatempi preparati.


(Gli porge un foglio)

TESEO -
(Legge)
“La cruenta battaglia coi Centauri
“cantata sulla cetra
“da un eunuco d’Atene”.
Questa no.
L’ho raccontata io stesso all’amor mio
nel raccontarle le gloriose gesta
d’Ercole, mio parente.([76])


(Legge)
“L’orgia delle Baccanti
“che nella loro furibonda ebbrezza
“straccian le carni del cantore tracio”.


Roba vecchia, L’ho vista recitare
quando tornai vittorioso da Tebe.


(Legge)
“Le nove Muse in lutto per la morte
“della Cultura per denutrizione”.


Questa dev’essere una qualche satira,
di contenuto critico e pungente,
che non s’addice a una festa nuziale.


(Legge)
“La lunga e breve istoria
“dell’amore del giovinetto Piramo
“per Tisbe: tragicissima allegria”.


Lunga e breve! Tragedia ed allegria!
Come dir ghiaccio caldo e neve ardente.
Come accordare un tale disaccordo?

FILOSTRATO -
Si tratta, mio signore, d’un lavoro
d’una diecina di parole in tutto,
ch’è il lavoro più corto ch’io conosca;
ma di dieci parole, mio signore,
è troppo lungo, il che lo fa noioso;
anche perché, non c’è per tutto il dramma
una sola parola al posto giusto
né un attore tagliato alla sua parte.
E tragico, mio nobile signore,
lo è, per via che Piramo, alla fine,
si uccide da se stesso; la qual cosa,
quando ho visto la prova generale,
lo confesso, m’ha fatto lagrimare;
ma eran lacrime che di più allegre
mai ne avevo versate dal gran ridere.

TESEO -
E chi sono, Filostrato, gli attori?

FILOSTRATO -
Mani callose, artigiani di Atene,
che mai hanno applicato prima d’ora
ad un qualche esercizio i lor cervelli,
e che oggi hanno messo a dura prova
le lor memorie mai esercitate
per imparare a mente questo dramma
per le tue nozze.

TESEO -
E noi lo ascolteremo.

FILOSTRATO -
No, mio nobil signore, non sia mai.
Non è roba per te; io l’ho sentita
da capo a fondo, e posso assicurarti
che non val niente, proprio niente al mondo;
salvo che tu non trovi divertenti
le lor buone intenzioni e i loro sforzi
e la crudel fatica a prepararsi
pel piacere di renderti servizio.

TESEO -
Voglio invece ascoltarlo, questo dramma.
Non è mai roba da buttare via
quello che devozione e ingenuità
s’uniscono ad offrirti come omaggio.
Va’, va’, falli venire;
e voi, dame, prendete pure posto.


(Esce Filostrato)

IPPOLITA -
Non mi piace veder dei poveretti
sopraffatti dalle difficoltà;
e il loro zelo venire annientato
nell’atto stesso in cui viene applicato.([77])

TESEO -
No, no, dolcezza, non vedremo questo.

IPPOLITA -
Dice che in fatto di recitazione
essi non sanno far niente di buono.

TESEO -
E tanto più gentili noi saremo
nel ringraziarli per codesto niente.
Nostro spasso sarà cercar d’intendere
quello ch’essi fraintendono;
quando uno sforzo a nobil fine inteso
resta inferiore al suo proponimento,
è benevola nobiltà di spirito
guardare all’intenzione e non al merito.
Mi son trovato dove alti notabili
s’erano proposti di farmi accoglienza
con studiati indirizzi di saluto,
e li ho visti tremare, impallidire,
iniziare una frase ed interrompersi,
sentire il panico strozzargli in gola
il tanto esercitato loro eloquio,
e interrompersi, infine, all’improvviso,
senza potermi dare alcun saluto.
Eppure in quel silenzio,
credimi, cara, io colsi il benvenuto,
e in quel modesto, timoroso zelo
seppi leggere quanto avrei sentito
dalla lingua di certi personaggi
dal parlare condito e disinvolto.
Insomma, l’affettuosa ingenuità
d’un dire un po’ impacciato, a mio giudizio,
dice molto di più senza parlare.


Rientra FILOSTRATO

FILOSTRATO -
Quando a te piaccia, grazioso signore,
il Prologo potrebbe incominciare.

TESEO -
Benissimo, si faccia avanti il Prologo.


Tromba. Entra COTOGNA nella veste di Prologo

PROLOGO([78]) -
Se diremo qualcosa di offensivo,
lo facciamo con tutta l’intenzione.
Di far che voi possiate persuadervi
che non siamo venuti per offendere,
ma con tutta la buona volontà
di mostrarvi la nostra semplice arte
e il vero inizio della nostra fine
considerato che veniamo a voi
solo a vostro dispetto,
non già con l’intenzione di piacervi
noi siamo qui. Per il vostro diletto

noi siam venuti per farci sentire.
Gli attori è gente pronta e alla mano,
e dalla loro recita saprete
tutto quello che forse già sapete.

TESEO -
Sembra che questo povero buon diavolo
non ami molto la punteggiatura.

LISANDRO -
Difatti, ha cavalcato quel suo prologo
come a cavallo d’un puledro brado:
senza sapere più dove fermarsi.
C’è un vecchio detto, signore, che suona:
“Parlar non basta, occorre parlar bene”.

IPPOLITA -
È vero, ha recitato questo prologo
come un bambino suonerebbe il flauto:
ne ha tratto il suono, senza modularlo.

TESEO -
Pareva una catena aggrovigliata:
niente di rotto, ma tutto in disordine.


Entrano, preceduti da un trombettiere come nelle pantomime, PIRAMO, TISBE, il MURO, il CHIAR-DI-LUNA e il LEONE

PROLOGO -
Gentili spettatori, questa vista
potrà forse lasciarvi un po’ stupiti.
E stupitevi pur quanto volete,
finché la luce della verità
non vi faccia vedere tutto chiaro.
Se volete saperlo, questo è Piramo,
questa bellissima signora è Tisbe,
quest’uomo impiastricciato di calcina
è il Muro, il tristo Muro,
che s’erge a separare i due amanti;
ed è attraverso una crepa del Muro
che i due, povere anime,
s’accontentano di bisbigliar tra loro.
Del che nessun si faccia meraviglia.
Quest’altro, con in mano la lanterna,
e con il cane e il fascetto di rovi
rappresenta il notturno Chiar-di-luna.([79])
Per cui, se proprio volete saperlo,
questi amanti non ebbero vergogna
di ritrovarsi, per fare l’amore,
alla tomba di Nino, al chiar di luna.
Questa mostruosa bestia,
che si chiama “leone”, fa fuggire
terrorizzata la fedele Tisbe,
giunta per prima al luogo del convegno,
nella notte; fuggendo, il suo mantello
ella lascia cadere, e il vil Leone
lo macchia con la bocca insanguinata.
Subito dopo sopraggiunge Piramo,
un giovane gentile e ben prestante,([80])
e trova dilaniato dal Leone
il mantello della fedele Tisbe;
onde con la sua lama,
con la sua lama sanguinaria e rea,
con un gesto di nobile coraggio
si squarcia il fervido sanguigno petto.
Tisbe, ch’era rimasta ad aspettarlo
sotto l’ombra d’un gelso, nel vederlo,
il suo pugnale trae, e si dà morte.
Per il resto, lasciate che il Leone,
il Chiar-di-Luna, il Muro e i due amanti
vi dican tutta intera la vicenda,
quando si troveranno sulla scena.


(Escono tutti, meno il Muro)

TESEO -
Mi chiedo se il Leone parlerà.

DEMETRIO -
Non ci sarebbe da meravigliarsi,
signore, se parlasse anche un leone,
visto che son tanti asini già a farlo.

MURO -
Accade, dunque, nel nostro interludio,
che il sottoscritto, di nome Nasone,
debba rappresentare il Muro; e il Muro,
come vorrei che voi l’immaginaste,
ha in se stesso una crepa, una fessura
attraverso la quale, in gran segreto,
Piramo e Tisbe, i due innamorati,
usano bisbigliarsi tra di loro;
questa calce, l’intonaco e il mattone
vi facciano pensare che quel muro
son io, come se fosse un muro vero.
E questa, a destra e a manca, è la fessura
attraverso la quale, trepidanti,
i due giovani vanno a bisbigliarsi.

TESEO -
Un impasto di calce e di terriccio
non si saprebbe presentare meglio.([81])

DEMETRIO -
È il più arguto dei muri divisori
ch’io abbia mai sentito, mio signore.


Entra PIRAMO

PIRAMO -
“O fosca notte, o notte tanto notte!
“O notte che ti mostri sempre notte
“quando giorno non è. O notte, o notte!
“Ahimè, ahimè, che la mia Tisbe amata
“della promessa, temo, s’è scordata!
“E tu, muro, mio dolce, muro amato,
“che a divider la terra sei levato
“del padre suo e mio,
“fammi veder la tua fessura, ond’io
“possa veder per essa l’amor mio”.


(Il Muro alza la mano e apre le dita a “V”)


“Grazie, muro cortese. Del tuo zelo
“ti renda merito Giove dal cielo.
“Ma che vegg’io?… Tisbe non veggio, ahimè,
“muro cattivo, che attraverso te
“gioia mi porti. Muro maledetto,
“che non mi mostri l’amor mio diletto!”.

TESEO -
Ora il muro, secondo me, dotato
anch’esso di sensibile natura
dovrebbe rimbeccargli l’invettiva.

PIRAMO -
No, signore, per dir la verità,
lui non dovrebbe rimbeccar nessuno.
Le sue parole “l’amor mio diletto”
devono dare l’imbeccata a Tisbe;
infatti tocca a lei d’entrare in scena,
e a me spiarla di traverso il muro.
Succederà, vedrai, proprio così,
come t’ho detto: eccola che viene.


Rientra TISBE

TISBE -
“O muro, quanti mai lamenti amari
“m’hai tu sentito gemere, perché
“da Piramo mio dolce mi separi!
“Questo mio labbro di ciliegia, ahi lasso,
“quante volte ha baciato
“questo concreto tuo di calce e sasso!”.

PIRAMO -
“Vedo una voce: alla fessura tosto
“per vedere ed udir Tisbe m’accosto.
“Tisbe, sei là?”.

TISBE -
“Sei l’amor mio mi pare?”

PIRAMO -
Ti paia quel che vuol tua vista e udito,
dell’amor tuo io sono il favorito.
fedele a te come lo fu Lemandro.([82])

TISBE -
Io com’Elena([83]) a te, mio dolce amato,
fino a tanto che non m’uccida il Fato.

PIRAMO -
Tanto fido non fu Cefalo a Procri.([84])

TISBE -
Né Procri a Cefalo, com’io a te.

PIRAMO -
Oh, baciami attraverso la fessura
di questo vile muro.

TISBE -
La fessura
bacio del muro, ma non bacio te.

PIRAMO -
Verresti ad incontrarmi sull’istante
di Ninì alla tomba?

TISBE -
Immantinente,
e con me vita o morte, dolce amante.


(Escono Piramo e Tisbe)

MURO -
Così io, Muro, ho fatto la mia parte,
e, ciò finito, il Muro se ne parte.

TESEO -
Ed ora il muro è come raso al suolo
fra i due vicini.

DEMETRIO -
Era inevitabile,
signore, quando i muri son sì pronti
ad origliare senza darne avviso.

IPPOLITA -
È senz’altro la roba più puerile
che mi sia mai occorso di sentire.

TESEO -
Il meglio, in questo genere di cose,
sta sempre in ombra, e il peggio non è peggio
se ci soccorre un po’ di fantasia.

IPPOLITA -
Già, ma in tal caso a figurarci il meglio
siamo noi, con la nostra fantasia,
non essi con la loro.

TESEO -
Con la nostra,
basta che riusciamo a immaginare
ch’essi non sian peggiori recitanti
di quanto si ritengano essi stessi,
e possono apparirci ottimi attori.
Ecco venire due nobili bestie,
un uomo ed un leone.


Rientrano il LEONE e CHIAR-DI-LUNA

LEONE -
Voi, dame, voi, il cui nobile cuore
si spaventa a vedere il topolino
mostruosetto che striscia sul piancito,
potrete forse fremere e tremare
adesso qui, quando il leon selvaggio
ruggire udrete, tutto inferocito.
Sappiate allora che a ruggir così
son io stesso, Conforto, stipettaio,
con addosso una pelle di leone,
e nemmeno madama leonessa;
ché se fossi venuto innanzi a voi
come un vero leone ad azzuffarmi,
povera vita mia!([85])

TESEO -
Questo leone
è bestia assai gentile e coscienziosa.

DEMETRIO -
Il meglio come bestia, mio signore,
che mi sia mai occorso di vedere.

LISANDRO -
Un leone, però, che per coraggio
pare proprio una volpe.

TESEO -
Questo è vero;
e pare un’oca per la discrezione.

DEMETRIO -
No, mio signore, perché il suo coraggio
non può portarsi via la discrezione,
mentre una volpe può papparsi un’oca.

TESEO -
È vero. Certo, la sua discrezione
non si può portar via il suo coraggio;
è anche vero, tuttavia, che l’oca
non riesce a portarsi via la volpe.
Ma lasciamolo alla sua discrezione
e sentiamo quel che ha da dir la luna.

CHIAR-DI-LUNA -
“Ecco, questa lanterna
“rappresenta la bicornuta luna.

DEMETRIO -
Avrebbe fatto meglio, quello lì,
a mettersele in capo, le due corna.

TESEO -
Sarà perché non è luna crescente,
e le corna ci sono, ma invisibili,
nascoste nella sua circonferenza.

CHIAR-DI-LUNA -
“Questa lanterna vuol rappresentare
“la biforcuta luna…

TESEO -
Ah, questo no,
questo è l’errore più grosso di tutti.
L’uomo dovrebbe star nella lanterna,
se no, che Uomo-della-Luna è?

DEMETRIO -
Non osa entrarvi, perché la candela,
come vedi, si viene smoccolando.

IPPOLITA -
Di questa luna ormai ce n’ho abbastanza.
Non si potrebbe cambiare soggetto?

TESEO -
A sentir la sua poca brillantezza,([86])
sembra che sia nella fase calante;
comunque, per dover di cortesia,
ci converrà aspettare.

LISANDRO -
Avanti, Luna!

CHIAR-DI-LUNA -
“Tutto quel che ho da dir nella mia parte
“è di avvertirvi che questa lanterna
“è la luna; io l’Uomo-della-Luna;
“questo fascio di rovi
“il rituale mio fascio di rovi,
“questo cane, il mio cane.

DEMETRIO -
Già, soltanto che tutte queste cose
dovrebbero star dentro alla lanterna,
s’è roba che ha da stare nella luna.
Ma silenzio, che sta arrivando Tisbe.


Rientra TISBE

TISBE -
“L’antica tomba è questa di Ninì,
“ma l’amor mio, ahimè, non vedo qui!”.

LEONE -
(Ruggendo)
“Ahum! Ahum! Ahum!”


(Tisbe scappa, e nella fuga perde il manto)

DEMETRIO -
Ben ruggito Leone! Molto bravo!

TESEO -
E brava Tisbe, ben fuggita anch’essa!

IPPOLITA -
Bene anche Chiar-di-Luna. Questa luna
non poteva brillare con più grazia.


(Il Leone dilacera con le fauci il manto di Tisbe)

TESEO -
Ben lacerato, Leone! Perfetto!

DEMETRIO -
E poi comparve Piramo…

LISANDRO -
E scomparve il leone.


Entra PIRAMO

PIRAMO -
“Grazie a te, dolce luna,
“e il cielo coi tuoi raggi tutto incendi.
“Grazie al tuo raggio fervido abbagliante
“spero discerner Tisbe, la mia amante”.


(Vede il manto di Tisbe a terra, insanguinato)


“Ma oh, fato funesto,
“qual rio destino è questo!
“Oh, Piramo meschino,
“qual mio tristo destino!
“Occhi miei, lo vedete?
“Possibile il credete?
“Oh, mia dolce anatrella,
“come!, la tua mantella
“qui la mia vista avvisa
“tutta di sangue intrisa!…
“O Furie, o Parche dire,
“vogliate a me venire,
“il mio stame a tagliare,
“schiacciare, calpestare,
“finire e maledire!”.

TESEO -
Codesti appassionati piagnistei,
e la morte d’una persona cara,
va a finir che ti metton la tristezza.

IPPOLITA -
Maledetto sia pur questo mio cuore,
ma quell’uomo m’ispira compassione.

PIRAMO -
“Oh, Natura, perché
“i leoni hai creato?
“Perché un vile leone
“qui stuprare dové
“l’amor mio adorato,
“quella che è… che fu
“la più leggiadra dama ch’abbia amato,
“e sorriso quaggiù?”
“Venite, lacrime, ed affogatemi.
“Fuori, mia spada, dalla tua cella,
“scendi di Piramo nella mammella,
“dove il suo misero cuore saltella”.



(Si trafigge)


“Così io muoio,
“e così sia!…
“Al ciel t’invola,
“anima mia,
“spegniti, voce,
“Luna, va’ via!


(Esce Chiar-di-Luna)


“Morto son io,
“pietoso Iddio!
“Giunto al gran passo,
“misero, lasso!”.


(Muore)

DEMETRIO -
Altro che lasso! Morto come un asso;
perché colui non val proprio di più!([87])

LISANDRO -
Anche meno, direi, perché se è morto,
non val proprio più nulla.

TESEO -
Con l’aiuto d’un medico,
potrebbe tuttavia tornare in vita,
e da un asso così scoprirsi un asino.

IPPOLITA -
Com’è che il Chiar-di-Luna è andato via
prima che Tisbe sia tornata indietro
in cerca dell’amante?

TESEO -
Lo scoprirà al chiarore delle stelle.
Eccola, e con la sua disperazione
si chiuderà la rappresentazione.


Rientra TISBE

IPPOLITA -
Penso non abbia troppo a disperarsi
per un Piramo come quello là.
Spero che il piagnisteo non duri a lungo.

DEMETRIO -
A volerli pesar su una bilancia,
Piramo e Tisbe, a veder chi sia meglio,
a farla tracollar da quella parte:
lui come uomo, che Dio ce ne liberi;
lei, come donna… Dio ci benedica!

LISANDRO -
L’ha già scorto, coi suoi occhietti dolci…

DEMETRIO -
E gli sussurra qualcosa. Sentiamo…([88])

TISBE -
“Dormi, amor mio? / Ah, che vegg’io!
“Che! Morte fella / t’ha a me strappato,
“mia colombella?
“Piramo amato, / sorgi, favella!
“Ah, più non m’ode! /quel viso glabro,
“questo di giglio / ridente labbro,
“questo leggiadro / suo sopracciglio,
“queste sue guance / sì colorite
“due melarance: ormai sfiorite,
“ahimè, finite!
“Eran sì belle / le sue pupille,
“col loro iride / verde-pisello!
“Sciogliete, amanti, / a mille i pianti!
“O Tre Sorelle / a me correte,
“le vostre pallide / mani tingete
“del sangue mio,
“poi che reciso / il filo avete
“voi della vita /dell’amor mio.
“Lingua, silenzio, non più parola;
“spada, tu sola / vieni e profonda
“nel cuor di Tisbe / tutta t’affonda!”.


(Afferra la daga di Piramo e si pugnala)


“Amici, addio, / felici dì!
“Così finisce / Tisbe, così…”.


(Muore)


Rientrano CHIAR-DI-LUNA e il LEONE

TESEO -
Chiar-di-Luna e il Leone
rimangono per seppellire i morti.

DEMETRIO -
Sicuro, ed anche il Muro.

BOTTONE -
No, il muro che i lor padri separava
dovete immaginar che sia crollato.
Vi piacerebbe, adesso, a conclusione,
veder l’epilogo qui sulla scena,
o gustarvi una danza bergamasca([89])
ballata da una coppia degli attori?

TESEO -
Niente epilogo; perché il vostro dramma
non ha bisogno di domandar scuse.
Niente scuse, perché quando gli attori
son tutti morti, sono già scusati.
Eh, tuttavia, se la parte di Piramo
l’avesse recitata chi l’ha scritta
e si fosse impiccato col legaccio
da Tisbe usato come giarrettiera,
sarebbe stata una bella tragedia…
E tale è stata, comunque, in coscienza;
e molto egregiamente recitata.
Ma procediamo con la “bergamasca”,
l’epilogo lasciamolo da parte.


(Bottone e Flauto danzano una bergamasca,
poi escono)


La ferrea lingua della mezzanotte
ha detto “dodici”:([90]) amanti, a letto!
Sta per scoccare l’ora delle fate!
Tanto di più domani dormiremo
quanto abbiamo vegliato questa notte.
A letto, amici. Questa nostra festa
deve durare ancor due settimane.
Avremo ancora tempo
per altre danze e notturni diletti.


(Escono tutti)


Entra PUCK con una scopa in mano

PUCK -
“Rugge il leone nella notte bruna,
“ulula il lupo al volto della luna;
“russa in pace lo stanco contadino,
“arde l’ultima brace nel camino,
“stride all’inferno a letto il barbagianni
“a lui presagio di futuri affanni;
“l’ora notturna è questa in cui leggeri
“vagan gli spettri sui muti sentieri
“uscendo dalle tombe scoperchiate
“liberi, ad aleggiare per le strade.
“E noi, fatati spirti d’ogni sorta
“che al carro d’Ecate facciamo scorta,
“sempre fuggendo il raggio dell’aurora,
“il buio essendo la nostra dimora,
“come sognando siam lieti e contenti;
“nessun topo in quest’ora
“a disturbarci la casa s’attenti.
“Innanzi agli altri io sono qui mandato
“a spazzar via, di questa scopa armato,
“la polvere dell’uscio inchiavardato”.


Entrano OBERON, TITANIA e loro seguiti

OBERON -
“Pur se stia morendo il fuoco,
“si ravvivi, a poco a poco,
“della casa in ogni loco
“un altissimo bagliore.
“Elfi e fate, in gran fervore
“su, balzate, saltellate,
“come uccelli svolazzate,
“con le più lievi volute
“a me intorno volteggiate”.

TITANIA -
“Rinnovate danze e suoni,
“tutti i versi sian canzoni,
“tra volteggi e capriole
“intrecciate le carole,
“e col nostro dolce canto
“diffondiamo qui l’incanto”.


(Canto e danze)

OBERON -
“Ora, fino all’aurora
“ciascun di voi potrà
“vagare in libertà
“per quest’erma dimora.
“Per prima benedetto
“sia della sposa il letto:
“ch’abbia vita felice ed onorata
“quanta famiglia vi sia generata,
“e siano nell’amore sempre unite
“le tre coppie assortite,
“sulla lor prole mai della Natura
“la mano possa imprimer la jattura
“di quegli odiosi segni del destino
“quali una voglia o un labbro leporino.
“Fate ed elfi, ciascun per la sua strada,
“a spruzzar la sua magica rugiada
“per ogni sala, vano, rientranza,
“sì che la dolce pace vi abbia stanza,
“e possa il suo signore, benedetto,
“vivere sempre in pace e in diletto.
“All’opra, dunque, datevi dattorno,
“e tornate da me prima di giorno”.


(Escono Oberon, Titania e loro seguiti)

PUCK -
Se noi ombre vi siamo dispiaciuti,
immaginate come se veduti
ci aveste in sogno, e come una visione
di fantasia la nostra apparizione.
Se vana e insulsa è stata la vicenda,
gentile pubblico, faremo ammenda;
con la vostra benevola clemenza,
rimedieremo alla nostra insipienza.
E, parola di Puck, spirito onesto,
se per fortuna a noi càpiti questo,
che possiamo sfuggir, indegnamente,
alla lingua forcuta del serpente,([91])
ammenda vi farem senza ritardo,
o tacciatemi pure da bugiardo.
A tutti buonanotte dico intanto,
finito è lo spettacolo e l’incanto.
Signori, addio, batteteci le mani,
e Robin v’assicura che domani
migliorerà della sua parte il canto.([92])



FINE


([1]) Una testimonianza recente a conforto di questa tesi è venuta dalla illustre attrice inglese Vanessa Redgrave; la Redgrave, mentre redigiamo queste note, sta recitando a Londra al teatro del “Globe” la parte di Prospero nella “Tempesta”. Gli inglesi, per le rappresentazioni shakespeariane e del teatro elisabettiano in genere, hanno ricostruito dalle fondamenta lo stesso teatro – il “Globe”, appunto – in cui recitava alla fine del ’500 - inizi del ’600 la compagnia dei “King’s Men” (Attori della compagnia del re) di cui lo stesso Shakespeare faceva parte. “Vedere una commedia qui – afferma la Redgrave – è tutt’altra cosa; nel senso che s’instaura una forte comunicazione fra attori e pubblico per via dello spazio circolare. E la gente, soprattutto quella in piedi al centro, può quasi toccare gli attori, può anche bere una birra durante lo spettacolo. E può parlare, tant’è vero che in certi casi al “Globe” vengono fuori battute estemporanee fra palcoscenico e pubblico”. (Intervista al quotidiano “La Repubblica” del 27 maggio 2000).
([2]) “… like to a stepdame or a dowager”: “stepdame”, “matrigna”, ha nell’inglese, più che nell’italiano, il senso di donna perfida e crudele; “dowager” è la vedova ricca che si sta godendo le rendite del defunto marito, nobiluomo o mercante.
([3]) L’immagine è suggestiva, se non fosse che la luna nuova (“another moon”) non si vede nel cielo finché non è luna piena.
([4]) “… and won thy love doing thee injuries”: “… e ho vinto il tuo amore facendoti delle ferite”; secondo il mito greco, Teseo, divenuto re di Atene, partecipa, con l’amico Piritoo, alla spedizione di Ercole contro le Amazzoni, s’innamora della loro regina Antiope (o Ippolita), la rapisce dopo dura resistenza da parte di lei, e la conduce ad Atene per sposarla. È coi preparativi di queste nozze che Shakespeare apre il suo dramma.
([5]) Si capisce che si riferisce a Demetrio.
([6]) Testo: “In himself he is”, “In me stesso lo è (degno di te)”.
([7]) “Chanting faint hymns to the cold fruitless moon”: alla luna, impersonata e identificata dai Romani con Artemide/Diana, si attribuiva il culto della verginità femminile. “Sacerdotesse della luna” eran dette le vergini.
([8]) “Some private schooling for you both”: istruzioni, come dirà più sotto, per le sue nozze imminenti.
([9]) “What cheer, my love?”: “What cheer?” è locuzione in tutto equivalente a “How do you do”. Gli inglesi le dicono anche oggi indifferentemente.
([10]) Quale sia questo “qualcosa” (“something”) non si sa. Non se ne parla più in seguito.
([11]) “A good persuasion”: “una buona teoria”, “un buon modo di ragionare”; ma “persuasion” è spesso solo un rafforzativo pleonastico (es.: “A speaker of femal persuasion took the chair”: “Una donna prese la parola”) e non si traduce.
([12]) Allusione alle vicende di Enea e Didone, narrata da Virgilio nell’“Eneide”.
([13]) “Non della mia” non è nel testo, ma sottinteso, perché Elena sa di esser bella, non meno di Ermia, come dirà più sotto.
([14]) Febe è l’altro appellativo di Diana, la divinità lunare; appellativo peraltro impropriamente ad essa dato, per semplice assonanza con quella di Febo, il sole suo fratello.
([15]) Gli amanti si cibano della propria reciproca vista, e dei baci.
([16]) I nomi inglesi di questi personaggi minori, come spesso in Shakespeare, sono tratti da aggettivi o sostantivi, riferiti ad una loro qualità, che si è cercato di italianizzare alla meglio. Quince, il nome del falegname, è una varietà di mela asprigna, e si è reso con “Cotogna”; Snug, il nome dello stipettaio, significa “confortevole”, e si è reso con “Conforto”; Bottom, il nome del tessitore si è reso, per assonanza e pertinenza, con “Bottone”; Flute, il nome dell’aggiustatore di mantici è, palesemente, “Flauto”; Snout, il nome del calderaio, è “proboscide”, donde “Nasone”; Starveling, il nome del sarto, vuol dire “allampanato per fame”, donde “Il Lanca”.
([17]) Il testo ha semplicemente “I could play Ercles rarely”, letteralm.: “Io saprei recitare Ercole come pochi”; ma “rarely” è anche “preziosamente”.
([18]) “… or a part to tear a cat in”: “to tear a cat” è espressione idiomatica per significare “declamare in modo fragoroso”, quasi da bombardare le orecchie dell’uditorio (“to rant and buster” indica alla voce il “New Oxford Dictionary”).
([19]) “They would have no more discretion than to hang us”, letteralm.: “Non resterebbe loro altra scelta che impiccarci”.
([20]) “… I will aggravate my voice”: Bottone sproposita, usando un verbo contrario a quello che vuol dire, cioè “saprò alleggerire (“I would lighter”) la mia voce”.
([21]) “… as any sucking dove”: non è – come molti intendono – “come una colomba lattante”, che non ha senso (i colombi non allattano) ma “come una colomba che tuba”. “To suck” vale qui “to draw air into mouth”, che è la meccanica del tubare dei colombi.
([22]) La battuta, incomprensibile in italiano, gioca in inglese sul doppio senso di “crown” (“Your french-crown-colour” - dice Cotogna) termine che sta per “corona” (moneta) e “guscio d’uovo” e, per analogia, “zucca pelata”. Il riferimento è alla caduta dei capelli provocata dal “mal francese”, come era chiamata la sifilide contratta dai soldati inglesi nelle guerre di Francia (Cfr. anche “Re Lear”, I, 4, 155: “Give me an egg, and I’ll give thee two crowns”; e anche I, 4, 163: “Thou hadst little wit in thy bald crown”; e anche “Enrico V”, IV, 1, 220: “… the French may lay twenty French crowns to one they will beat us, for they bear them on their shoulders”: “I Francesi possono scommettere 20 corone contro una che ci battono, tanto loro le corone le portano sulle spalle…”.
([23]) “… most obscenely and courageously”: Bottone vuol dire “most scenically”, “più scenicamente”.
([24]) “Hold or cut bowstrings”: espressione tolta dal gergo del tiro all’arco che vale letteralm.: “Tenete in tiro le corde (pronti a scoccare), o tagliatele”.
([25]) “She never had so sweet a changeling”: “changeling” è termine che non ha equivalente in italiano; sta ad indicare persona (specie fanciullo) o “cosa scambiata surrettiziamente con un’altra”. Si diceva dei neonati che le zingare scambiavano nella culla con altri di solito mostruosi. Applicato a una cosa il termine è in “Amleto”, V, 2, 53: “The changeling never known”; alla neonata Perdita nel “Racconto d’Inverno”, III, 3, 115: “This is some changeling”; ad uno dei cugini ne “I due nobili cugini”, IV, 2, 44: “Thou are a changeling to him, a mere gipsy”.
([26]) “… to trace the forest wild”: “… per battere i cespugli” (durante la caccia).
([27])Robin Goodfellow” nel testo.
([28]) “… those that Hobgoblin call you”: “Hobgoblin” è un vezzeggiativo, inventato da Shakespeare per un diavolo o folletto (cfr. “Le allegre comari di Windsor”, V, 5, 40: “Crier Hobgoblin, make fairy oyes”; e “Re Lear”, IV, 1, 45).
([29]) “… in very likeness of a roasted crab”: “roasted crab” è anche “mela selvatica arrostita”, e molti l’hanno intesa così; ma per chi beve da un boccale, trovarsi tra le labbra un granchio è più scherzo da diavolo che non trovarsi una mela arrosto.
([30]) “… and “Tailor” cries”: “tailor” è qui sinonimo di “bleach” (o “bleak”) che è il nome di una malattia della pelle, e si usa nelle imprecazioni. “Scrofolaccia”, peggiorativo di “scrofola”, come volgarmente è detta la scrofolosi, è imprecazione contadina in alcune zone del sud.
([31]) “I have forworn his bed and company”: è la formula inglese che ripete quella del divorzio romano.
([32]) Sta per “alla tua bella” in generale: Fillide è il nome generico dato dalla poesia pastorale latina a ogni contadinella innamorata.
([33]) “India”, al tempo di Shakespeare, era sinonimo di paese del mondo lontano e sconfinato (e ricco: Falstaff, quando sogna di conquistare le mogli di Ford e Page, che detengono le chiavi delle borse dei ricchi mariti, dice: “Saranno le mie Indie”).
([34]) Sono i nomi delle donne che la leggenda dice amate da Teseo. Antiope è l’altro nome di Ippolita, regina delle Amazzoni; Arianna è la figlia di Minosse, re di Creta, innamoratasi dell’eroe quando questi andò nell’isola ad uccidere il Minotauro, e da lui poi abbandonata nell’isola di Nasso (cfr. Ovidio, “Metamorfosi”, VIII); Egle è forse Etra, la figlia di Pitteo, re di Trezene, il primo amore di Teseo.
([35]) “The nine-men morris”: il “nine-men morris” era una specie di gioco delle bocce, giocato con ciottoli arrotondati su una striscia (“peg”) di terra battuta.
([36]) “And through this distemperature”: per l’uso dello stesso termine, ma nel senso astratto di “disturbanze mentali”, cfr. “La commedia degli equivoci”, V, 1, 82: “… a huge infectious troop / Of pales distemperatures”.
([37]) Tutta questa tirata di Titania su una sorta di sovvertimento avvenuto nella natura riflette, secondo alcuni, lo stato d’animo di molti inglesi negli anni seguiti alla grande peste del 1592-93. Il riferimento è assunto come elemento di probabile datazione della commedia (1594-95).
([38]) “A little changeling boy”: come già rilevato (nota n. 25), il termine “changeling” è qui usato impropriamente. Titania, come dirà più avanti, non ha scambiato un bimbo con un altro, ha adottato e allevato il figlio di una donna morta nel partorirlo; né l’ha “rubato a un re indiano” come ha detto Puck.
([39]) “… and maidens call it “love-in-idleness”: nel ’500 s’indicava col nome di “love-in-idleness” l’amaranto, la cui infiorescenza è appunto rosso-porpora.
([40]) “Leviatano” è il mostro marino, reale o immaginario, della poesia ebraica (Isaia, XXVII), passato poi ad indicare ogni mostro marino in genere.
([41]) Il testo ha semplicemente “I am invisible”: è un invito dell’attore Oberon al pubblico a ricordarsi che egli, Oberon, essendo spirito, è invisibile.
([42]) Secondo il mito greco, Apollo s’innamora di Dafne, cacciatrice solitaria nella Valle di Tempe, in Tessaglia, ma Marte, per vendetta, suscita nel cuore della fanciulla odio verso il dio; sicché quando questi le si avvicina, ella fugge, il dio l’insegue e l’afferra, ma ella, per intervento del padre Peneo, si trasforma in un albero d’alloro.
([43]) La chiama “ninfa”, riprendendo il motivo della favola di Dafne, da lei dianzi evocata.
([44]) “Love takes the meaning in love’s conference”: cioè “le parole degli innamorati s’hanno da intendere con l’amore” (altrimenti si rischia di fraintenderle).
([45]) “… for lying so, Hermia, I do not lie”: è il solito “punning” basato sull’omofonia tra “lye”, “giacere”, e “lie”, mentire; che obbliga ad una resa in italiano piuttosto melensa quanto inevitabile, per comprendere la seguente battuta di Ermia, che rimprovera appunto a Lisandro di “giocar con le parole”.
([46]) “Byrlakin”, esclamazione derivante dalla contrazione di “By our Ladykin”, “per la nostra Madonnina”; ma lo dicevano gli inglesi del tempo di Shakespeare, non i greci di Teseo.
([47]) Il distico di ottonari e senari alternati era il metro comune delle ballate popolari.
([48]) Cioè, dovrei morire ammazzato.
([49]) “… to disfigure”: Cotogna sfarfalla, vuol dire “… to figure”.
([50]) Il mito di Piramo e Tisbe è cantato da Ovidio nelle “Metamorfosi”, VI libro, cui certamente Shakespeare si è qui ispirato. Esso vuole che i due giovani, innamorati contro il volere delle rispettive famiglie (lo stesso tema ripreso poi da S. in “Romeo e Giulietta”), non hanno potuto mai incontrarsi, e si sono parlati sempre attraverso la crepa d’un muro contiguo delle loro case. Perciò decidono di fuggire insieme, e si danno appuntamento presso la fontana accanto alla tomba del re Nino (siamo in Assiria): chi fosse arrivato per primo, avrebbe atteso l’altro presso un cespuglio di more. Tisbe giunge per prima, ma vede venirle incontro un leone che ha le fauci sporche di sangue per qualche preda sbranata da poco. Terrorizzata, fugge a rifugiarsi in una grotta, e nella corsa perde il velo che le copre il volto, che il leone addenta e lacera. Piramo, giunto poco dopo, vede nella polvere le impronte delle zampe del leone e il velo di Tisbe lacerato e tutto insanguinato; crede perciò che la ragazza sia stata sbranata dalla belva e, disperato, si uccide. Tisbe, uscita dalla grotta e visto il corpo dell’amato, si uccide a sua volta col pugnale di lui.
([51]) Testo: “Most brishy juvenal”: “superlativamente giovenale”; “juvenal” è forma arcaica di “juvenil” sostantivato. È dello stile pomposo in cui Flauto recita la sua parte.
([52]) “… who would set his wit to so foolish bird? Who would give a bird the lie, though he cry “cuckoo” never so?”: letteralm. “Chi vorrebbe avere a che fare con un uccello così sciocco? Chi vorrebbe mai dar la smentita ad un uccello, mettendosi anch’egli a gridare “cucù” a perdifiato?”. È chiara l’allusione: il verso del cuculo (“cuckoo”) è contrazione di “cuckold”, “becco”. Senso: il cuculo canta “cucù” e il marito becco è inutile che si metta a rispondergli col suo verso per contraddirlo. È tempo sprecato.
([53]) “The summer still doth tend upon my state”: l’estate, qui personificata (donde l’articolo) per contrapposto al rigido e brullo inverno, è figurativamente, lo stato di benessere, di serenità, bellezza e prosperità.
([54]) I contadini usavano curare le ferite da taglio alle mani con applicazioni di impiastri di tele di ragno.
([55]) V. la nota n. 7.
([56]) Cioè il sole, che splende nell’altro emisfero.
([57]) L’immagine del sonno debitore di ristoro all’animo angosciato è uno dei motivi consueti ai “Mistery Plays”. Senso: per chi non riesce a dormire, l’angoscia si fa più pesante; proviamo a vedere se aspettandolo qui, il sonno, venendo, possa lenirla almeno in parte.
([58]) “… and you will nothing weigh”, letteralm.: “… e non peserai nulla”.
([59]) “O how ripe in show / Thy lips, those kissing cherries, tempting grow!”, letteralm.: “Oh, come matura alla vista / Le tue labbra, quelle ciliege da baciare, crescono tentatrici!”.
([60]) “She is one of this confederacy”, letteralm.: “Essa è una della camarilla”.
([61]) “Away, you Ethiope!”: dire a una donna inglese che era scura di carnagione (“etiope” sta per “africana” o “negra” in genere) era come dirla “brutta”.
([62]) “No, no: he’ll…”: che cosa voglia dire Ermia non si capisce. Probabilmente Demetrio è più robusto di Lisandro, ed ella teme che questi abbia la peggio.
([63]) “Out, twany Tartar…”: “Tartar” riferito a una donna era sinonimo di “shrew”, “bisbetica”; “twany”, “abbronzata”, cioè scura di pelle, quindi “brutta” (v. la nota n. 61).
([64]) “of hindering knot-grass made”: “fatta di erba sanguinella ritardatrice (della crescita)”. Era credenza popolare che gli infusi di alcune erbe, tra cui la sanguinella (“knot-grass”) influissero negativamente sulla crescita delle persone.
([65]) Il testo ha semplicemente: “I mistook”: “Mi son proprio sbagliato”. “Mistake” è l’errore non intenzionale, il “qui pro quo”.
([66]) “I with the Morning’s love have oft made sport”: la personificazione dell’Aurora (chiamata indifferentemente anche “The Morning”) è un topo della poesia elisabettiana.
([67]) “We’ll try non manhood here”, letteralm.: “Qui non potremo dar prova di nessuna virilità”.
([68]) Bottone continua a spropositare: vuol dire “disposizione” (“disposition”) e dice “esposition”.
([69]) “Sweet favours”: per “favours” nel senso di “tokens of favours” v. anche “Riccardo III”, V, 3, 18: “And swear it as a favour”: “A segno e pegno dei (di lei) favori”.
([70]) “Begg’d my patience”: qui “patience” ha il senso di “forbearance”.
([71]) “Our observation is performed”: “observation” sta qui per “observance”, “celebrazione di un rito” (come nella “Tempesta”, III, 3, 87: “… with good life and observation strange”, con buona grinta e con strana osservanza”. Di che rito si tratta, si capisce dalle seguenti parole di Teseo: “The rite of may”, la celebrazione dell’ingresso della primavera.
([72]) Il giorno di San Valentino (14 febbraio) era anche allora celebrato come la festa degli innamorati, uomini e uccelli.
([73]) “Because it had no bottom”: il testo inglese gioca sul nome del personaggio, che è “Bottom”, e significa “fondo”.
([74]) “You must say paragon. A paramour is, God bless us, a thing of naught”: “paragon” è il diamante perfetto; “paramour” l’“amor dolce” (specie sessuale). Si è cercato di mantenere l’assonanza “zuccherino”/ “gioiellino”.
([75]) Il testo ha: “In a brow of Egypt”, “in una fronte d’Egitto”. La pelle scura, come quella delle africane (e nella letteratura inglese le “etiopi” lo sono per antonomasia) era segno di bruttezza, per le dame inglesi (cfr. anche la nota n. 61).
([76]) Allusione alla sanguinosa zuffa tra Centauri e Lapiti, avvenuta in occasione delle nozze del re di questi, Piritoo, con Ippodamia. Il centauro Eurizione, ubriaco, tentò di rapire la sposa, causando la terribile zuffa, alla quale prese parte anche Teseo, e con il suo aiuto i Lapiti ebbero la meglio. L’episodio è cantato da Ovidio nel XII libro delle “Metamorfosi”. Ercole non c’era; egli ebbe a che fare coi Centauri nel cacciarli dalla Tessaglia per relegarli sul monte Pinto (Stazio, “Tebaide”, V).
Quale sia la parentela tra Teseo ed Ercole non si sa. Ercole nasce da stirpe dorica, Teseo ad Atene; forse l’origine divina di entrambi, Ercole essendo figlio di Zeus e Alcmena, Teseo di Poseidone, fratello di Zeus, e di Etra.
([77]) Il testo inglese ha tutta la frase in astratto: “Non amo veder l’incapacità sopraffatta dalle difficoltà, e lo zelo venir meno al suo compito nell’atto stesso di compierlo”; che in italiano è maledettamente artificiosa.
([78]) Cotogna legge un testo in cui gli errori di interpunzione gli fanno dire il contrario di quel che dovrebbe. Il discorso dovrebbe correre così: “Se diremo qualcosa di offensivo, lo facciamo con tutta l’intenzione di far che voi possiate persuadervi che non siamo venuti per offendere, ma con tutta la buona volontà di mostrare la nostra semplice arte, che è il vero fine della nostra iniziativa. Considerate che veniamo a voi non già a nostro dispetto, ma con l’intenzione di piacervi. Noi siamo qui per il vostro diletto. Noi siam venuti per farci sentire. Gli attori sono pronti e alla mano, e dalla loro recita saprete tutto quello che forse già sapete”.
([79]) Nella fantasia popolare la personificazione dell’“uomo della luna” era un uomo con un fascio di sterpi sotto il braccio e una lanterna accesa in mano; così interpretava il popolo le ombre che si vedono sulla superficie lunare.
([80]) “Sweet youth and tall”: per “tall” nel senso di “ben prestante” (“of a fine specimen of manhood”) in Shakespeare, cfr. “Antonio e Cleopatra”, II, 6, 7: “And carry back to Sicily much tall youth”.
([81]) “Would you desire lime and hair to speak better?”, letteralm.: “Si potrebbe desiderare che un impasto di calce e terriccio parli meglio?”. “Lime and hair” è locuzione della terminologia edile. Il “pelo” o “peluria” o “pelame” (“hair”) non c’entra affatto.
([82]) “Like Limander”: così nel testo, come corruzione – evidentemente voluta dal poeta in bocca a Piramo/Bottone – di Leander, Leandro, il mitico giovinetto di Abido, amante della sacerdotessa di Afrodite Ero, che per recarsi da lei, dimorante a Sesto, passava a nuoto l’Ellesponto, finché vi morì annegato.
([83]) Come il precedente, corruzione di Hero, la sacerdotessa amata da Leandro. Nulla da vedere – come vedono alcuni – con la Elena della commedia.
([84]) Allusione alla leggenda di Cefalo e Procri narrata da Igino (“Favole”, CLXXXIX): “Cefalo sposò Procri, figlia di Pandione; i due giovani, amandosi teneramente, si erano scambiata la promessa di non tradirsi mai. Cefalo era appassionato della caccia; una mattina, trovandosi su un monte, fu scorto dall’Aurora, che invaghitesene, lo rapì, ma il giovane rifiutò i favori della bella dea”.
([85]) Il discorso del personaggio è contorto e piuttosto astruso. Nel testo c’è una contrapposizione letterale, che diviene concettuale. L’attore dice: io vengo come Conforto a fare il leone; perché se venissi come leone a fare Conforto, dovreste avere pietà della mia vita (perché sarei un leone, e non il Conforto che sono).
([86]) “It appears by his small light of discretion”: qui “discretion” sta per “talent”, “skilfullness”: “A giudicare dalla scarsa luce che emana il suo talento…”.
([87]) Il gioco di parole contenuto in questa battuta di Demetrio e nelle due seguenti è tutto inglese, e intraducibile. Il lettore lo prenda qual è. Piramo ha concluso la sua tirata con: “Io muoio, muoio, muoio!” (“Now die, die, die…”). “Die”, sostantivo, è “dado”, e su questo gioca Demetrio. Il dado ha sei facce numerate da 1 a 6, e il numero 1, il più basso al giuoco, si dice “ace”. Ma “ace” si pronuncia come “ass” che è “asino”, e su questo gioca a sua volta Teseo, quando dice che, tornando in vita, l’asso può rivelarsi un “asino”.
([88]) “Videlicet”: è il latino “cioè”.
([89]) “A bergamask”: si chiamava così una danza rustica, d’origine di Bergamo, in Italia.
([90]) È uno dei consueti anacronismi di Shakespeare: nell’Atene di Teseo non c’erano orologi che battessero l’ore.
([91]) Cioè ai morsi della critica, velenosi come quelli di un serpente; in questo caso “ai vostri fischi di disapprovazione”.
([92]) È l’annuncio di una prossima commedia romanzesca col soprannaturale, e sarà “La Tempesta”, in cui Puck riapparirà nelle vesti di “Ariel”.

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