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mercoledì 20 luglio 2011

IL PROCESSO

CAP.1

Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato. La cuoca della signora Grubach, la sua affittacamere, che ogni giorno verso le otto gli portava la colazione, quella volta non venne. Non era mai successo prima. K. aspettò ancora un poco, guardò dal suo cuscino la vecchia che abitava di fronte e lo stava osservando con una curiosità del tutto insolita per lei, ma poi, stupito e affamato insieme, suonò il campanello. Subito bussarono e un uomo che K. non aveva mai visto prima in quella casa entrò. Era slanciato ma di solida corporatura, indossava un abito nero attillato che, come quelli da viaggio, era provvisto di varie pieghe, tasche, fibbie, bottoni e cintura, e dava quindi l'impressione, senza che si capisse bene a che cosa dovesse servire, di essere particolarmente pratico. «Lei chi è?», chiese K. subito sollevandosi a metà nel letto. Ma l'uomo eluse la domanda, come se la sua comparsa fosse da accettare e si limitò a chiedere a sua volta: «Ha suonato?». «Anna mi deve portare la colazione», disse K. e cercò, dapprima in silenzio, con l'osservazione e la riflessione, di stabilire chi mai fosse l'uomo. Ma questi non si espose troppo a lungo ai suoi sguardi, si volse verso la porta e l'aprì un poco per dire a qualcuno che stava evidentemente subito dietro: «Vuole che Anna gli porti la colazione». Ci fu una risatina nella stanza accanto, dal suono non poteva essere sicuro che non venisse da più persone. Sebbene l'estraneo non potesse con questo aver appreso nulla che già non avesse saputo prima, disse a K. con il tono di una comunicazione: «È impossibile». «Questa sarebbe nuova», disse K., saltò dal letto e s'infilò in fretta i pantaloni. «Voglio un po' vedere che gente c'è nell'altra stanza e che giustificazione mi darà la signora Grubach per questa seccatura». Gli venne subito in mente che non avrebbe dovuto dire questo a voce alta, e che in tal modo riconosceva all'estraneo un qualche diritto di controllo, ma al momento la cosa non gli parve importante. L'estraneo, comunque, l'intese così, perché disse: «Non preferisce rimanere qui?». «Non voglio rimanere qui né che lei mi rivolga la parola finché non si sarà presentato». «L'intenzione era buona», disse l'estraneo e aprì ora spontaneamente la porta. Nella stanza accanto, dove K. entrò più lentamente di quanto volesse, a un primo sguardo tutto pareva quasi immutato dalla sera prima. Era il soggiorno della signora Grubach, forse nella stanza stracolma di mobili, tessuti, porcellane e fotografie, c'era un po' più spazio del solito, non lo si vedeva subito, anche perché il cambiamento principale consisteva nella presenza di un uomo, seduto vicino alla finestra con un libro da cui ora alzò lo sguardo. «Sarebbe dovuto rimanere nella sua stanza! Non glielo ha detto Franz?». «Ma lei che cosa vuole?», disse K., e volse lo sguardo dalla nuova conoscenza all'uomo chiamato Franz, che era rimasto sulla porta, e poi ancora all'altro. Dalla finestra aperta si vedeva di nuovo la vecchia che, con una curiosità veramente senile, si era adesso spostata alla finestra dirimpetto per continuare a vedere ogni cosa. «Insomma, voglio la signora Grubach...», disse K., e fece un movimento come per divincolarsi dai due uomini, che pure stavano distanti da lui, e andarsene. «No», disse l'uomo vicino alla finestra, gettò il libro su un tavolino e si alzò. «Lei non può andarsene, è in arresto». «Si direbbe proprio», disse K. «E perché?», chiese poi. «Non siamo autorizzati a dirglielo. Vada in camera sua e aspetti. Il procedimento è appena avviato, e lei saprà tutto a tempo debito. Vado oltre il mio incarico parlandole così amichevolmente. Ma spero che non ci senta nessuno al di fuori di Franz, e anche lui è gentile con lei contro ogni regola. Se continua ad avere la fortuna che ha avuta con l'assegnazione delle sue guardie, può sperare in bene». K. volle sedersi, ma ora si accorse che in tutta la stanza non c'era possibilità di sedersi, se non sulla seggiola vicino alla finestra. «Se ne renderà conto, di come tutto questo è vero», disse Franz e mosse verso di lui insieme all'altro. Quest'ultimo, soprattutto, era parecchio più alto di K., e gli batté più volte sulla spalla. Tutti e due esaminarono la camicia da notte di K. e dissero che adesso avrebbe dovuto indossare una camicia molto più brutta, ma che avrebbero custodito quella camicia, come pure tutta l'altra sua biancheria, e che gliel'avrebbero restituita se la sua causa si fosse risolta favorevolmente. «È meglio che lei lasci a noi le sue cose piuttosto che al deposito», dissero, «perché al deposito spesso la roba sparisce e inoltre, dopo un certo tempo, vendono ogni cosa senza vedere se il procedimento relativo è concluso o meno. E quanto durano questi processi, specie negli ultimi tempi! Alla fine lei riceverebbe, questo sì, dal deposito la somma ricavata, ma prima di tutto questa somma è già scarsa in sé, perché alla vendita non è determinante tanto l'entità dell'offerta quanto quella della corruzione, e poi queste somme, per esperienza, si riducono ulteriormente passando di mano in mano e con gli anni». K. prestò scarsa attenzione a questi discorsi, non dava gran peso al diritto, che forse ancora possedeva, di disporre delle proprie cose, molto più importante per lui era vedere chiaro nella sua situazione; alla presenza di quella gente, però, non riusciva nemmeno a riflettere, la pancia della seconda guardia - perché non potevano che essere guardie - lo urtava di continuo quasi amichevolmente, ma se alzava lo sguardo vedeva un viso secco, ossuto, con un naso grosso e storto, che non si accordava per niente con quel corpo grasso, che s'intendeva con l'altra guardia senza badare a lui. Che gente era quella? Di che cosa parlavano? Da quale autorità dipendevano? Eppure K. viveva in uno stato di diritto, dappertutto regnava la pace, tutte le leggi erano in vigore, chi osava aggredirlo in casa sua? Era sempre propenso a prendere ogni cosa con disinvoltura, a credere al peggio solo quando il peggio era arrivato, a non farsi preoccupazioni per il futuro, neanche quando si presentava minaccioso. Ma ora questo non gli sembrava giusto, si poteva considerare il tutto uno scherzo, uno scherzo pesante, montato dai colleghi della banca per motivi a lui sconosciuti, magari perché oggi compiva trent'anni, era senz'altro possibile, forse gli bastava ridere in un modo qualsiasi in faccia alle guardie che avrebbero riso anche loro, forse erano fattorini dell'angolo della strada, non sembravano troppo diversi - questa volta comunque, fin dal primo momento che aveva visto la guardia Franz, era deciso a non rinunciare al minimo vantaggio che forse possedeva di fronte a quella gente. Più tardi avrebbero potuto dirgli che non aveva capito lo scherzo, ma in questo K. vedeva un rischio minimo, eppure si ricordava - senza che fosse sua abitudine imparare dall'esperienza - di alcuni casi, di per sé insignificanti, in cui a differenza dei suoi amici aveva agito coscientemente con imprudenza, senza minimamente darsi pensiero per le possibili conseguenze, ed era poi stato punito dai fatti. Non sarebbe più successo, almeno non questa volta; se era una commedia, lui sarebbe stato al gioco.
Era ancora libero. «Con permesso», disse, e passando fra le due guardie tornò svelto nella sua stanza. «Sembra ragionevole», sentì dire dietro di sé. In camera aprì subito con uno scatto i cassetti della scrivania, dentro tutto era in ordine perfetto, ma nella sua agitazione non riuscì immediatamente a trovare proprio quei documenti d'identità che cercava. Finalmente trovò la tessera di ciclista e con quella voleva subito andare dalle guardie, ma poi gli parve un documento troppo poco importante e continuò a cercare finché trovò il certificato di nascita. Quando ritornò nella stanza accanto, la porta di fronte si aprì e la signora Grubach fece per entrare. La si vide solo un istante perché, appena riconosciuto K., rimase visibilmente imbarazzata, chiese scusa, sparì e chiuse con estrema cautela la porta. «Entri pure», aveva appena fatto in tempo a dire K. Ma ora se ne stava in piedi in mezzo alla stanza con i suoi documenti, guardò ancora verso la porta che non si riapriva e si scosse solo a un richiamo delle guardie che sedevano a un tavolino vicino alla finestra e, come K. ora si accorse, consumavano la sua colazione. «Perché non è entrata?», chiese. «Non può», disse la guardia più alta. «Lei è in arresto». «Come posso essere in arresto? In questo modo, poi». «Non ricominci adesso», disse la guardia e intinse una fetta di pane imburrata nel vasetto del miele. «A queste domande non rispondiamo». «Dovrà rispondere», disse K. «Ecco i miei documenti d'identità, fatemi vedere ora i vostri e soprattutto il mandato di arresto». «Santo cielo!», disse la guardia, «possibile che lei non riesca a rassegnarsi alla sua situazione e per giunta sembri mettercela tutta per irritarci inutilmente, noi che adesso le siamo forse più vicini di qualsiasi altro essere umano!». «È così, creda», disse Franz, e non portò alla bocca la tazza di caffè che teneva in mano, ma fissò K. con un lungo sguardo, probabilmente carico di significato, ma incomprensibile. K. indulse senza volere a un muto colloquio con Franz, poi batté la mano sui suoi documenti e disse: «Ecco i miei documenti d'identità». «Che ce ne importa a noi?» gridò la guardia più alta. «Si comporta peggio di un bambino. Ma che cosa vuole? Vuole chiudere in fretta il suo grosso, maledetto processo discutendo con noialtre guardie di documenti e mandati? Noi siamo impiegati in sottordine che ne capiscono a malapena di documenti d'identità e che con la sua faccenda hanno a che fare solo per sorvegliarla dieci ore al giorno ed essere pagati per questo. Tutto qui quello che siamo, e tuttavia siamo in grado di comprendere che le alte autorità da cui dipendiamo, prima di disporre un simile arresto s'informano con esattezza sui motivi dell'arresto e sulla persona dell'arrestato. Qui non c'è errore. Le nostre autorità, per quanto le conosco, e conosco solo i gradi più bassi, non è che cerchino la colpa nella popolazione, ma, come è detto nella legge, vengono attratte dalla colpa e devono mandare noi guardie. Questa è legge. Dove ci sarebbe un errore?». «Questa legge non la conosco», disse K. «Tanto peggio per lei», disse la guardia. «Esiste solo nelle vostre teste, del resto», disse K. Cercava in qualche modo di penetrare nei pensieri delle guardie, di volgerli a suo favore o di farli suoi. Ma la guardia si limitò a ribattere: «Avrà occasione di accorgersene». Franz intervenne dicendo: «Lo senti, Willem, ammette di non conoscere la legge e intanto sostiene di essere innocente». «Hai ragione, ma non si riesce a fargli capire niente», disse l'altro. K. non rispose più niente; devo forse, pensò, farmi confondere ancora di più dalle chiacchiere di questi infimi esecutori, come loro stessi ammettono di essere? In ogni caso parlano di cose che neanche capiscono. La loro sicurezza è possibile solo grazie alla loro stupidità. Due parole scambiate con un mio pari faranno più chiarezza su tutta la faccenda di lunghi discorsi con questi due. Andò avanti e indietro un paio di volte nello spazio sgombro della stanza, vide di fronte la vecchia che aveva trascinato alla finestra un uomo molto più vecchio ancora e lo teneva abbracciato. K. doveva porre fine a questo spettacolo: «Portatemi dal vostro superiore», disse. «Quando lo vorrà lui, non prima», disse la guardia che era stata chiamata Willem. «E ora», aggiunse, «le consiglio di andare in camera sua, starsene tranquillo e aspettare quel che si deciderà a suo riguardo. La consigliamo di non perdersi in pensieri inutili, si concentri, invece, le si richiederà un grosso sforzo. Lei non ci ha trattati come la nostra comprensione avrebbe meritato, lei ha dimenticato che noi, si sia quel che si sia, almeno ora, confronto a lei, siamo uomini liberi, e non è superiorità da poco. Comunque, se lei ha i soldi, siamo disposti a portarle una piccola colazione dal caffè di fronte».
Per un momento K. rimase in silenzio senza dar risposta a questa offerta. Forse, se avesse aperto la porta della stanza attigua o addirittura quella dell'anticamera, i due non avrebbero osato trattenerlo, forse la soluzione più semplice dell'intera faccenda sarebbe stata spingere le cose all'estremo. Magari però lo avrebbero afferrato, e, una volta sconfitto, lui avrebbe perso anche la superiorità che ora, da un certo punto di vista, manteneva nei loro confronti. Preferì quindi la sicurezza della soluzione a cui si sarebbe senz'altro giunti lasciando le cose al loro decorso naturale, e tornò nella stanza, senza che da parte sua o delle sue guardie venisse una sola parola.
Si gettò sul letto e prese dal lavabo una bella mela che si era preparato la sera prima per la colazione. Adesso era tutta la sua colazione e ad ogni modo, come si accertò dal primo grosso morso, molto migliore di quanto sarebbe stata la colazione che le sue guardie, per grazia loro, avrebbero potuto portargli dal sudicio caffè notturno. Si sentì bene e fiducioso, quella mattina avrebbe perso delle ore di lavoro in banca, certo, ma nella posizione piuttosto alta che ora occupava sarebbe stato facilmente scusato. Doveva addurre la vera scusa? Pensava di farlo. Se non gli avessero creduto, cosa comprensibile in un caso come questo, poteva chiamare come testimone la signora Grubach, o anche i due vecchi di fronte, che ora si stavano certo spostando alla finestra dirimpetto. K. si stupì, o almeno si stupì secondo il ragionamento delle guardie, che lo avessero rimandato in camera e ve l'avessero lasciato solo, dove aveva dieci volte la possibilità di uccidersi. Ma allo stesso tempo si chiedeva, questa volta secondo il suo ragionamento, che motivo avrebbe mai potuto avere per farlo. Forse perché quei due sedevano nella stanza accanto e gli avevano fatto fuori la colazione? Sarebbe stato talmente assurdo uccidersi che, se anche avesse voluto farlo, non ne sarebbe stato capace per l'assurdità della cosa. Se la limitatezza mentale delle due guardie non fosse stata così evidente, si sarebbe potuto ammettere che anche loro, per la stessa convinzione, non avessero visto nessun rischio nel lasciarlo solo. Ora, volendo, avrebbero potuto vederlo andare a un armadietto a muro, in cui custodiva una buona acquavite, vuotarsene un primo bicchierino in sostituzione della colazione e farne seguire un secondo per darsi coraggio, quest'ultimo solo per precauzione, nell'improbabile caso che ce ne fosse bisogno.
In quel momento un grido dalla stanza accanto lo spaventò, tanto che batté i denti contro il bicchiere. «L'ispettore la chiama!». Fu solo il grido a spaventarlo, un grido breve, secco, militaresco, di cui non avrebbe creduto capace la guardia Franz. L'ordine in sé gli giunse molto gradito. «Finalmente!», gridò di ritorno, chiuse a chiave l'armadio e si affrettò nella stanza accanto. Lì c'erano le due guardie che lo ricacciarono, come se fosse ovvio, nella sua stanza. «Che le salta in mente?», esclamarono. «Vuole presentarsi in camicia da notte davanti all'ispettore? La farebbe bastonare, e noi con lei!». «Lasciatemi, perdio!», gridò K., che si trovò già respinto all'armadio dei vestiti, «se mi si assale nel mio letto non ci si può aspettare di trovarmi vestito per la festa». «Non serve a niente», dissero le guardie che, quando K. gridava, si facevano sempre calme, anzi quasi tristi, cosa che lo sconcertava o lo portava in certo modo a riflettere. «Cerimonie ridicole!», brontolò, ma intanto prese una giacca dalla seggiola e la tenne un momento sollevata con le due mani, come per sottoporla al giudizio delle guardie. Queste scossero la testa. «Dev'essere una giacca nera», dissero. K. allora buttò in terra la giacca e disse, senza sapere nemmeno lui in che senso lo diceva: «Ma non è ancora l'udienza principale!». Le guardie sorrisero, ma insistettero nel loro: «Dev'essere una giacca nera». «Se con questo sveltisco la cosa, mi va bene», disse K., aprì l'armadio dei vestiti, cercò a lungo fra i molti abiti, scelse il suo abito nero migliore, un completo così attillato in vita che aveva suscitato quasi scalpore fra i conoscenti, tirò fuori un'altra camicia e cominciò a vestirsi con cura. Segretamente pensava di avere sveltito la cosa, in quanto le guardie avevano dimenticato di costringerlo ad andare nel bagno. Li osservò, caso mai se ne ricordassero, ma naturalmente a quelli non passò neanche per la testa, Willem per contro non si dimenticò di mandare Franz dall'ispettore per avvertire che K. si stava vestendo.
Quando fu completamente vestito, precedendo di pochi passi Willem, dovette attraversare la stanza accanto, che era vuota, e passare in quella successiva, la cui porta a due battenti era già aperta. Come K. ben sapeva, questa stanza era abitata da qualche tempo da una certa signorina Bürstner, una dattilografa che soleva andare al lavoro la mattina presto e tornare a casa tardi e con la quale K. aveva scambiato qualche parola di saluto o poco più. Il comodino era stato ora spostato dal suo letto nel centro della stanza come tavolo da udienza, e dietro stava seduto l'ispettore. Aveva le gambe accavallate e appoggiava un braccio allo schienale della seggiola.
In un angolo della stanza c'erano tre giovani che guardavano le fotografie della signorina Bürstner appuntate a una stuoia appesa al muro. Alla maniglia della finestra aperta pendeva una camicetta bianca. Alla finestra di fronte c'erano di nuovo i due vecchi, ma la compagnia si era accresciuta, perché dietro di loro c'era un uomo molto più alto, con una camicia aperta sul petto, che tirava e rigirava fra le dita una barbetta rossa. «Josef K.?», chiese l'ispettore, forse solo per richiamare su di sé lo sguardo distratto di K. Questi annuì. «Lei è molto stupito di quanto è avvenuto stamattina, vero?», chiese l'ispettore, e spostò intanto con entrambe le mani i pochi oggetti che si trovavano sul comodino, la candela con i fiammiferi, un libro e un puntaspilli, quasi fossero oggetti necessari per l'udienza. «Certo», disse K. e provò subito una sensazione di sollievo al trovarsi finalmente di fronte a una persona ragionevole con cui poter parlare della sua faccenda. «Certo, sono stupito, ma non poi molto stupito». «Non molto stupito?», chiese l'ispettore e mise la candela al centro del comodino radunandole intorno gli altri oggetti. «Forse lei mi ha frainteso», si affrettò a notare K. «Voglio dire...» e qui K. s'interruppe e guardò intorno per cercare una seggiola. «Posso sedermi?», chiese. «Di solito non si fa», rispose l'ispettore. «Voglio dire», riprese K. senza più fare pause, «è vero che sono stupito, ma quando uno è al mondo da trent'anni e si è dovuto fare largo da solo, com'è il caso mio, ha fatto il callo alle sorprese e non ci dà più peso. Soprattutto non a quella di oggi». «Perché soprattutto non a quella di oggi?». «Non voglio dire di prendere tutto per uno scherzo, le disposizioni prese mi sembrano troppo ampie. Vi dovrebbero prendere posto tutti gl'inquilini della pensione e anche tutti voi, e si supererebbero i limiti di uno scherzo. Non voglio quindi dire che si tratta di uno scherzo». «Giustissimo», disse l'ispettore, e guardò quanti fiammiferi c'erano nella scatola. «Ma d'altra parte», continuò K. volgendosi a tutti, e avrebbe voluto attrarre anche l'attenzione dei tre che stavano guardando le fotografie, «d'altra parte, la faccenda non può nemmeno avere molta importanza. Lo deduco dal fatto che sono accusato, ma non riesco a trovare la minima colpa di cui mi si possa accusare. Ma anche questo è secondario, la questione essenziale è da chi sono accusato. Quale autorità conduce il procedimento? Siete dei funzionari? Nessuno ha un'uniforme, a meno che...», e qui si rivolse a Franz, «non si voglia chiamare uniforme il suo vestito, ma è piuttosto un abito da viaggio. In queste questioni esigo chiarezza, e sono convinto che, dopo questo chiarimento, potremo congedarci con la massima cordialità». L'ispettore picchiò la scatola dei fiammiferi sul comodino. «Lei sta facendo un grosso errore», disse. «Questi signori e io abbiamo ben poco a che vedere con la sua faccenda, non ne sappiamo addirittura quasi nulla. Potremmo indossare la più regolare delle uniformi che la sua causa non peggiorerebbe affatto. Non posso nemmeno dirle che è accusato, o meglio, non so se lo è. Lei è in arresto, questo è esatto, di più non so. Magari le guardie hanno fatto altre chiacchiere, in questo caso è appunto di chiacchiere che si è trattato. Ma se ora non rispondo alle sue domande, posso tuttavia darle un consiglio, pensi meno a noi e a quello che le succederà, pensi piuttosto a sé. E non faccia tanto chiasso con il suo sentirsi innocente, nuoce all'impressione non proprio cattiva che lei per il resto dà. Dovrebbe avere poi anche più ritegno nel parlare, quasi tutto quello che lei ha detto prima lo si sarebbe potuto anche ricavare dal suo contegno, bastava dicesse solo un paio di parole, e del resto non era niente che le potesse giovare gran che».
K. fissò l'ispettore. Si lasciava fare la lezione da una persona magari più giovane di lui? Veniva punito con una sgridata per la sua franchezza? E non gli si diceva nulla sul motivo del suo arresto e su chi l'aveva ordinato? Lo prese una certa agitazione, cominciò ad andare in su e in giù senza che nessuno glielo impedisse, spinse indietro i polsini, si tastò il petto, si ravviò i capelli, passò davanti ai tre e disse: «È assurdo», al che quelli si volsero verso di lui e lo fissarono cortesi ma severi, e infine si arrestò di nuovo davanti al tavolo dell'ispettore. «Il procuratore Hasterer è un mio buon amico», disse, «posso telefonargli?». «Certo», disse l'ispettore, «ma non so che senso possa avere, a meno che lei non abbia da discutere con lui di qualche questione privata». «Che senso?», gridò K., più sorpreso che irritato. «Ma chi è lei? Pretende un senso e si comporta nel modo più insensato che ci sia. Roba da far piangere i sassi! Questi uomini mi hanno prima aggredito, e adesso se ne stanno seduti o girano qui intorno a guardarmi mentre lei mi fa scuola! Che senso avrebbe telefonare a un procuratore se, come si pretende, sono in arresto? Bene, non telefonerò». «Ma sì», disse l'ispettore, e con la mano fece un cenno verso l'anticamera dov'era il telefono, «prego, telefoni pure». «No, non voglio più», disse K., e andò verso la finestra. Di fronte, quei tre erano ancora alla finestra, e solo ora che K. si era accostato alla finestra parvero un po' disturbati nella loro tranquillità di spettatori. I due vecchi fecero per alzarsi, ma l'uomo dietro di loro li calmò. «Di là ci sono anche degli spettatori», gridò K. rivolto all'ispettore, e indicò fuori con l'indice. «Via di lì», gridò poi dall'altra parte della strada. I tre si ritrassero subito di qualche passo, i due vecchi addirittura dietro l'uomo che li copriva con il suo grosso corpo e, a giudicare dai movimenti della bocca, diceva qualcosa che la distanza rendeva incomprensibile. Ma non scomparvero del tutto, sembravano piuttosto aspettare il momento di potersi riaccostare inosservati alla finestra. «Razza d'indiscreti, maleducati», disse K., ritirandosi nella stanza. L'ispettore parve d'accordo, come K. credette di capire con un'occhiata in tralice. Ma era altrettanto possibile che non avesse prestato affatto attenzione, perché era lì che premeva una mano sul comodino e sembrava confrontare la lunghezza delle dita. Le due guardie sedevano su un baule coperto da un drappo ricamato e si sfregavano le ginocchia. I tre giovani, con le mani sui fianchi, si guardavano intorno sfaccendati. C'era silenzio, come in un ufficio abbandonato. «Bene, signori», esclamò K., e gli parve per un istante di portarseli tutti sulle spalle, «a vedervi si direbbe che la mia faccenda sia chiusa. Sono del parere che la cosa migliore sia non stare più a chiedersi se il vostro modo di procedere sia stato legittimo o illegittimo, e chiudere qui la cosa e riconciliarci con una stretta di mano. Se siete anche voi del mio parere, ecco qua...» e si avvicinò al tavolino dell'ispettore porgendogli la mano. L'ispettore levò gli occhi, si morse le labbra e guardò la mano che K. gli tendeva; e K. continuava a credere che l'ispettore avrebbe accettato la stretta. Ma quello si alzò, prese un cappello duro, tondo, che stava sul letto della signorina Bürstner, e se lo calzò con le due mani, delicatamente, come si fa quando si prova un cappello nuovo. «A lei sembra proprio tutto semplice!», disse a K., «chiudere qui la cosa e riconciliarci, è questo che intendeva? No, no, proprio impossibile. Con questo, peraltro, non voglio affatto dire che deve disperare. No, perché mai? Lei è solo in arresto, tutto qui. Questo è quanto dovevo comunicarle, l'ho fatto e ho anche visto come lei l'ha presa. E con questo per oggi basta, ci possiamo congedare, almeno per il momento. Immagino vorrà andare in banca adesso, no?». «In banca?», disse K., «pensavo di essere in arresto». Nella domanda di K. c'era un certo tono di sfida, perché, sebbene la sua stretta di mano non fosse stata accettata, si sentiva, specie da quando l'ispettore si era levato in piedi, sempre più indipendente da tutta quella gente. Era un gioco con loro. Se se ne fossero andati, aveva intenzione di corrergli dietro fin sul portone e offrirsi in arresto. Perciò ripeté: «Come posso andare in banca, se sono in arresto?». «Vedo che lei mi ha frainteso», disse l'ispettore, che già era vicino alla porta. «Lei è in arresto, certo, ma questo non deve impedirle di svolgere la sua professione. E nemmeno di mantenere le sue abitudini». «Allora lo stato d'arresto non è poi così male», disse K. avvicinandosi all'ispettore. «Non ho mai voluto dire altro», fece quello. «Ma allora, nemmeno capisco la necessità di notificarmi l'arresto», disse K., e si avvicinò ancora di più. Anche gli altri si erano avvicinati. Ora erano tutti radunati in uno spazio ristretto vicino alla porta. «Era mio dovere», disse l'ispettore. «Un dovere stupido», fece K. inflessibile. «Può darsi», rispose l'ispettore, «ma non staremo a perder tempo con questi discorsi. Avevo pensato che lei volesse andare in banca. Dato che lei sta a pesare ogni parola, aggiungo: non la costringo ad andare in banca, avevo solo pensato che volesse andarci. E per agevolarle la cosa, per far sì che il suo arrivo in banca passi il più possibile inosservato, le ho messo qui a disposizione questi tre signori, suoi colleghi». «Come?», esclamò K., e osservò stupito i tre. Questi tre giovani banali, esangui, che ricordava solo come gruppo nelle fotografie, erano veramente impiegati della banca, colleghi era dire troppo e rivelava una lacuna nell'onniscienza dell'ispettore, ma impiegati subalterni della banca comunque erano. Come aveva potuto sfuggirgli? Doveva esser stato ben occupato dall'ispettore e dalle guardie per non riconoscere quei tre! Il rigido Rabensteiner che agitava sempre le mani, il biondo Kullich con gli occhi infossati, e Kaminer con quel suo insopportabile sorriso dovuto a una contrazione muscolare cronica. «Buon giorno», disse K. dopo un istante di esitazione, porgendo la mano ai tre che fecero un inchino compito. «Non vi avevo proprio riconosciuti. Allora, si va a lavorare adesso, no?». I tre annuirono ridendo e, pieni di premura, come se non avessero aspettato altro per tutto il tempo, quando K. cercò il cappello rimasto in camera sua, si precipitarono a prenderlo, tutti insieme, uno dietro l'altro, lasciando intuire tuttavia così un certo imbarazzo. K. non si mosse e li seguì con lo sguardo attraverso le due porte aperte, ultimo era, naturalmente l'apatico Rabensteiner, che aveva appena accennato un elegante trotto. Kaminer gli porse il cappello e K. dovette esplicitamente dirsi, come del resto aveva spesso dovuto fare in banca, che il sorriso di Kaminer non era intenzionale, e che anzi sorridere di proposito non gli riusciva proprio. In anticamera la signora Grubach, che non sembrava affatto consapevole della sua colpa, aprì la porta d'ingresso a tutta la compagnia, e K. abbassò lo sguardo come molte altre volte sul nastro del suo grembiule che le solcava a fondo, del tutto inutilmente, il corpo poderoso. Una volta sotto, K., orologio in mano, decise di prendere un'automobile, per non accrescere inutilmente il ritardo che era già di mezz'ora. Kaminer corse all'angolo per prendere la vettura, gli altri due cercavano palesamente di distrarre K., quando Kullich all'improvviso indicò il portone di fronte in cui era appena apparso l'uomo alto con la barbetta bionda che, un po' imbarazzato, in un primo momento, di mostrarsi ora in tutta la sua statura, indietreggiò al muro e vi si appoggiò. I vecchi dovevano essere ancora sulle scale. K. s'irritò che Kullich gli facesse notare l'uomo che lui stesso aveva già visto prima, che anzi aveva addirittura aspettato. «Non guardi da quella parte!», proruppe, senza rendersi conto della stranezza di una tale ingiunzione rivolta a persone libere. Ma non fu nemmeno necessario un chiarimento, perché in quell'istante arrivò l'automobile, si sedettero e partirono. K. si ricordò allora di non avere notato quando l'ispettore e le guardie erano andati via, l'ispettore gli aveva nascosto i tre impiegati e adesso, a loro volta, gli impiegati l'ispettore. Non era prova di grande presenza di spirito, e K. si propose di sorvegliarsi meglio a questo riguardo. Tuttavia si volse ancora involontariamente all'indietro e si sporse dall'automobile, se mai riuscisse a vedere ancora l'ispettore e le guardie. Ma subito si rigirò e si appoggiò comodamente nell'angolo, senza aver fatto nemmeno il tentativo di cercare qualcuno. Sebbene non paresse, proprio ora avrebbe avuto bisogno di una parola di conforto, ma tutti sembravano stanchi, Rabensteiner guardava fuori a destra, Kullich a sinistra, solo Kaminer era a disposizione con il suo ghigno su cui, purtroppo, la pietà umana impediva di scherzare.
Quella primavera K. passava le serate quasi sempre allo stesso modo; dopo il lavoro, quando la cosa era ancora possibile - il più delle volte rimaneva in ufficio fino alle nove - faceva una piccola passeggiata da solo o con degli impiegati, poi entrava in una birreria e vi si tratteneva fino alle undici seduto al suo tavolo abituale in compagnia di altri clienti, per lo più anziani. C'erano però anche delle eccezioni a questo programma, quando K., per esempio, veniva invitato a una gita in macchina o a cena nella sua villa dal direttore della banca, che stimava molto le sue capacità e la sua fidatezza. Una volta la settimana, poi, andava da una ragazza di nome Elsa, che di notte, fino alla tarda mattinata, lavorava come cameriera in un'osteria e di giorno riceveva visite solo stando a letto.
Quella sera però - la giornata era trascorsa veloce tra il lavoro faticoso e molti auguri di compleanno, rispettosi e cordiali - K. intendeva rientrare subito a casa. Ci aveva pensato in ogni breve pausa del lavoro; senza sapere esattamente il perché, gli pareva che gli avvenimenti del mattino avessero causato un gran disordine in tutto l'appartamento della signora Grubach, e che fosse necessario proprio lui per ristabilire l'ordine. Ma una volta fatto ordine, ogni traccia di quegli avvenimenti sarebbe stata cancellata e tutto avrebbe ripreso il vecchio andamento. Dai tre impiegati, in particolare, non c'era niente da temere, si erano confusi nuovamente nella marea impiegatizia, non si notava nessun cambiamento in loro. K. li aveva chiamati più volte, singolarmente o insieme, nel suo ufficio, senz'altro scopo che di osservarli; ogni volta aveva potuto lasciarli andare soddisfatto.
Quando alle nove e mezzo di sera giunse davanti alla casa in cui abitava, incontrò sul portone un ragazzo che se ne stava lì a gambe larghe e fumava la pipa. «Lei chi è?», chiese subito K. e accostò il viso al ragazzo, nella penombra dell'androne non si riusciva a vedere molto. «Sono il figlio del portiere, signore», rispose il ragazzo, si tolse la pipa di bocca e si fece da parte. «Il figlio del portiere?», chiese K., battendo impazientemente a terra con il bastone. «Il signore desidera qualcosa? Devo andare a chiamare mio padre?». «No, no», disse K., e nella sua voce c'era un tono d'indulgenza, come se il ragazzo avesse fatto qualcosa di male ma lui lo perdonasse. «Tutto bene», disse poi, e proseguì, ma prima di prendere le scale, si girò ancora una volta.
Sarebbe potuto andare dritto in camera sua, ma poiché voleva parlare con la signora Grubach, bussò subito alla sua porta. Lei stava rammendando una calza di lana seduta al tavolo, su cui c'era ancora un mucchio di vecchie calze. K. si scusò in tono vago di essere venuto così tardi, ma la signora Grubach fu molto gentile e non volle sentire scuse, per lui era disponibile in qualsiasi momento, sapeva bene, lui, di essere il suo inquilino preferito. K. si guardò attorno nella stanza, tutto era tornato esattamente come sempre, tazze e piattini della colazione, che al mattino erano sul tavolino vicino alla finestra, erano già stati portati via. «Cosa non fanno le mani di una donna senza che tu neanche te ne accorga», pensò, lui sarebbe stato capace di rompere tutto sul posto, non certo di portarli via. Guardò la signora Grubach con una certa gratitudine. «Perché lavora ancora a quest'ora?», chiese. Sedevano ora tutti e due al tavolo, e K. affondava di tanto in tanto la mano nelle calze. «C'è molto lavoro», disse lei, «di giorno sono tutta per i miei inquilini, se voglio tenere in ordine le mie cose non mi resta che la sera». «Oggi le ho dato del lavoro in aggiunta, vero?». «E perché?» chiese quella animandosi, il lavoro abbandonato in grembo. «Voglio dire quella gente che è stata qui stamattina». «Ah», fece l'altra e si rimise tranquilla, «no, non mi hanno dato un lavoro particolare». K. la guardò mentre riprendeva la sua calza. Sembra stupirsi che io ne parli, pensò, come se ritenesse sbagliato che io ne parli. A maggior ragione devo farlo. Posso parlarne solo con una donna anziana. «Sì che le abbiamo dato del lavoro», disse poi, «ma non succederà più». «No, non potrà succedere più», confermò lei e rivolse a K. un sorriso quasi malinconico. «Lo crede seriamente?», chiese K. «Sì», rispose lei abbassando la voce, «ma innanzi tutto lei non se la prenda troppo. Cosa non succede a questo mondo! Dal momento che lei mi parla con tanta confidenza, signor K., posso confessarle che ho un po' origliato dietro la porta e che le due guardie hanno raccontato qualcosa anche a me. Insomma, si tratta della sua felicità, e questa mi sta a cuore, più di quanto, forse, mi competa, in fondo non sono che l'affittacamere. Qualcosa ho sentito, dunque, ma non posso dire che fosse qualcosa di particolarmente brutto. No. Lei è in arresto, certo, ma non in arresto come un ladro. Se uno viene arrestato come un ladro, allora sì che è brutto, ma questo arresto... Mi sembra qualcosa da gente istruita, mi scusi se dico una sciocchezza, una cosa da gente istruita, che io non capisco, ma che nemmeno si è tenuti a capire».
«Non è affatto stupido quel che ha detto, signora Grubach, io almeno sono in parte del suo avviso, solo che giudico tutta la faccenda più drasticamente di lei, e non la prendo nemmeno per una cosa da gente istruita, bensì per un bel niente. Sono stato colto di sorpresa, ecco cosa. Se mi fossi alzato appena sveglio, senza lasciarmi confondere per il fatto che Anna non si era ancora vista, e fossi venuto da lei senza curarmi di chi mi avesse sbarrato il passo, se per questa volta, in via eccezionale, avessi magari fatto colazione in cucina, se avessi mandato lei a prendermi gli abiti in camera mia, insomma, se avessi agito in modo ragionevole, non sarebbe successo nient'altro, tutto sarebbe morto e finito lì. Ma si è così poco preparati. In banca, per esempio, sono preparato, una cosa del genere là non mi potrebbe succedere, là ho un mio usciere personale, sul tavolo davanti a me c'è il telefono esterno e interno, arriva continuamente gente, clienti e impiegati, ma soprattutto poi sono sempre applicato al lavoro, quindi ho tutta la mia presenza di spirito, là mi farebbe addirittura piacere essere messo di fronte a una cosa del genere. Beh, ora è passata, e veramente non volevo nemmeno più parlarne, volevo solo sentire il suo giudizio, il giudizio di una donna di buon senso, e sono proprio contento che ci troviamo d'accordo. Ora deve darmi la mano, questo nostro accordo ha da essere confermato da una stretta di mano».
Mi darà la mano? L'ispettore non mi ha dato la mano, pensò e guardò la donna in modo diverso da prima, scrutandola. Lei si alzò, perché anche lui si era alzato, aveva l'aria leggermente imbarazzata, perché non tutto quello che K. le aveva detto le era riuscito comprensibile. Ma proprio per questo imbarazzo disse una cosa che altrimenti non avrebbe voluto dire e che non cadeva nemmeno a proposito: «Non se la prenda tanto, signor K.», fece, con le lacrime nella voce, e naturalmente dimenticò anche la stretta di mano. «Non direi che me la sto prendendo», disse K., improvvisamente stanco, rendendosi conto di quanto fosse inutile ogni consenso della donna.
Sulla porta chiese ancora: «La signorina Bürstner è in casa?». «No», disse la signora Grubach, e nel dare quest'asciutta informazione sorrise con tardiva, ragionevole partecipazione. «È a teatro. Voleva qualcosa da lei? Devo riferirle qualcosa?». «Oh, volevo solo scambiare due parole con lei». «Purtroppo non so quando torna; quando va a teatro di solito rientra tardi». «Fa lo stesso», disse K., e già si voltava a testa bassa verso la porta per andarsene, «volevo solo scusarmi con lei per aver approfittato oggi della sua stanza». «Non è necessario, signor K., lei si fa troppi scrupoli, la signorina del resto non sa niente, non era più in casa fin dal mattino presto, e poi è già tutto rimesso in ordine, guardi lei stesso». E aprì la porta della stanza della signorina Bürstner. «Grazie, le credo», disse K., ma poi andò ugualmente alla porta aperta. La luna splendeva quieta nella stanza buia. Per quanto si poteva vedere, ogni cosa era davvero al suo posto, anche la camicetta non era più appesa alla maniglia della finestra. Illuminati in parte dal chiaro di luna, i cuscini sul letto sembravano stranamente alti. «La signorina rientra spesso tardi», disse K., e guardò la signora Grubach come se ne fosse responsabile lei. «Sa come sono i giovani», fece quella a mo' di scusa. «Certo, certo», disse K., «ma a volte si esagera». «Proprio così», disse la signora Grubach, «quanto ha ragione, signor K. Persino in questo caso, forse. Non voglio certo dire male della signorina Bürstner, è una cara ragazza, buona, gentile, ordinata, puntuale, lavoratrice, tutte cose che apprezzo molto, ma una cosa è vera, dovrebbe avere più orgoglio, star più sulle sue. Questo mese l'ho già vista due volte in strade fuori mano e sempre con un uomo diverso. Me ne dispiace proprio, lo racconto solo a lei, signor K., quanto è vero iddio, ma sarà inevitabile che ne parli anche con la signorina stessa. Del resto, non è solo questo che me la rende sospetta». «Lei è su una strada sbagliata», disse K. furibondo e incapace di nasconderlo, «evidentemente, poi, ha frainteso anche la mia osservazione sulla signorina, non la intendevo così. Anzi, la metto in guardia, senza scherzi, dal dire qualcosa alla signorina, lei si sbaglia assolutamente, conosco molto bene la signorina, non c'è niente di vero in quello che ha detto. Ma forse esagero, non la voglio trattenere, le dica quel che le pare. Buona notte». «Signor K.», implorò la signora Grubach, e lo inseguì fino alla porta della sua stanza che lui aveva già aperto, «non intendo affatto parlare con la signorina, è chiaro che prima la voglio osservare ancora, solo a lei ho confidato quel che sapevo. In fin dei conti, se uno cerca di mantenere pulita la pensione, è nell'interesse di tutti gli inquilini, ed è di questo che mi preoccupo, nient'altro». «La pulizia!», esclamò ancora K. attraverso lo spiraglio della porta, «se lei vuol mantenere pulita la pensione, il primo che deve mandar via sono io». Poi sbatté la porta e non prestò più ascolto a un leggero bussare.
Decise invece, dato che non aveva nessuna voglia di dormire, di rimanere ancora sveglio, approfittandone per vedere a che ora sarebbe rientrata la signorina Bürstner. Così sarebbe stato magari anche possibile, per quanto sconveniente, scambiare qualche parola con lei. Mentre stava alla finestra con gli occhi che gli si chiudevano dal sonno, per un istante pensò addirittura di punire la signora Grubach convincendo la signorina Bürstner ad andarsene insieme a lui. Ma subito questo gli parve terribilmente esagerato, e gli venne persino il sospetto che il suo proposito di cambiare casa fosse dovuto ai fatti del mattino. Niente sarebbe stato più insensato, soprattutto più inutile e vile.
Quando fu stufo di guardare giù nella strada vuota, si sdraiò sul divano, dopo aver socchiuso la porta che dava sull'anticamera per poter vedere, anche da dove si trovava, chiunque entrasse in casa. Fino alle undici circa rimase sdraiato tranquillo sul divano fumando un sigaro. Ma poi non resistette più fermo, e andò un po' in anticamera, come se potesse così affrettare l'arrivo della signorina Bürstner. Non che la desiderasse particolarmente, non riusciva nemmeno a ricordarsi bene che aspetto aveva, ma adesso voleva parlare con lei e lo irritava che, con il suo ritardo, avesse portato agitazione e disordine anche sul finire di quella giornata. Era anche colpa sua se lui non aveva cenato e aveva tralasciato il proposito di far visita a Elsa. Poteva, d'altra parte, recuperare ancora l'una e l'altra cosa andando adesso nel locale dove Elsa prestava servizio. L'avrebbe fatto anche più tardi, dopo aver parlato con la signorina Bürstner.
Erano le undici e mezzo passate quando si sentì qualcuno per le scale. K., che tutto immerso nei suoi pensieri camminava rumorosamente su e giù per l'anticamera come se fosse in camera sua, se la filò dietro la sua porta. Era la signorina Bürstner che rientrava. Mentre chiudeva con il chiavistello la porta, si tirò rabbrividendo uno scialle di seta intorno alle esili spalle. Un istante dopo sarebbe entrata in camera sua, dove K., a mezzanotte, non avrebbe certo potuto introdursi; doveva dunque rivolgerle la parola adesso, ma sfortunatamente aveva dimenticato di accendere la luce elettrica in camera sua, e il venir fuori dalla camera buia sarebbe parso un'aggressione, quanto meno l'avrebbe spaventata molto. Non sapendo che partito prendere, e poiché non c'era tempo da perdere, sussurrò dallo spiraglio della porta: «Signorina Bürstner». Suonava come una preghiera, non un richiamo. «Chi c'è?», chiese la signorina Bürstner guardandosi attorno con gli occhi spalancati. «Sono io», disse K. facendosi avanti. «Ah, signor K.!», disse la signorina Bürstner sorridendo. «Buona sera», e gli porse la mano. «Volevo scambiare due parole con lei adesso, me lo permette?». «Adesso?» chiese la signorina Bürstner, «proprio adesso? È un po' strano, non le pare?». «La sto aspettando dalle nove». «Beh, ero a teatro, non sapevo niente di lei». «Quanto intendo dirle è in relazione a qualcosa che è accaduto solo oggi». «Capisco, non ho niente in contrario, solo che crollo dalla stanchezza. Su, venga un minuto in camera mia. Qui non potremmo in ogni caso parlare, sveglieremmo tutti e mi spiacerebbe più per noi che per loro. Aspetti qui finché ho acceso in camera mia, poi spenga la luce qui». K. obbedì, ma attese poi che la signorina Bürstner, dalla sua camera, lo invitasse ancora una volta, sottovoce, a entrare. «Si sieda», disse indicandogli l'ottomana, lei però rimase in piedi appoggiata alla testiera del letto, malgrado la stanchezza di cui aveva parlato; e nemmeno si tolse il cappello, piccolo ma ornato da una quantità di fiori. «Allora, che cosa voleva? Sono veramente curiosa». Incrociò appena le gambe. «Lei mi dirà forse», incominciò K., «che la cosa non era poi così urgente, ma...». «Io non bado mai ai preamboli», disse la signorina Bürstner. «Questo mi facilita il compito», disse K. «Stamattina la sua camera, in certo modo per colpa mia, è stata messa un po' in disordine, sono stati degli estranei, contro la mia volontà e tuttavia, come ho detto, per colpa mia; volevo chiederle scusa di questo». «La mia camera?», chiese la signorina Bürstner, esaminando con lo sguardo K. invece della stanza. «Proprio così», disse K., e per la prima volta ora si guardarono negli occhi, «di come sono andate le cose non vale la pena parlare». «Ma se è la cosa più interessante», disse la signorina Bürstner. «No», disse K. «Bene», fece la signorina Bürstner, «non voglio immischiarmi in segreti, dal momento che lei insiste a dire che la cosa non è interessante, non sarò io a fare obiezioni. La scuso volentieri, visto che è questo che chiede, tanto più che non vedo traccia di disordine». Fece un giro per la stanza, le mani piatte sui fianchi. Arrivata alla stuoia con le fotografie si fermò. «Eh no, guardi!», esclamò. «Le mie fotografie sono state davvero buttate all'aria. Che cosa spiacevole. Dunque qualcuno è entrato in camera senza averne il permesso». K. annuì, maledicendo in silenzio l'impiegato Kaminer, che non era mai capace di tenere a bada la sua fastidiosa, stupida esuberanza. «È strano poi», disse la signorina Bürstner, «che mi veda costretta a proibirle qualcosa che lei dovrebbe impedirsi da sé, entrare cioè in camera mia durante la mia assenza». «Le stavo appunto spiegando, signorina», disse K., avvicinandosi anche lui alle fotografie, «che non sono stato io a toccare le sue fotografie; ma visto che lei non mi crede, devo ammettere che la commissione d'inchiesta ha portato con sé tre impiegati della banca; è stato probabilmente uno di loro, che alla prima occasione caccerò via dalla banca, a prendere in mano le sue fotografie. Già, è stata qui una commissione d'inchiesta», aggiunse K., a un'occhiata interrogativa della signorina. «Per lei?», chiese la signorina. «Sì», rispose K. «No!», esclamò la signorina ridendo. «Sì, le dico», fece K., «lei crede che sono innocente?». «Beh, innocente...», disse la signorina, «non voglio esprimere subito un giudizio che potrebbe avere gravi conseguenze, e poi io non la conosco, ma uno dev'essere un gran delinquente se gli mettono subito alle calcagna una commissione d'inchiesta. Ma visto che lei è libero - deduco almeno dalla sua calma che non è scappato dalla prigione - non può certo aver commesso un gran delitto». «Sì», disse K., «ma la commissione d'inchiesta può aver riconosciuto che sono innocente, o almeno non così colpevole come si era creduto». «È possibile, certo», disse la signorina Bürstner molto attenta. «Vede», disse K., «lei non ha molta esperienza in materia giudiziaria». «No, non ne ho», disse la signorina Bürstner, «e me ne sono spesso dispiaciuta, perché vorrei sapere tutto, e proprio la materia giudiziaria mi interessa enormemente. Il tribunale ha un fascino singolare, vero? Ma completerò senz'altro le mie cognizioni in questo campo, perché il mese prossimo entrerò nella segreteria di uno studio legale». «Benissimo», disse K, «così mi potrà aiutare un po' nel mio processo». «Può darsi», disse la signorina Bürstner, «perché no? Mi fa piacere mettere in pratica le mie cognizioni». «Dico sul serio», fece K., «o almeno, come lei, a metà sul serio. Per consultare un avvocato, è cosa troppo da poco, ma potrei aver bisogno di qualcuno che mi consigliasse». «Sì, ma se devo essere io a consigliarla, dovrei sapere di che si tratta», disse la signorina Bürstner. «Questo è il guaio», disse K., «non lo so nemmeno io». «Ma allora lei mi ha preso in giro», disse la signorina Bürstner, profondamente delusa, «non c'era proprio bisogno di scegliere quest'ora della notte per farlo». E si allontanò dalle fotografie davanti alle quali erano rimasti in piedi tutto il tempo, vicini. «Ma no, signorina», disse K., «non scherzo. Perché non vuole credermi? Quel che so gliel'ho già detto. Persino più di quel che so, dal momento che non era affatto una commissione d'inchiesta, la chiamo io così, perché non so che altro nome darle. Non c'è stata nessuna inchiesta, sono stato solo arrestato, comunque da una commissione». La signorina Bürstner, ora seduta sull'ottomana, rise di nuovo. «Com'è stato?», chiese. «Terribile», disse K., ma ora non ci pensava più, tutto preso com'era dalla vista della signorina Bürstner, che appoggiava il viso su una mano - il gomito era puntato sul cuscino dell'ottomana - mentre con l'altra si accarezzava lentamente il fianco. «Troppo vago», disse la signorina Bürstner. «Che cosa è troppo vago?» chiese K. Poi si ricordò e chiese: «Devo farle vedere come è andata?». Voleva muoversi, ma non andarsene via. «Sono stanca», disse la signorina Bürstner. «È rientrata così tardi», disse K. «Adesso va a finire che mi prendo dei rimproveri, e mi sta bene, perché non avrei più dovuto farla entrare. Del resto si è visto, non era nemmeno necessario». «Era necessario, lo vedrà adesso», disse K. «Posso spostare il suo comodino dal letto?». «Che cosa le salta in mente?» disse la signorina Bürstner. «No che non può!». «Allora non posso farle vedere», disse K. risentito come se gli avessero inflitto un danno incalcolabile. «E va bene, se ne ha bisogno per la sua rappresentazione, sposti pure tranquillamente il comodino», disse la signorina Bürstner, aggiungendo dopo un istante con voce più fievole: «Sono così stanca che permetto più di quanto dovrei». K. portò il comodino in mezzo alla stanza e si sedette dietro. «Lei deve immaginarsi con esattezza com'erano distribuiti i personaggi: io sono l'ispettore, là sul baule sono sedute due guardie, vicino alle fotografie stanno tre giovani. Alla maniglia della finestra è appesa, lo dico per inciso, una camicetta bianca. E adesso comincia. Ah, dimenticavo me stesso. Il personaggio più importante, cioè io, sto qui davanti al comodino. L'ispettore è seduto molto comodamente, le gambe accavallate, il braccio penzoloni qui dalla spalliera, uno zotico unico. E adesso comincia davvero. L'ispettore chiama come se mi dovesse svegliare, grida addirittura, purtroppo devo gridare a mia volta se voglio far capire anche a lei, del resto è solo il mio nome che lui grida così». La signorina Bürstner, che ascoltava ridendo, portò l'indice alla bocca per impedire a K. di gridare, ma era troppo tardi. K. era troppo compreso nella parte, gridò lentamente: «Josef K.!», non così forte come aveva minacciato, tuttavia in modo tale che il grido, una volta emesso d'improvviso, parve diffondersi solo a poco a poco nella stanza.
A quel punto si sentì picchiare alla porta della stanza accanto, colpi forti, brevi e regolari. La signorina Bürstner impallidì portandosi la mano al cuore. K. si prese uno spavento tanto più forte in quanto per un poco era stato incapace di pensare ad altro che agli avvenimenti del mattino e alla ragazza a cui li stava rappresentando. Appena si fu ripreso, balzò verso la signorina e le prese la mano. «Non abbia paura», sussurrò, «metterò a posto ogni cosa. Ma chi può essere? Qui accanto c'è il soggiorno, e non ci dorme nessuno». «Sì, invece», sussurrò la signorina Bürstner all'orecchio di K., «da ieri ci dorme un nipote della signora Grubach, un capitano. Non c'è nessun'altra stanza libera. L'avevo dimenticato anch'io. Doveva proprio gridare così! Quanto mi secca». «Non ce n'è motivo», disse K., e quando lei si lasciò ricadere sui cuscini, le baciò la fronte. «Via, via», disse lei rialzandosi in fretta, «vada via, vada via, ma cosa vuole, quello sta origliando alla porta, sente tutto. Non mi tormenti così!». «Non me ne vado», disse K., «se lei prima non si è calmata un po'. Venga nell'altro angolo della stanza, lì quello non ci potrà sentire». Lei si lasciò condurre. «Ci rifletta», disse K. «Questo per lei può essere una seccatura, ma certo non un pericolo. In queste cose chi decide è la signora Grubach, e lei sa che per me ha una sorta di venerazione e crede assolutamente a tutto quello che dico. Per di più, mi è molto obbligata, anche perché le ho prestato una discreta somma. Accetto ogni sua proposta per spiegare il nostro incontro, basta che abbia un minimo di pertinenza, e garantisco di convincere la signora Grubach a credere a questa spiegazione non solo davanti agli altri, ma veramente e con sincerità. Per me non deve avere alcun riguardo. Se vuole che si creda in giro che l'ho aggredita, parlerò alla signora Grubach in tal senso e lei lo crederà senza perdere la fiducia in me, tanto mi è affezionata». La signorina Bürstner guardava in terra davanti a sé, in silenzio e un po' abbattuta. «Perché la signora Grubach non dovrebbe credere che l'ho aggredita?», aggiunse K. Vedeva davanti a sé i suoi capelli rossicci, divisi da una scriminatura, gonfi in basso e raccolti ben stretti. Credeva che avrebbe rivolto lo sguardo verso di lui, invece, senza cambiare posizione, disse: «Mi scusi, sono stati i colpi improvvisi alla porta che mi hanno così spaventata, non tanto le conseguenze che potrebbe avere la presenza del capitano. C'era un tale silenzio dopo il suo grido, poi subito hanno bussato, ecco perché mi sono spaventata tanto, e poi ero vicino alla porta, hanno bussato quasi accanto a me. La ringrazio per le sue proposte, ma non le accetto. Posso assumere la responsabilità, di fronte a chiunque, di tutto quello che succede nella mia stanza. Mi meraviglio che non si accorga di quanto ci sia d'offensivo per me nelle sue proposte, a parte naturalmente le buone intenzioni, che le riconosco senz'altro. Ma ora vada, mi lasci sola, adesso ne ho ancora più bisogno di prima. I pochi minuti che lei mi ha chiesto, sono diventati mezz'ora e più». K. le prese la mano e poi il polso: «Però non è arrabbiata con me?», disse. Lei si liberò della sua mano e rispose: «No, non mi arrabbio mai, con nessuno». Lui la prese di nuovo per il polso, lei lo lasciò fare e lo condusse così alla porta. Era fermamente deciso ad andarsene. Ma davanti alla porta, come se non si fosse aspettato di trovare qui una porta, si arrestò, la signorina Bürstner approfittò del momento per svincolarsi, aprire la porta, scivolare in anticamera e da lì dire sottovoce a K.: «Su, venga, per favore. Vede», e indicò la porta del capitano, da sotto la quale usciva uno spiraglio di luce, «ha acceso e adesso si diverte alle nostre spalle». «Vengo», disse K., corse avanti, l'afferrò, la baciò sulla bocca e poi su tutto il viso, come un animale assetato che si getta con la lingua sulla sorgente finalmente scovata. Alla fine la baciò sul collo, alla gola, e lì tenne a lungo le labbra. Un rumore dalla stanza del capitano gli fece alzare gli occhi. «Ora vado», disse, volle chiamare la signorina Bürstner con il nome di battesimo, ma non lo sapeva. Lei annuì stanca, già a metà voltata gli lasciò la mano da baciare, come se non ne sapesse nulla, ed entrò curva in camera sua. Poco dopo K. era a letto. Si addormentò quasi subito, prima di addormentarsi ripensò ancora un momento a come si era comportato, ne fu soddisfatto, ma si meravigliò di non essere ancora più soddisfatto; a causa del capitano era seriamente preoccupato per la signorina Bürstner.

FRANZ KAFKA
TRADUZIONE DI CLARA MORENA

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