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sabato 21 gennaio 2012

Naufragio - Leon Battista Alberti



Trecento omini eravamo in una nave ben fornita e salda. Navicavamo colle vele piene tutti iocosi verso el porto quale già innanti ne appariva. Alcuni di noi, e in prima una fanciulla molto dilicata quale fra noi sposa andava alle nozze apparecchiateli dal suo marito, si vestiva e adornava con panni e gemme; e fra noi compagni erano chi constituiva la sera e l’altro dì avere in quel porto molto piacere in cene e in feste, e così tutta la nave brulicava di letizia in questi apparecchi. O fragile speranza de’ mortali! Per grave e atrocissima tempesta quale ruppe subito, mutati e’ venti, con troppa nostra miseria fu suvvertita la nave in modo che di tanta moltitudine solo omini tre rimaseno in vita, io, quella fanciulla sposa e un barbero servo. Cosa maravigliosa e incredibile! Qual fusse fato non so, ma suvversa la nave, noi tre ci trovammo reposti presso alla poppe della nave in luogo non bene atto a riceverene perché era picciolo e ancora perché era pieno di ferramenti lì riposti al bisogno della nave. Adonque ivi non potevamo bene stare senza ricevere qualche ferita da que’ ferri, e più eravamo summersi tutte le spalle in l’acqua quale conveniva pelle fessure della nave tutta dalla tempesta quassata e aperta. E a queste difficultà vi s’agiungeva che spesso per el comuoversi della nave picciata dall’onde l’uno di noi urteggiava l’altro. Adunque miseri noi, molli e premendo l’un l’altro e ricevendo or una or un’altra tagliatura e puntura da que’ ferri, sofferavàno tuttora presente la morte. Pur la necessità a noi facea parere questo così sinestro luogo grato e assai troppo grande. Per questo pregavamo Dio almeno ivi ne fusse licito sperare qualche salute, e fra noi confortavamo l’un l’altro promettendoci men rea fortuna, ma d’uscire di tanta molestia per allora non era che aspettare a noi né che consigliarci. Né intendevamo dove in tanto mare fossimo traportati, e questo ne parea ottimo per allora quanto potavamo sopra l’acqua con tutto el capo alitare. In quale nostro misero stato, oimè, e quante morte vedevamo noi! Ogni onda veniva con nostro eccidio. Pur mai, cosa maravigliosa, mai in tanti pericoli la speranza abandonò l’animo nostro, né mai l’animo mancò a sé stessi. Sempre fummo in questa fortitudine che sempre ne promettavamo qualche bene. E a me, qual credea mai più potere rivedere questo sole e questa luce, tornava in mente quello che dicono e’ poeti che, quando gli altri dii salirono el cielo, solo la Speranza rimase a fare compagnia a’ mortali posti in miseria e oppressi dalle calamità. E così sola questa dea a noi infelicissimi era propizia, né ci lasciava soccombere a tanti mali.Con lei durammo molte e molte ore per sino che ’l mare cominciò a meno esser aspero, onde questo luogo ove eramo inchiusi meno divenne acquoso. Non potavamo però pigliar modo di torci indi altrove, però che la nave era suvversa e piena d’acqua. Pur cominciammo a riaverci un poco, e nettammo el luogo da tanti ferri e gittammoli in molta parte fuori. Poi intenti pelle fessure guardavamo se da parte alcuna ne si presentasse alcun lito, e in questo guardare ogni onda che verso noi venia c’impauriva a morte. Parseci vedere qualche monte a lungi; quinci in noi nacque tanto desiderio di condurci in terra che fra tante molestie questa fu la maggiore, e dove testé sommersi in acqua sino al mento non più credavamo che solo potere respirare, ora da quello ultimo pericolo liberi non potavamo patire le veste indosso molli. Nudammoci in molta parte, e in quella fortuna perduto ogni cosa lodavamo Idio che avamo da potere assederci benché maldestri. Sarebbe istoria lunga raccontare quante varie memorie e ragionamenti nei nostri animi e fra noi in quello spazio soveniano. Eravi el dolore delle cose perdute, eravi la letizia della già presso veduta terra, eravi speranza insieme e paura d’ogni cosa futura, tale che quasi eravamo alieni e fuori d’ogni nostra mente. Conferivavi la lunga vigilia, el digiuno, el freddo, per quali eravamo si può dire spacciati, tale che ciascuno di noi e pe’ suoi mali e per la misericordia de’ compagni posti in simile calamità nulla quasi potavam di noi stessi.
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