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sabato 26 febbraio 2011

Prometeo incatenato

di Eschilo
traduzione di Ettore Romagnoli

PERSONAGGI:

POTERE
FORZA
Efèsto
Promèteo
CORO di Ninfe Ocèanine
IO
Ermète

Una giogaia d'aspre cime inaccessibili della Scizia.

PROLOGO
(Si avanzano Potere e Forza, tenendo stretto Promèteo. Li segue Efèsto.
Sostano dinanzi ad una scabra erta rupe)
POTERE:
Agli estremi confini eccoci giunti
già della terra, in un deserto impervio
tramite de la Scizia. Ed ora, Efèsto,
compier tu devi gli ordini che il padre
a te commise: a queste rupi eccelse
entro catene adamantine stringere
quest'empio, in ceppi che non mai si frangano:
ch'esso il tuo fiore, il folgorio del fuoco
padre d'ogni arte, t'involò, lo diede
ai mortali. Ai Celesti ora la pena
paghi di questa frodolenza, e apprenda
a rispettar la signoria di Giove,
a desister dal troppo amor degli uomini.
Efèsto:
Forza, Potere, gli ordini di Giove
già compiuti per voi furono; e nulla
piú vi trattiene. Ma legare a forza
su questo abisso procelloso un Nume
ch'è del mio sangue, non mi regge il cuore.
E forza è pure che mi regga. Gli ordini
trasandare del padre, è dura prova.
Oh di Tèmide giusta audace figlio,
malgrado tuo, malgrado mio, con bronzei
ceppi, che niuno a scioglier valga, a queste
cime deserte io ti configgerò,
dove né voce udrai, né forma d'uomo
vedrai: del sole arso a la fiamma rutila,
tramuterai de la tua cute il fiore:
a tuo sollievo asconderà la notte
con lo stellato suo manto la luce,
ed ecco il sole dissipa di nuovo
la mattutina brina. E col suo peso
il mal presente ognor ti crucierà:
ché non ancor chi ti soccorra è nato.
Dell'amor pei mortali è questo il frutto.
Poiché senza temer l'ira dei Numi,
Nume tu stesso, indebiti favori
agli umani largisti. Ora, in compenso,
vegliar dovrai questa dogliosa rupe,
senza mai sonno, in pie', senza mai flettere
le tue ginocchia, e cento ululi e gemiti
invano leverai: ché il cuor di Giove
nessuna prece lo commuove; ed aspro
è ciascun che di fresco ebbe il potere.
POTERE:
Ehi, nel compianto indugi? È vano! Il Nume
infestissimo ai Numi non aborri
che il privilegio tuo concesse agli uomini?
Efèsto:
Parentela, amicizia, han gran potere!
POTERE:
Certo. Ma trasgredir del padre gli ordini
si può? Non hai maggior tema di questo?
Efèsto:
Spietato sempre e tracotante sei!
POTERE:
Che medela è il compianto? Or vana pena
non ti dare per ciò che nulla giova!
Efèsto:
Oh magisterio mio troppo odïoso!
POTERE:
Tu l'odi? E perché mai?... Di queste pene
in verità, nessuna colpa ha l'arte.
Efèsto:
Pur, quest'arte l'avesse altri in retaggio!
POTERE:
Gravoso è tutto, tranne aver dei Superi
l'impero; e niuno, tranne Giove, è libero.
Efèsto:
Ne ho qui le prove. E nulla ho da ribattere.
POTERE:
Spàcciati, dunque, avvolgilo di ceppi,
ché nell'indugio non ti scorga il padre.
Efèsto:
Scorger gli anelli puoi nelle mie mani.
POTERE:
Con vigore con forza ai polsi strettolo,
picchia il martello, ed alla rupe inchiodalo.
Efèsto:
Compiuta è l'opra, e non caduta in fallo.
POTERE:
Batti di piú, non allentare, stringi:
anche d'impervie strade il passo ei trova.
Efèsto:
Questo braccio è saldato, e niun lo scioglie.
POTERE:
Saldo configgi l'altro, ora: ed apprenda
quanto egli a Giove di scaltrezza cede.
Efèsto:
Niuno, tranne costui, potria riprendermi.
POTERE:
Da parte a parte, in sen, di ferreo cuneo
la fiera punta forte ora conficcagli.
Efèsto:
Ahimè! Dei mali tuoi gemo, Promèteo!
POTERE:
Indugi ancora? Sui nemici piangi
di Giove? Oh!, che su te non debba piangere!
Efèsto:
Guarda, orrendo a mirare uno spettacolo!
POTERE:
Veggo costui patir ciò ch'egli merita.
Gittagli intorno ai fianchi ora i legami.
Efèsto:
Lo debbo far. Ma tu non dar troppi ordini!
POTERE:
Ordinerò, t'incalzerò per giunta:
scendi giú, forte ora le gambe accerchiagli.
Efèsto:
Fatto è ancor questo. E fu travaglio breve.
POTERE:
Dei ceppi i chiodi saldo ora ribatti:
severo è quegli che la pena infligge.
Efèsto:
Simile al viso tuo suona la voce.
POTERE:
Sii pur tenero, tu. Ma la protervia,
l'ira, l'asprezza mia, non rampognarmi.
Efèsto:
Andiam: ché tutto di catene è cinto.
POTERE (Si volge a Promèteo):
Superbisci ora qui. Trafuga ai Numi
i loro doni, ed offrili agli efimeri.
Allevïare in che ti posson gli uomini
or dalle pene? I Dèmoni, Promèteo
ti chiamarono a torto: hai bisogno
d'un preveggente a uscir da questo intrico.
(Efèsto, Potere e Forza si allontanano)
Promèteo:
O divo ètere, o snelle ali dei venti,
fonti dei fiumi, e dei marini flutti
infinito sorriso, e te, che madre
sei d'ogni cosa, o Terra, invoco, e te,
che tutto miri, orbe del Sol! Vedete
ciò ch'io, Celeste, dai Celesti soffro!
Or vedete da quali travagli
lanïato, per mille e mille anni
patirò. Tali turpi catene
a mio danno rinvenne il novello
Signor dei Celesti.
Ahimè, ahi!, dell'affanno presente,
del venturo io mi lagno. Deh!, quando
sarà l'ora che il termine segni
di questi tormenti?
Ma via, che dico? A parte a parte tutto
ciò che sarà, prevedo; e non può giungermi
niun cordoglio imprevisto. Adesso il fato,
meglio ch'io possa, sopportar conviene:
che del destino abbattere la possa
nessuno vale. E pur, della mia sorte
né favellare né tacere io posso.
Ché per un dono che ai mortali io porsi,
sotto il giogo sono io di tal destino:
la furtiva predai fonte del fuoco
nascosta entro la fèrula, che agli uomini
maestra fu d'ogni arte, ed util sommo.
Di tal misfatto pago il fio, nei lacci,
a cielo aperto, turpemente avvinto.
(Si ode una soave musica lontana)
Ahimè, ahimè!
Che voce, che ineffabile fragranza
alïa verso me,
di Nume, d'uomo, o d'ambedue commista?
Giunge alcuno a veder le mie torture?
O per qual brama? Ahi!, di catene avvinto
questo misero Nume vedete,
il nemico di Giove, che in odio
venne a quanti Celesti s'addensano
nella reggia di Zeus, perché gli uomini
troppo amavo. Ah!, quale odo d'augelli
novo strepito? L'ètere sibila
sotto i battiti fitti dell'ali.
M'è terror tutto ciò che s'appressa!

CANTO D'INGRESSO
(Su le piú alte vette giunge e si posa un cocchio alato entro cui sono
dodici bellissime fanciulle: le Ocèanine)
CORO: Strofe prima
Non temer: questa schiera è a te benevola,
che con gara di penne
agile a te qui venne.
Qui m'addusser del vento i soffî rapidi,
poi che del padre a stento ebbi il consenso.
Come echeggiò dei ferrei colpi l'eco
nel fondo del mio speco,
ogni pudico senso
discacciato da me,
scalzo lanciai su alato cocchio il pie'.
Promèteo:
Ahimè, ahimè!
O pregenie di Teti feconda,
o figliuole del padre Oceàno
che di sé cinge tutta la terra
con le insonni fluenti, guardate
e vedete, in che lacci costretto,
questa dura vigilia m'è forza
sostenere sui culmini eccelsi
di questo dirupo.
CORO: Antistrofe prima
Prometèo, veggo. Ed una fosca nuvola
di lagrimose stille
mi preme le pupille
te contemplando in lacci indissolubili
su questa roccia, a misero tormento.
Ma novello signor l'Olimpo regge;
ma con novella legge
or Giove a suo talento
lo scettro impugna, e tutto
che prima ebbe potere or vuol distrutto.
Promèteo:
Oh!, se sotto la terra, se dal fondo
dell'Averno che accoglie i defunti,
se m'avesse, di lacci insolubili
tutto avvinto, con furia selvaggia
giú scagliato nel Tartaro illimite,
sí che niuno dei Numi o degli uomini
di mie pene gioir non potesse!
Ora invece, ludibrio dell'aria,
debbo, ahi tristo!, coi miei patimenti
dar gioia ai nemici.
CORO: Strofe seconda
Qual Nume è sí crudel, che di tue pene
possa il cuore allegrar? Chi non partecipa,
tranne Giove, i tuoi strazi?
Giove solo implacabile, con furia
perenne, oppressa tiene
la stirpe degli Urani:
né starà, che il suo cuor prima non sazi,
o alcun non valga l'arduo
poter con qualche frode strappar dalle sue mani.
Promèteo:
Pur, bisogno di me, ben che stretto
ne l'obbrobrio di dure catene,
il Signore dei Superi avrà,
per conoscer la trama novella
che poter deve togliergli e scettro.
Né potrà con melliflua lusinga
di scongiuri molcirmi; né tema
di minacce saprà sgomentarmi,
che il segreto gli sveli, se innanzi
non mi sciolga dai lacci selvaggi,
non s'induca a pagare la pena
di questa ignominia.
CORO: Antistrofe seconda
Ben ardito sei tu: ché non ti prostra
il tuo supplizio amaro; e troppo libera
la tua lingua disciogli.
Ma noi temiam per la tua sorte; e penetra
terror l'anima nostra.
Dove sarà che approdi
il termine a veder dei tuoi cordogli?
Ché cuore inesorabile
il figliuolo di Giove serba ed impervî modi.
Promèteo:
Bene so ch'egli è acerbo, ed in pugno
tien giustizia. Ma pure, mi credo,
diverrà l'umor suo ben piú mite,
quando queste sventure lo fiacchino;
e appianata la furia implacabile,
dovrà chiedermi un giorno amicizia
e concordia; né io m'opporrò.

PRIMO EPISODIO
CORO:
Svelaci, tutta esponici l'istoria:
in quale fallo te cogliendo, Giove
di cosí dure obbrobrïose pene
ti oltraggia: dove non ti noccia, narralo.
Promèteo:
M'è pur doglia narrar simili eventi,
doglia tacerli: una miseria è tutto!
Come prima scoppiò l'odio tra i Numi,
e in due parti li scisse una contesa,
questi, volendo abbattere dal soglio
Crono, perché regnasse appunto Giove,
gli altri, tutto al contrario, adoperandosi
perché mai Giove non avesse il regno,
io mi pensai convincere pel meglio
i figliuoli del Cielo e della Terra,
i Titani; e non seppi. Essi, superbi
della lor forza, le sottili astuzie
disprezzarono; e senza stento, a forza,
conquistare il dominio immaginarono.
A me, però, non una sola volta,
mia madre Temi, e Gea che nomi ha varî
ed una forma sola, avean predetto
l'evento già delle future sorti:
che vinto avrebbe chi vincer doveva,
non con la gagliardia, non con la forza,
ma con l'astuzia. E tutto questo udirono
dalle parole mie, né lo degnarono
d'alcun riguardo. In tale eventi, il meglio
mi parve allor trarre con me mia madre,
e spontaneo prestar soccorso a Giove
che lo bramava. E pei consigli miei,
il negro abisso del profondo Tartaro,
Crono l'antico e i suoi compagni asconde.
Ebbe da me tal beneficio; ed ora
con queste pene turpi il re dei Numi
me ne compensa: è mal della tirannide
questo di non prestar fede agli amici.
Or poi rispondo alla dimanda vostra,
per qual ragione egli cosí m'offenda.
Seduto appena sul paterno soglio,
subito Giove a compartir si diede
doni ai Celesti, a compartire uffici,
a chi questo, a chi quello. E dei mortali
non fe' parola alcuna: anzi distruggere
tutta quanta volea la stirpe loro,
ed una nuova seminame. E niuno,
se togli me, si oppose al suo disegno.
Io n'ebbi ardire. E gli uomini salvai
dal piombare nell'Ade, allo sterminio.
Per questo in tali pene io son fiaccato,
dure a soffrire, misere a vedere.
Perché pietà degli uomini sentii,
indegno io stesso parvi di pietà;
e in questi lacci dolorosi stretto,
offro tal vista miseranda a Giove.
CORO:
Ha cuor di ferro, o Prometèo, tagliato
è nella roccia, chi pietà non sente
dei mali tuoi! Veduti, oh!, non li avessi:
or che li ho visti, tutto il cuor mi duole.
Promèteo:
Sí, per gli amici è gran pietà vedermi.
CORO:
Non sei forse trascorso ad altro eccesso?
Promèteo:
Dal fissare il destin distolsi gli uomini.
CORO:
Quale farmaco a tal morbo trovasti?
Promèteo:
Nei lor petti albergai cieche speranze.
CORO:
Gran beneficio fu questo per gli uomini.
Promèteo:
Ed oltre a questo, il fuoco a lor donai.
CORO:
Il fuoco, occhio di fiamma, ora posseggono?
Promèteo:
E molte arti dal fuoco apprenderanno.
CORO:
E Giove, dunque, per queste ragioni...
Promèteo:
Cosí m'offende, e il furor suo non placa.
CORO:
Né della pena è a te prefisso il termine?
Promèteo:
Quando a lui piaccia: il sol termine è questo.
CORO:
Potrà piacergli mai? Come lo speri?
In fallo sei, non vedi? Oh!, non m'allegra
ricordare il tuo fallo, onde ti crucci.
Ma tralasciam questi discorsi. Indaga
che spedïente i mali tuoi disciolga.
Promèteo:
A chi tien fuori dai cordogli il piede,
dare consigli a chi patisce è facile.
Tutte io sapevo queste pene. Io stesso
volli peccare, non lo negherò:
io stesso volli: gli uomini soccorsi,
ed a me stesso procaccai tormenti.
Ma non credeva a strazio tal, che in vetta
d'aeree rocce io macerar dovessi
su questa balza inospite deserta.
Ma non piangete il mio presente male:
scendete al suolo, e le sciagure udite
che incombono su me, sí che sappiate
compiutamente il tutto. Esauditemi,
compatite al dolente, esauditemi,
ché la sciagura, ciecamente errando,
ora su questo piomba, ora su quello.
CORO:
Non a gente incresciosa
la tua parola, Prometèo, si volge.
Sí che ora dal cocchio veloce
e da l'ètere limpido, tramite
degli augelli, con l'agile piede
scenderò su la terra: ché bramo
per intero ascoltar le tue pene.
(Il cocchio delle Ocèanine sparisce. Su un cavallo marino alato
giunge Ocèano)
Ocèano:
Giungo a te, Prometèo: questo augello
dalle penne veloci, diressi
col voler, senza freni. Ben lunga
fu la via che m'addusse a la mèta.
Sappi ch'io di tua sorte doloro:
mi vi astringe la stirpe comune,
io mi penso: ma, oltre alla stirpe,
niun v'è la cui doglia
io partecipi piú che la tua.
Tu saprai che sincero è il mio labbro,
che dir vane parole e lusinghe
mio costume non è. Dimmi dunque
in che cosa giovare io ti posso;
e dovrai convenir che nessuno
piú d'Ocèano t'è fido amico.
Promèteo:
Ahimè, che avviene? A contemplar mie doglie
ancor tu giungi? E come ardisti mai,
lasciando il flutto che da te si noma,
e le volte di roccia, onde Natura
i tuoi spechi inarcò, sopra la terra
madre del ferro, il pie' muovere? Giungi
a veder le mie pene, a pianger meco?
Ecco ciò che veder tu puoi: l'amico
di Giove, quei che seco estrussi il regno,
sotto che strazi, sua mercè, mi fiacco.
Ocèano:
Prometèo, ben lo veggo; e consigliarti
vo' pel tuo meglio, benché tu sei scaltro.
Rientra in te: nuovi costumi adotta,
ché il Signore dei Numi anch'egli è nuovo.
Se parole cosí scabre e taglienti
tu scaglierai, t'udirà certo Giove,
se ben tanto alto siede, e allora, un gioco
ti parrà da fanciullo, il mal presente.
Su' via, tapino, bandisci la furia
che t'empie il seno, e alle tue pene cerca
qualche riscatto. A te forse parranno
triti vecchiumi le parole mie;
ma della lingua tua troppo superba
è questa, Prometèo, la triste mancia.
Ma tu non sai farti umile, non sai
cedere ai mali; ed altri procacciartene,
oltre ai presenti, vuoi. Se un mio consiglio
ti piace udir, non calcitrare al pungolo:
vedi che aspro, che assoluto è Giove.
Adesso io vado, e tenterò la prova
se ti posso scampar da queste pene.
Tu rimani tranquillo, e audace troppo
il tuo labbro non sia. Sempre il castigo
s'appiglia a troppo temeraria lingua:
sei tanto sapïente e questo ignori?
Promèteo:
Felice te, che la mia doglia ardisci
partecipare, e fuor di colpa resti!
Ma lasciami or, di me cura non darti.
Modo non v'è che tu possa convincermi.
Bada a te stesso, fa' che il tuo viaggio
non ti debba fruttar qualche cordoglio.
Ocèano:
Molto piú vali a dar consiglio a quanti
ti son vicini, che a te stesso. I fatti,
non le parole, me ne dànno prova.
Accinto io sono già: né trattenermi
ti piaccia: io mi lusingo, io mi lusingo
che Giove il dono di mandarti libero
da queste pene a me voglia concedere.
Promèteo:
Io ti son grato, e sempre ti sarò,
che del tuo buon voler nulla risparmi.
Ma pur, non affannarti: affanno vano
il tuo sarebbe, e senza utile mio.
Sta tranquillo, e da me tien lunge il piede.
Non perché sono io misero, vorrei
che sciagura incogliesse ad altri molti.
No, che mi rode anch'essa il cuor, la sorte
d'Atlante fratel mio, che ritto sta
nelle contrade d'Espero, e con gli òmeri
la colonna del cielo e de la terra
sostiene, immane pondo. E il cuor mi pianse,
quando il figlio di Gea, l'abitatore
degli spechi Cilicî, orribil mostro
che spira furia da cento cerèbri,
mirai domato da la forza. Ei stette
a faccia a faccia contro i Numi tutti,
sibilando terror da le mascelle
spaventevoli; e vampo mostruoso
folgoreggiavan gli occhi, e a viva forza
prostrar credea di Giove la tirannide.
Ma di Giove su lui l'insonne dardo,
il folgore piombò, che dal ciel cade
spirando fiamma; e dai superbi vanti
giú l'abbatté. Colpito entro nei visceri,
ei fu converso in cenere, e disfatto
il poter suo fra l'ululo dei tuoni.
Ed or, salma disutile, rovescio
giace nei pressi del marino stretto,
e le radici d'Etna su lui gravano.
E sta sopra le cime ultime Efèsto,
e batte il ferro incandescente; e quindi
fiumi di fuoco eromperanno un giorno,
con selvagge mascelle, e struggeranno
le piane valli e gli opulenti frutti
de la Sicilia, coi roventi strali
d'un implacabil turbine di fiamma.
Tanto furor, se bene dalla folgore
converso in bragia, ebollirà Tifone.
Ma tu ciò non ignori, e non hai d'uopo
ch'io t'ammaestri. Or, come tu sai, sàlvati:
io la sciagura mia sopporterò,
sin che di Giove non declini l'ira.
Ocèano:
O Prometèo, non sai che le parole
son medicina all'animo che soffre.
Promèteo:
Quando in buon punto un cuor molci, non quando
reprimi a forza un animo che scoppia!
Ocèano:
Nel prevedere, nel tentar, tu scopri
che ci sia qualche danno? E quale? Mostralo!
Promèteo:
Superflua pena e vana dabbenaggine.
Ocèano:
Lasciami pur tal morbo. È gran vantaggio
sembrar privi di senno, ed esser saggi.
Promèteo:
Sembrerà mio retaggio un tal difetto!
Ocèano:
Chiaro è! Le tue parole mi congedano.
Promèteo:
La tua pietà potrebbe inviso renderti.
Ocèano:
A chi sul trono sommo or ora ascese?
Promèteo:
Bada che il cuor di lui mai non si crucci!
Ocèano:
La sorte tua, m'è, Prometèo, maestra!
Promèteo:
Va', torna, serba questi tuoi propositi.
Ocèano:
Parli a chi sta già sulle mosse. I tramiti
schiusi dell'aria questo augel quadrupede
rade con l'ali già. Nei suoi presepî
il ginocchio piegar lo farà lieto.
(Ocèano parte)

PRIMO CANTO INTORNO ALL'ARA
(Dalle due pàrodoi entrano nell'orchestra le Ocèanine, e, aggruppate
intorno all'altare di Diòniso, danzano con lente evoluzioni, e cantano)
CORO: Strofe prima
Per te gemo, Promèteo,
pel tuo destino acerbo.
Da la palpebra molle
versando un rivo di stillanti lagrime,
le mie gote bagnai d'umide polle.
Ché il suo poter superbo
con l'arbitrio di sí miseri scempi
ostenta Giove ai Numi che l'imperio
ebbero ai prischi tempi.

Antistrofe prima
Tutta la terra un ululo
alza per te di duolo.
La tua magnificenza
piangon quanti han dimora ai lidi d'Espero,
e il prisco onor di te, di tua semenza.
E quante il sacro suolo
abitano de l'Asia umane genti,
delle torture tue senton, Promèteo,
pietà, dei tuoi lamenti.

Strofe seconda
E della terra Còlchide
le abitatrici vergini
non mai sazie di guerra;
e d'intorno al Meòtide
stagno le turbe scitiche,
ai confin' della terra;

Antistrofe seconda
e il prode fior d'Arabia,
la cui città sul Caucaso
surge, su vette estreme,
formidoloso esercito,
che, recinto da cuspidi
di lance aguzze, freme.

Strofe terza
Un altro Nume solo
stretto ne l'adamante
d'obbrobrïosi vincoli
pria d'ora io vidi: Atlante
Titano. A lui su gli òmeri
tutta la terra preme
ed il sidereo polo:
egli, sotto quel peso orrido, geme.

Antistrofe terza
E del pelago l'onde
gridano insiem con lui:
gemiti manda il bàratro,
ed i recessi bui
dell'Ade sotterraneo
rombano: le sorgenti,
le linfe pure e monde
dei fiumi, piangon miseri lamenti.
(Compiute le evoluzioni, le Ocèanine ai volgono verso Promèteo)

SECONDO EPISODIO
Promèteo:
Non per disdegno o per superbia io taccio,
non lo crediate; ma l'obbrobrio inflittomi
veggo, e di conscia doglia il cuor mi struggo.
Pure, i lor pregi a questi nuovi Numi,
chi compartiva, se non io? Niun altri!
Ma di questo non parlo: a voi direi
cose ben note. Ma i cordogli udite
che patiano i mortali, e come io seppi
da stolti ch'eran pria, saggi e signori
della lor mente renderli. E dirò
non per muovere agli uomini alcun biasimo;
ma la benignità mostrare io voglio
dei doni miei. Ché prima, essi, vedendo
non vedevano, udendo non udivano;
e simili alle vane ombre dei sogni,
quanto era lunga la lor vita, a caso
confondevano tutto. E non sapevano
né case solatie, né laterizi,
né lavorare il legno. E a guisa d'agili
formiche, in fondo a spechi dimoravano,
sotterra, senza sole. E segno alcuno
che distinguesse il verno non avevano,
né la fiorita primavera, né
la pomifera estate: ogni loro opera
senza discernimento era, sin che
sperti li resi a consultar le stelle,
e il sorger loro ed i tramonti arcani.
E poi rinvenni, a lor vantaggio, il numero,
somma fra le scïenze, e le compagini
di lettere, ove la Memoria serbasi,
che madre operatrice è de le Muse.
Sotto i gioghi primo io le fiere avvinsi,
obbedïenti ai basti e ai soggóli,
perché ministre a l'uomo succedessero
nei piú duri travagli; e sotto i cocchi
spinsi i cavalli docili a la briglia,
fulgidi fregi al fasto. E niuno i cocchi
dei marinai prima di me rinvenne,
ch'errano in mare, ch'ali hanno di lino.
CORIFEA:
Dura è la pena tua. Dal primo senno
erri smarrito, e, come un tristo medico
preso dal morbo, ti scoraggi, e farmachi
trovar non sai che a te salute rendano.
Promèteo:
Piú stupirai quando avrò detto il resto:
quali arti escogitai, quali scïenze.
E questa è la piú grande. Ove taluno
cadea nel morbo, niun rimedio v'era,
non pozïone, non cibo od unguento;
ma consunti perian, privi dei farmachi,
sin ch'io delle medele ebbi mostrate
le salutari mescolanze, onde hanno
contro ogni mal riparo. E ai modi molti
dei vaticinî ordine posi. E prima
nei sogni sceverai quello che debba
nella veglia avverarsi, e chiari feci
i prognostici oscuri ed i presagi
che s'incontran per via. Minutamente
distinsi il volo dei rapaci augelli;
e quali infausti, e quali son propizî,
e la vita d'ognun d'essi e il costume,
e quali amori e quali odî intercedano
o convegni fra loro. E de le viscere,
qual nitidezza aver debbano, e quale
color la bile, perché piaccia ai Dèmoni,
e le forme e i color' varî del fegato.
E le membra di pingue adipe avvolte,
ed il femore lungo, e al fuoco postele,
guidai verso un'arcana arte i mortali;
e chiari i segni della fiamma resi,
che ciechi erano prima. E di ciò basti.
E quante utili cose in grembo al suolo
giacean nascoste all'uomo, il rame, il ferro,
l'argento, l'oro, chi potrebbe dire
che le rinvenne pria di me? Nessuno,
sappilo, quando millantar non voglia.
Ma tutto apprendi in un sol motto breve:
tutte die' Prometèo l'arti ai mortali.
CORIFEA:
Per giovare ai mortali oltre misura,
non trascurar la tua disgrazia; ed io
spero che, sciolto un dí da questi lacci,
non minore potenza avrai di Giove.
Promèteo:
Fato non è che tutto ciò si compia.
Ben io da mille triboli, da mille
pene prostrato, ai lacci sfuggirò.
Piú debole del Fato è troppo l'arte.
CORIFEA:
E del Fato chi mai regge la sbarra?
Promèteo:
Le fiere Parche e le vindici Erinni.
CORIFEA:
Men di queste possente è dunque Giove?
Promèteo:
Al destino sfuggire ei non potrebbe.
CORIFEA:
E qual destino è il suo, se non regnare?
Promèteo:
Saper non lo potrai: non lusingarmi.
CORIFEA:
Terribil ciò che ascondi essere deve!
Promèteo:
Cercate altri argomenti. Inopportuno
è di questo parlar: convien segreto
quanto si può tenerlo. E col segreto
io sfuggirò le pene e i lacci turpi.

SECONDO CORO INTORNO ALL'ARA
CORO: Strofe prima
Deh!, Giove che dominio
ha su tutte le genti,
mai non s'opponga alle speranze mie:
deh!, ch'io mai non sia tarda a offrire ai Superi
di bovi epule pie,
presso del padre Ocèano
all'eterne fluenti:
mai non mi sfuggano empie
parole: ognor nel seno
pietà mi regni, e mai non venga meno.

Antistrofe prima
Dolce cullare l'animo
di letizie serene:
dolce nutrir, sin che la vita dura,
ardue speranze. Ma se te, Promèteo,
d'infinita sciagura
io veggo oppresso, un brivido
corre per le mie vene.
Ma tu, fiero, non trepidi
del Signor dei Celesti,
ed ai mortali troppo onore presti.

Strofe seconda
Ecco quali mercedi
sono or compenso, amico, alle tue grazie.
Dove or trovi negli uomini
alcun sostegno, alcun soccorso? Vedi
la fiacca inettitudine,
simile ai sogni vani,
che, in ceppi, degli umani
stringe le cieche torme?
Non mai voler d'efimeri
potrà di Giove vïolar le norme.

Antistrofe seconda
E questo, Prometèo,
appresi nel veder tua sorte misera.
Oh!, ben diversi suonano
questo mio canto d'ora, e l'imeneo
che dal mio labbro al talamo
tuo si levò d'attorno
e ai tuoi lavacri, il giorno
che sposa alla tua casa
la mia sorella Esíone
venne: ché i doni tuoi l'ebber suasa.

TERZO EPISODIO
(Una fanciulla di viso bellissimo, ma deturpato da due corna di giovenca,
si lancia tra le rupi con folli balzi, e si ferma davanti a Promèteo)
IO:
Dove son? fra che genti? Costui
che legato ai dirupi vegg'io,
esposto ai rigori del cielo,
chi sarà? Questa pena ferale
per quale misfatto patisce?
Or tu dimmi in che parte del suolo,
o me misera!, errando son giunta.
(È assalita da piú fiero delirio)
Ahimè! Ahimè!
Misera me! L'assillo ancor mi punge!
Lo spettro io veggo, ahimè!, d'Argo terrigeno,
del pastor dai mille occhi! O Giove, salvami!
Egli s'avanza! M'affascina l'occhio
cui neppur morto la terra nasconde.
Ma come un cane. surgendo dagli inferi,
me sciagurata sospinge, e digiuna
lungo le sabbie del pelago incalza.

Strofe
Strepe il vocale cerato calamo
una melode che sonno infonde.
Ahimè, ahimè! Misera me!
Dove m'adduce questo lungivago
errore? Dimmi, figlio di Crono,
di quale colpa rea mi trovasti,
che, al giogo astretta di questi crucci,
ahimè, ahi!
me sciagurata, priva di senno,
con lo sgomento strazi dell'estro?
Col fuoco bruciami, fa ch'io di terra
sia ricoperta, del mare ai mostri
dammi in pastura, sordo non essere,
questi miei voti, signore, adempi.
Troppo provata m'hanno i lungivaghi
errori, e come sfugga mie pene
non m'è concesso saper!
(Si volge, un po' calmata, a Promèteo)
La voce
della cornigera fanciulla ascolti?
Promèteo:
Io non udire la figliuola d'Inaco
punta dall'estro? Ella d'amore avvampa
il cuor di Giove: e adesso, in odio ad Era,
per infinito corso a forza è spinta.
IO: Antistrofe
Com'è che il nome sai di mio padre?
Dimmelo, a questa meschina dillo.
Chi, sventurato, sei tu, che a questa
misera parli sí vere cose,
ed il celeste morbo hai nomato
che me tapina strugge, e m'incalza,
ahi, ahi! coi pungoli della demenza?
Ahimè, ahi!
Movendo, a sconci balzi, famelica,
spinta dal rabido furore d'Era,
impetuosa giunsi. Fra i miseri
chi v'è che soffra quello ch'io soffro?
Deh!, chiaro insegnami, tu, adesso, mostrami
che cosa debbo patire ancora.
E dimmi inoltre, se lo conosci,
se v'è del male rimedio o farmaco.
Schiudi le labbra: favella a questa
vergine, a errore misero spinta.
Promèteo:
Ben chiaro ciò che brami io ti dirò,
senza enimmi intrecciar, semplicemente,
come ad amici si convien. Tu scorgi
quei che ai mortali il fuoco die': Promèteo.
IO:
Tu che apparisti, misero Promèteo,
a beneficio dei mortali tutti,
per quale causa queste pene soffri?
Promèteo:
Dal narrare i miei crucci or ora smisi.
IO:
Tal grazia non vorrai dunque concedermi?
Promèteo:
Chiedi ciò che tu vuoi: tutto saprai.
IO:
Dimmi chi ti confisse in questo bàratro.
Promèteo:
La man d'Efèsto ed il voler di Giove.
IO:
E di quali peccati il fio tu sconti?
Promèteo:
Ti basti solo quello ch'io t'ho detto.
IO:
Dell'error mio dimmi, oltre a questo, il termine.
Promèteo:
Meglio ignorar ti vale, che saperlo!
IO:
Non mi celar ciò che patire io debbo.
Promèteo:
Ricusare tal dono io non saprei.
IO:
Che non vuoi senza indugio il tutto dirmi?
Promèteo:
Voglio. Ma temo che il cuor ti si spezzi.
IO:
Non crucciarti per me piú ch'io nol brami.
Promèteo:
Se tu lo puoi, parlar conviene. Ascolta.
CORIFEA:
Non ancor. Fa' che in parte anch'io mi goda.
Prima il suo morbo a lei chiediamo, ed ella
gli sciagurati eventi suoi ci narri:
dei suoi travagli il resto oda da te.
Promèteo:
Questa grazia negare, Io, non potresti,
massime a suore di tuo padre. E lagrime
versar, levar per la tua sorte gemiti,
qui, dove alcuno, udendo il tuo racconto,
verserà pianto, non è vana pena.
IO:
Come opporvi rifiuto io non saprei;
e con chiara parola a voi dirò
tutto quanto da me saper bramate,
anche s'io piangerò, solo a narrare
la divina procella, e d'onde avvenne
che la mia prisca forma andò distrutta.
Nelle mie stanze verginali, entravano
visïoni ogni notte, e m'esortavano
con soavi parole: «O beatissima
fanciulla, e perché mai tu resti nubile
sí lungo tempo, e aver potresti il gaudio
d'eccelse nozze? Ché di te, pel dardo
della brama, arde Giove, e coglier teco
vuole il piacer d'amore. E tu, fanciulla,
non calcitrare al talamo di Giove:
anzi esci al pingue pascolo di Lerna,
alle greggi del padre ed ai presepî,
ché requie abbia da te l'occhio divino».
A tali sogni in preda ero ogni notte,
misera me, sin che narrare al padre
osai questi notturni incubi. Ed egli
molti indovini a Pito ed a Dodona
inviò, per saper che cosa ei debba
o dire o far per compiacere i Numi.
Tornavan quelli, e riferiano oracoli
confusi, ambigui, oscuramente espressi.
Chiaro un responso giunse infine ad Inaco:
che senz'ambage gl'imponeva l'ordine
che dalla casa via, via dalla patria
mi discacciasse, per gli estremi limiti
della terra, a vagar come una libera
vittima, se non vuol che ardente il folgore
piombi di Giove, e la sua stirpe stermini.
Da questi indotto oracoli di Febo,
via dalla casa mi scacciò, mi escluse,
malgrado suo, malgrado mio. Ma il freno
di Giove a ciò lo costringeva a forza.
E la mia forma e la mia mente súbito
si sconvolsero, e quale or mi vedete,
irta di corna il capo, e dall'acuto
pungiglio spinta d'un assillo, ai rivi
dolci di Cernèa giunsi, alla fontana
di Lerna, in folli balzi io mi lanciai.
E tutto pien di zelo Argo seguiami,
terrigeno bifolco, e vigilava
coi suoi cent'occhi, dietro ogni mio passo.
Vita gli tolse un improvviso fato:
ed io, punta dall'estro, e dalla sferza
divina, errando vo' di terra in terra.
Ciò che m'avvenne, udisti. Or, se lo sai,
il mal che debbo ancor soffrire insegnami,
né per pietà molcirmi di menzogne:
non v'ha morbo peggior che il parlar finto.
CORIFEA:
Ahimè, taci, ahimè, taci!
Mai non credevo che queste orecchie
udir dovessero sí strani casi,
né che terrori, brutture, spasimi
tanto a vederli fieri e a soffrirli,
con l'affilata
punta dovessero l'alma aggelarmi.
Ahi, destino, destino!
Se d'Io contemplo
la triste sorte, m'investe un brivido!
Promèteo:
È prematuro il tuo terrore e il pianto.
Sin che non abbia udito il resto, frenati.
CORIFEA:
Dimmelo, parla: ch'è sollievo agli egri
il venturo dolor sapere innanzi.
Promèteo:
Agevolmente, mercè mia, fu paga
la vostra brama: i suoi travagli
dalle sue labbra udiste. Adesso il resto
udite: che tormenti ancor, per l'odio
d'Era, deve patir questa fanciulla.
E i miei detti, nel cuor tu imprimi, o d'Inaco
figlia, e saprai del tuo cammino il termine.
Pria di qui verso l'Orïente volgiti,
a solchi inseminati; e fra gli Sciti
nomadi giungerai, ch'entro capanne
di giunchi, alti dal suolo, in carri vivono,
di pronte ruote, ed archi hanno a difesa,
che saettan lontani. A queste genti
non appressarti, ma coi pie' rasenta
le rupestri del mar sonore spiagge,
e la terra attraversa. A manca, i Càlibi
foggiatori del ferro hanno dimora;
ma guardati da lor: selvaggi sono,
né può straniero avvicinarli. Al fiume
Ibristo quindi giungerai, che degno
è del suo nome: e tu non traversarlo
- né traversarlo è facile - se prima
su la vetta non sei giunta del Caucaso,
dell'eccelso fra i monti: indi quel fiume
soffia la furia, dalle tempie alpestri.
Quindi, poi ch'abbia superati i vertici
finitimi a le stelle, a mezzogiomo
il tuo cammino volgi; e delle Amazzoni
giungerai fra lo stuol, che l'uomo aborrono,
che Temiscíra abiteranno un giorno,
del Termodonte su le ripe, ov'è
Salmidesso, mascella aspra del ponto,
matrigna delle navi, ai nauti infesta.
Guida al cammino ti saranno queste.
E allo stretto Cimmerio, e su le anguste
porte della palude arriverai.
Ma tu devi lasciarlo, e pel Meòtico
solco, salda in tuo cuore, aprirti il varco.
E gran fama sarà sempre fra gli uomini
del tuo tragitto; e quello stretto, Bosforo
avrà nome da te. Ora, lasciato
il pian d'Europa, al continente d'Asia
eccoti giunta. Or non vi par che il re
dei Numi, in tutto ugual soperchiatore
si dimostri? Egli, Dio, questa mortale
possedere bramava, e l'avventò
a tali errori. Un ben amaro, o vergine,
pretendente alle tue nozze trovasti!
Ché quante hai tu sin qui parole udite,
non sono ancora, immagina, il preludio.
IO:
Ahimè, ahimè! ahi, ahi!
Promèteo:
Or tu gridi, tu gemi. E che farai,
quando udrai che sciagure ancor t'attendono?
CORIFEA:
Altri cordogli ancor devi tu dirle?
Promèteo:
Di guai funesti un tempestoso pelago.
IO:
Dunque, a che pro' vivere piú? Ché súbito
giú da questa erta rupe io non mi gitto,
e, franta al suolo, a tutti i miei cordogli
non pongo un fine? Oh!, morire una volta
meglio mi val che tutti i dí soffrire.
Promèteo:
Deh!, quanto poco sopportar sapresti
gli affanni miei, che aver morte non posso!
Morte, sarebbe dei travagli il termine:
niun fine invece è a me dei guai prescritto,
se di Giove il poter prima non crolla.
IO:
Come? Giove crollar può dal suo regno?
Promèteo:
Lieta vedendo ciò, credo io, saresti.
IO:
Come no, se per Giove il male io soffro?
Promèteo:
E sappi dunque che tanto avverrà.
IO:
Da chi mai tolto gli sarà lo scettro?
Promèteo:
Da lui stesso: dai suoi consigli stolti.
IO:
Come? Se danno a te non reca, dimmelo.
Promèteo:
Stringerà nozze onde dovrà dolersi.
IO:
Mortali, oppur divine? Se puoi, dimmelo.
Promèteo:
Che importa questo? E dirlo non è lecito.
IO:
Lo sbalzerà dal trono la sua sposa?
Promèteo:
Creando un figlio piú forte del padre.
IO:
Né modo v'è che a questa sorte sfugga?
Promèteo:
Niuno: solo io potrei, se mi sciogliessero.
IO:
Chi l'oserà, se Giove a ciò s'oppone?
Promèteo:
Un dei tuoi discendenti. È questo il fato.
IO:
Che dici? Un figlio mio ti farà libero?
Promèteo:
Di terza stripe dopo dieci stirpi.
IO:
Non è piú tal responso intelligibile.
Promèteo:
Rinunzia dunque a sapere i tuoi mali.
IO:
Non mi negare il dono già profferto.
Promèteo:
Uno dei due racconti in dono t'offro.
CORIFEA:
E quali? Offrili, e a noi lascia la scelta.
Promèteo:
Eccoli, eleggi: o di tue pene il termine
ti dirò chiaro, o chi me deve sciogliere.
CORIFEA:
Di queste grazie una a costei concedi,
e l'altra a me, né favellar t'incresca:
degli error' suoi di' a questa il resto; e a me
chi ti libererà: ché ciò desidero.
Promèteo:
Poi che voi lo bramate, io rifiutarmi
non saprei di narrar ciò che chiedete:
a te dapprima narrerò, fanciulla,
i lunghi errori ed i travagli; e scrivilo
del pensïero tuo nei solchi mèmori.
Poscia che il gorgo, ai continenti limite,
attraversato avrai, verso le plaghe
tutte fiamma, che il sole all'alba preme,
corri, e traversa il sonito del mare,
sin che tu non pervenga al pian di Cístene
gorgonio, ove dimora hanno le Fòrcidi,
le tre fanciulle annose. Elle figura
han di cigno, e un solo occhio in tre posseggono,
e un dente sol. Né coi suoi raggi il sole
le guarda mai, né la notturna luna.
Le Gorgoni son qui presso; le tre
loro alate sorelle, a cui dal capo
guizzano serpi: aborrono esse gli uomini;
né può mortale alcuno serbare alito
di vita, ove le scorga: il loro asilo
di schivar t'ammonisco. Altro spettacolo
orrido ascolta ancor. Dai grifi guàrdati,
muti cani di Giove adunchi rostri,
e dall'equestre stuol degli Arimaspi,
ch'àn solo un occhio, ed abitano i pressi
del Plutone, che volge oro nei flutti.
Non accostarti ad essi. E giungerai
ad una estrema landa, a un popol negro
che del sol presso le sorgenti vive,
dov'è l'Etíope fiume. Or tu trascínati
lungo le rive, sin che tu sia giunta
ad una frana, dove il Nilo gitta
giú dai monti Biblini, l'onda sacra
soave a bere. Ed esso t'addurrà
al tricuspide suol niliaco, dove
è per te fato e per i figli tuoi,
la remota colonia, Io, stabilire.
Se men facile o balba per te suona
di ciò ch'io dissi alcuna parte, addoppia
pur la dimanda, e chiaro apprendi il tutto:
tempo n'ho molto piú ch'io non desideri.
CORIFEA:
Se rimane alcun punto, o l'obliasti,
che dei penosi errori a costei dica,
parla. Se tutto hai detto, a noi concedi
la grazia che chiediam: tu la rammenti.
Promèteo:
Tutto ella udito ha del viaggio il fine.
Ma perché veda che non fu l'udirmi
inutil briga, io le dirò che pene
sofferse pria che qui giungesse. E questo
sarà suggello ai detti miei. Ma lascio
degli error tuoi la somma, e giungo al termine.
Poi che giungesti dei Molossi ai piani
e al dorso eccelso di Dodona, dove
son del tesprozio Giove e seggio e oracolo,
dove, portento favoloso, surgono
le favellanti querce, onde ben chiaro
e non per via d'enimmi a te fu detto
che consorte saresti eccelsa a Giove -
non hai lusinga in tai ricordi alcuna? -
di lí, punta dall'estro, ti lanciasti
lungo la spiaggia, al gran seno di Rea:
donde piú lunge, in procellosa corsa
fosti qui spinta. E nei futuri giorni
sappilo certo, quel marino abisso
Ionio detto sarà fra tutti gli uomini,
a ricordare il tuo viaggio. Segno
questo sarà per te della mia mente,
ch'essa oltre a ciò ch'è manifesto scorge.
A questa e insieme a voi dico ora il resto,
tornando all'orme dei miei prischi detti.
Di quella terra all'ultimo confine,
alla foce del Nilo, ov'esso addensa
le sabbie, sorge la città di Cànobo.
Quivi col tocco e la carezza sola
della sua man, Giove ti rende il senno.
Ed a luce il negro Èpafo darai,
che nome avrà dal giovïale tocco.
E signore sarà di quanta terra
l'ampie fluenti irrigano del Nilo.
La quinta stirpe dopo lui, progenie
di ben cinquanta femmine, di nuovo
ad Argo tornerà, non di suo grado,
ma per fuggir le consanguinee nozze
dei lor cugini. Ardenti il sen d'amore,
come sparvieri che colombe incalzino,
d'empie nozze a far preda essi verranno.
Ma un Nume a lor contenderà che godano
le dolci membra. E la Pelasgia terra
li accoglierà spenti da man donnesca,
da femminea notturna audace strage:
ché ogni donna il suo sposo ucciderà,
il doppio taglio della spada a lui
immergendo nel sangue. Oh!, tali nozze
tocchino ai miei nemici! - Una fanciulla
amore molcirà, ch'ella risparmi
del suo letto il compagno. E il suo disegno
non compierà; ma sceglierà, fra due,
pria che omicida, esser chiamata imbelle.
Ad Argo essa darà regia una stirpe.
E lungo ora sarebbe esporre il tutto:
pur, da questa semenza nascerà
ben audace un rampollo, illustre arciero,
che me dai miei tormenti affrancherà.
Tale oracolo a me l'antica madre
die', la titania Temi. Il dove, il come
questo avverrà, lungo sarebbe a dirlo,
e niun vantaggio a te sarebbe apprenderlo.
IO:
Ahimè, ahimè!
Tutta ancora m'invade uno spasimo,
le frenetiche smanie mi bruciano,
mi trafora de l'estro la cuspide
che non ebbe dal fuoco la tempera.
Per terrore nel petto il cuor calcitra,
le pupille stravolte mi ruotano,
fuor mi spinge dal tramite il soffio
della rabbia demente, né domino
piú la mente. Ed a caso s'abbattono
procellose parole sui flutti
di orribili lutti.
(Io, colta da un nuovo accesso di delirio, fugge a gran balzi)

TERZO CANTO INTORNO ALL'ARA
CORO: Strofe
Saggio saggio fu quei che tale massima
primo fermò nell'anima
e con parole espresse,
che matrimonio eleggere
al suo stato conforme ognun dovesse.
Sposar non cerchi il povero,
né chi d'orgoglio ha l'anima
piena per il molto oro,
né chi vanta d'illustri avi il decoro.

Antistrofe
Non mai, non mai debba io di Giove il talamo
partecipare, o Moire,
ministre della Sorte,
né a veruno dei Superi
avvicinarmi, che mi sia consorte.
Ché, disfatta per l'odio
d'Era veggendo, in miseri
penosi errori, d'Io
l'aspra verginità, trema il cuor mio.

Epodo
Solo nozze tra simili
scevre son di terrore,
né le temo io. Ma l'occhio irresistibile
dei piú possenti Numi
non si fissi su me pieno d'ardore.
Guerra non sostenibile
questa sarebbe, e origine
di mali senza uscita.
Qual sarebbe mia vita
ignoro: ignoro dove
alla brama sfuggir potrei di Giove.

ULTIMO EPISODIO
Promèteo:
Sí, sebben tracotante, un giorno Giove
tapino esser dovrà: tai nozze affretta,
che dal dominio, che dal soglio giú
l'abbatteranno; e sparirà nel nulla.
L'imprecazione allor del vecchio Crono
sarà compiuta interamente, ch'egli
scagliò, piombando dall'antico trono.
Di tal rovina niun potria dei Numi
chiaro mostrargli, se non io, lo scampo.
Io questo, e il modo so. Pertanto ei segga
pieno di fede negli aerei bómbiti,
squassando in pugno il suo dardo di fiamma:
impedir non potrà che senza onore
in rovina d'obbrobrio egli giú piombi.
Tale un campione, a se stesso egli stesso,
ora apparecchia, insuperabil mostro:
questi una fiamma troverà che arda
piú del fulmine, un bómbito possente
da superare il tuono; ed il tridente,
il flagello marino, arma a Posídone,
che sconvolge la terra, infrangerà.
In questo mal cozzando, apprenderà
che regnare e servir son varia cosa.
CORIFEA:
Ciò che tu brami or tu predici a Giove.
Promèteo:
Ma ciò che bramo esito certo avrà!
CORIFEA:
Che vinto Giove sia dobbiamo attenderci?
Promèteo:
E che affanni dei miei piú gravi soffra.
CORIFEA:
E non temi a scagliar tali parole?
Promèteo:
Che temerei? Morte a me nega il Fato.
CORIFEA:
Potrebbe un cruccio anche piú duro infliggerti.
Promèteo:
Lo faccia dunque. A tutto io son disposto.
CORIFEA:
Saggio è bene colui che Adrastèa venera.
Promèteo:
E tu leva preghiete, adora, adula.
Men che di nulla a me di Giove importa.
Faccia, comandi in questo scorcio breve
a suo talento. Poco tempo ancora
su gli Dei regnerà. Ma veggo giungere
l'araldo suo, del nuovo re ministro.
Certo, alcunché di nuovo egli ci annunzia.
(Giunge Ermète)
Ermète:
A te, gran saggio, a te che acerbo sei
piú che ogni acerbo, che in oltraggio ai Numi
i loro onori compartisti agli uomini,
a te favello, involator del fuoco.
Ordina il padre che tu dica quali
nozze son queste ond'ei cadrà dal soglio.
Né parlar con enigmi: esponi il tutto
punto per punto; e vedi ch'io non debba
rifar la strada, Prometèo. Lo sai,
non molciscono ambagi il cuor di Giove.
Promèteo:
Solenne suona, d'alterigia piena,
la tua parola, e quale ben s'addice
a ministro di Numi. Al poter nuovi,
sol da poco regnate: e da cordogli
credete immuni i vostri sogli. Eppure,
non ne vidi io piombar già due tiranni?
Ben presto quei che terzo ora comanda,
piombar vedrò, ben turpemente. Credi
ch'io tema, io tremi di novelli Numi?
Oh!, molto, in tutto, io ne son lungi. E tu
riaffretta la strada onde sei giunto:
ché non saprai di quanto chiedi, nulla.
Ermète:
Vedi che già con arroganze simili
facesti approdo a tal porto di pene.
Promèteo:
Tramutar non vorrei le mie sciagure
con la tua servitú, sappilo bene.
Ermète:
Meglio a questi macigni essere stretto,
che al padre Giove esser fedele araldo?
Promèteo:
Oltraggiare cosí convien chi oltraggia.
Ermète:
Par di tua condizïon tu goda.
Promèteo:
Godo! Goder cosí possa io vedere
i miei nemici! E te fra questi annovero.
Ermète:
Dei tuoi mali anche a me la colpa assegni.
Promèteo:
A dirla in breve, tutti i Numi aborro.
Da me beneficati, or mi maltrattano.
Ermète:
Tu sei folle: e non par lieve follia.
Promèteo:
Se odïare i nemici è follia, sí.
Ermète:
Fossi in auge, saresti insopportabile.
Promèteo:
Ahimè!
Ermète:
Ahimè! Questa parola è ignota a Giove.
Promèteo:
Ma tutto insegna, maturando, il tempo.
Ermète:
Pure, a far senno ancor non hai tu appreso.
Promèteo:
Vero è: che a te, che servo sei, favello.
Ermète:
Nulla dirai di ciò che il padre brama?
Promèteo:
Giusto: dovrei grazia per grazia rendergli!
Ermète:
Quasi fossi un fanciullo tu mi beffi!
Promèteo:
E fanciullo non sei, stolto non sei
piú che fanciullo, se da me t'aspetti
di sapere alcunché? Non v'ha tormento,
artificio non v'ha, con cui m'induca
Giove a parlar, se non allenti prima
questi ceppi d'obbrobrio. Ed ora piombi
su me la vampa sfavillante, e tutto
con turbini di bianche ali di neve
mischi e travolga, e con inferni tuoni:
nulla di ciò mi piegherà, ch'io sveli
perché fatale è che dal soglio ei piombi.
Ermète:
Vedi or se ciò che dici util ti sembra.
Promèteo:
Tutto ho già visto, ponderato ho tutto.
Ermète:
Sforzati, o tristo, sforzati una volta
di fare senno, alle sciagure innanzi.
Promèteo:
Invan mi tedî: un sordo flutto esorti.
Non ti venga l'idea ch'io, pei disegni
di Zeus sgomento, reso pari a femmina,
l'aborrito nemico molcir tenti
con le mani supine, a mo' di donna,
ch'egli mi sciolga! Oh!, ne son lungi assai!
Ermète:
Se piú dicessi, invano io parlerei:
tu non ti plachi alle preghiere mie,
tu non t'intenerisci. E il freno mordi,
come puledro nuovo al giogo, e imprechi
e repugni alle briglie. E pure, inferma
è la saggezza onde t'esalti: audacia
per chi non ha saggezza, è men che nulla
di per se stessa. Or vedi, se convincerti
rifiuti ai detti miei, quale procella,
qual maroso di mali ineluttabili
piomberà sopra te. Prima, quest'aspra
rupe, col fuoco e col celeste folgore
il padre squarcerà, vi asconderà
le membra tue, ché una petrosa branca
le stringa. Dopo lungo ordine d'anni,
di nuovo a luce tornerai. Ma il cane
di Giove alato, l'aquila cruenta,
voracemente il corpo a gran brandelli
da mane a sera ti dilanierà,
senza invito rependo, del tuo fegato
a banchettar l'epula negra. E termine
di tale strazio alcuno non attendere,
se alcun dei Numi non si mostri e assuma
le pene tue, che al cieco Ade, e del Tartaro
nei tenebrosi abissi elegga scendere.
Dunque risolvi. Ché non è già questa
vana millanteria, ma vero espresso.
Ché mentire non sa di Giove il labbro,
ma ciò ch'ei dice, ei compie. Or tu considera,
pensa bene; e una volta almen convinciti
che piú val dell'audacia il buon consiglio.
CORIFEA:
Non impronte parole, a ciò che sembra,
ti parla Ermète. Egli a scacciar t'esorta
l'arroganza, e a cercare il buon consiglio.
Odilo. Ché pel saggio errare è turpe.
Promèteo:
I messaggi ch'egli or mi proclama
noti m'erano già: né le offese
da nemico a nemico fan macchia.
Su me dunque dal cielo s'abbatta
la bisulca cesarie di fuoco,
l'etra tutto sconquassino i tuoni,
lo sfacelo di venti selvaggi;
crolli un alito immane la terra
da le basi con l'ime radici,
ed i flutti del mare sparpagli
con aspro frastuono
per gli uranî sentieri degli astri;
e giú scagli nel Tartaro negro,
le mie membra, nel vortice orrendo
del Fato. Ma invano
cercherebbe di darmi la morte.
Ermète:
I tuoi detti son quali dal labbro
dei dementi si possono udire.
In che mai da follia differiscono
i tuoi voti? In che mai si rallenta
tua demenza? - Or voi, dunque, fanciulle,
che al suo duol v'attristate, su', presto,
questi luoghi fuggite, ché il mugghio
spaventoso del tuono, non debba
per l'orrore distruggervi il cuore!
CORO:
Altro parla, dammi altro consiglio,
e potrai suadermi; ma quello
ch'or mi dài, non è già tollerabile.
Come vuoi che da trista io m'adoperi?
Quanto forza è patire, con lui
patirò: chi tradisce l'amico
odïar m'è costume: né morbo
c'è per me piú di questo aborrito.
Ermète:
E sia pure. Ma ciò ch'io predíco
a memoria tenete, né poi,
da sciagure irretite, vogliate
dar biasmo alla sorte,
né lagnarvi che spinte v'ha Giove
ad un cruccio imprevisto. No certo:
voi da voi vi ci siete gittate.
Coscïenti, e non già di sorpresa,
per subdola insidia,
strettamente nei lacci insolubili
di sventura sarete impigliate.
Promèteo:
Ecco i fatti, e non piú le parole.
La terra sussulta,
mugghia l'eco del tuono profonda,
tutte fiamma le spire lampeggiano
delle folgori, a vortici va
roteando la polvere, dànzano,
l'un con l'altro azzuffandosi i soffî,
tutti i venti: confusi con l'ètere
si sconvolgono i flutti del mare.
Tanta furia scoscende da Giove
contro me, perché tremi il mio cuore.
Di mia madre o tu fregio, o tu ètere,
tu che a tutti comparti la luce,
l'ingiustizia ch'io soffro mirate!
(In mezzo a fulmini e orribili tuoni la montagna scoscende
e seppellisce Promèteo)

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