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mercoledì 19 gennaio 2011

L’attore è un’artista?

1-01-1954
La visione del teatro per l'attore

L’attore sa che il teatro è un fatto definitivo, senza spiegazioni, né premesse, né postille. L’attore sa che il teatro si esplica, per lui, ogni sera tra un’apertura e una chiusura del sipario. L’attore sa che un’unica possibile espressione gli è consentita, attraverso la parola altrui pronunciata sul palcoscenico. Perciò l’attore non sa parlare. Nemmeno del proprio mestiere. O ne parla male. Sono così giuste ed umane alcune frasi dell’ultimo Jouvet: “Si entra in una parte, ci si infila in una parte, si mette in azione un testo e poi ci si giustifica con delle idee, venute dopo. Ma quando si tratta di pensare, di parlare, di scrivere, l’attore è lasciato a sé stesso, nel suo vuoto. La sua natura e la sua vocazione sono quelle di essere vuoto, risonante, disponibile, vacante, abitabile. L’attore si annienta, sentendosi parlare o leggendo le sue proposte. E per una curiosa ironia, quest’uomo fatto per parlare, è incapace di farlo per conto suo.” 
Eppure nessun luogo più del teatro stimola il pensiero “sul” teatro. L’attore medita sempre su ciò che è teatrabile, su tutto ciò che fa parte del suo mestiere, ma senza sistema, direi, come una divagazione, come un fatto personale. Un fatto di pensiero-sensazione condizionato dall’azione del teatro, e che nell’azione del teatro soltanto si definisce e si chiarifica.
L’uomo di teatro non riesce, se uomo di teatro, a sfuggire al limite concreto del suo mestiere di teatrante. Il diario umano ed estetico di un uomo di teatro è scritto con azioni teatrali, nel teatro, per il teatro, attraverso il teatro e si brucia pagina per pagina nei limiti di una ribalta, reale o immaginaria che sia. Il resto è didascalia, apposizione, tentativo di pedagogia. La verità o la falsità di una vita di teatro, la nascita di un’estetica teatrale avviene soltanto attraverso l’operare quotidiano del teatro, attraverso l’esempio e il lavoro sul palcoscenico. Questi limiti restano immutabili, anche dove le affermazioni paiono giungere all’assoluto, o dove la teoria pare urtarsi contro la pratica quotidiana del mestiere. Il fatto è che l’avventura del teatro contemporaneo, l’affanno di una lotta esplicita più che altro nel senso di far sussistere la “forma” drammatica, entro i limiti di una società che sempre più si allontana da essa, sembra distrarci dalla problematicità di una vera drammaturgia, talché tale drammaturgia, ricercata nella sua sostanza più completa, diventa mitica, astratta.
E alcuni ragionamenti estetici assoluti sembrano porsi persino in contrasto con le condizioni dell’attività giornaliera dell’uomo di teatro. Non ultima assurda condizione del fenomeno drammatico nell’ambito della civiltà contemporanea. Non ultima misura di un decadimento in atto. All’attore il teatro si presenta in un modo estremamente concreto. Si presenta semplicemente come un complesso di rapporti quotidiani e di risultati, al di fuori non esiste una “idea” del teatro e non serve. Teatro è il risultato a posteriori, non un fatto “a priori” dell’incontro di elementi eterogenei in un reciproco gioco di equilibri, subordinazioni ed eccitazioni. È questa una definizione che appare quasi ovvia. Ma per l’attore il teatro è tutto qui. E cioè il più complesso che diviene il più semplice. In questa direzione l’attore riconosce la fondamentale unità del teatro, priva di reali contrasti o di opposizioni sostanziali. Il teatro come fatto unitario, e soltanto unitario, e raggiunge una verità che molte estetiche non riescono a trovare. Unità e concretezza del teatro per cui l’attore sa bene che il “teatro” non esiste senza che egli reciti, senza un testo, senza un pubblico che ascolti il testo recitato. Direi ancora di più: al di là del riconoscimento di questi elementi costitutivi, l’attore sente che il teatro è ancora da raggiungere, che, cioè, il teatro nasce non solo della presenza unitaria degli elementi che lo compongono, ma da un particolare “atto trasfigurativo” da una specie di incandescenza che sorge ad un certo tempo.
L’attore a questa incandescenza dà il nome di successo. E non sbaglia nella sostanza, anche se equivoca sul significato di “successo”. Un teatro senza successo, senza questa incandescenza che ha nome successo, è smorfia, soprattutto squallore. I francesi hanno un termine teatrale assai commovente per identificare questo fenomeno fondamentale: la parola “réussite”. Un successo a teatro è “une réussite,” qualcosa cioè che è riuscito (a divenire). Il processo del teatro è riuscito.
Quando il processo riesce, e soltanto se riesce, diviene il “teatro,” cessa ogni contrapposizione tra gli elementi costitutivi (testo-spettacolo-collettività), cessa la possibilità di contrapporre su un piano separato questi elementi, come troppo spesso e da troppo tempo fatalmente avviene. Cessa cioè la tipica tendenza della decadenza: quella di dividere, di specializzare, di scindere, di contrapporre, invece di ricercare la originaria unità del molteplice.
L’attore, invece, semplicemente, accetta questa unità del teatro e non sa giudicarla – per fortuna – su “altri” schemi di giudizio estetico. Non accetta soprattutto, quindi, la presa di possesso del teatro da parte di uno dei suoi elementi. Semmai la subisce e si subordina alle “necessità” del tempo in cui vive. Ma egli sente che l’equilibrio, l’armonia, la semplicità, l’accordo delle cose e degli uomini, della parola con la voce, della voce col gesto, della parola pronunciata e dimensionata nello spazio davanti e insieme alla sua collettività sono il “teatro.” E che oltre, o prima di questo esistono delle possibilità di teatro, ma non il teatro. Egli stesso si considera dunque una “possibilità” teatrale, così il teatro drammatico, così il pubblico che affluisce e si riunisce nella sala del teatro. Sotto questo aspetto l’incontro del teatro con il testo diviene per l’attore un’azione fondamentale, basilare, ma non unica. Per l’attore leggere un testo drammatico e giudicarlo nelle sue parti, è comprenderne le possibilità di essere messo in azione. L’attore insomma non accetta un testo come un fenomeno letterario definito o lo accetta solo a condizione di poterlo realizzare drammaticamente, di riconoscergli le capacità di realizzarsi drammaticamente. Per l’uomo di teatro il testo drammatico è una larva di drammaturgia e un qualcosa di “inconcluso”. Egli sente che se così non fosse, questo qualcosa sarebbe “altro”: poesia, racconto, romanzo, cercherebbe il suo contatto “singolarmente” con il lettore nel silenzioso colloquio tra pagina e uomo che legge. L’opera di teatro invece cerca il suo contatto collettivamente in suono e movimento e “durata” assai ben specificata nel tempo: quello della rappresentazione. Non prima e non dopo. Il problema del “valore” letterario del testo drammatico, autonomo, fuori del teatro, si presenta, del resto, continuamente, ma per il “teatro” l’opera di letteratura drammatica è sempre un presentimento, più che una certezza. La stessa conoscenza letteraria del testo è presentimento di poesia. La disponibilità del personaggio e della situazione – come avviene nella lettura del romanzo e quindi anche nella lettura dell’opera teatrale – non è ammessa dal teatro che impone la “sua” misura del personaggio, si iscrive anche l’unico “tempo” dello scioglimento drammatico. L’acme tragica, che non può essere spostata in avanti o indietro oppure dilazionata chiudendo la pagina, o ritardata secondo un diario privato, ma che avviene quando “deve” avvenire; in un solo punto, in un solo momento, in “quel” momento.
Si potrebbe dire che soltanto in un attimo si libera la sostanza del teatro, quasi che tutto il resto sia un preludio a questo avvenimento tragico. 
L’attore, sebbene legato alla spesso povera avventura del teatro quale le epoche glielo concedono, conosce bene questo momento, questo “coinvolgersi” di cose e uomini in “unità”. Lo considera appunto come “teatro”. E sa che il resto alla lettura potrà solo presumerlo, “indicarlo”. La lettura di un testo drammatico – quindi la sua conoscenza letteraria – comporta sempre una mutilazione o una diminuzione per il comico, che definisce “teatrale” o no l’opera del teatro. L’attore dice di un’opera ad esempio: è bella ma non teatrale. Sotto l’empirismo anche qui si nasconde una verità. Si tratterà certo di stabilire quali sono i “canoni” possibili di questa “teatralità”, quali i falsi attributi e quali i veri, ma è un altro discorso. Il fatto è che l’attore – anche quello che conferisce al testo la realtà di un vangelo: fatto unico, eterno, intangibile – riporta il testo ad una misura teatrale e non soltanto ad una misura letteraria. Lo riporta ad una “sua misura”, e in definitiva si potrà dire che l’attore considera pericolosa la lettura “altrui” del testo drammatico (egli “può” leggere, perché “sa” come leggere o crede di sapere “come”deve essere letto). L’attore non ama le biblioteche teatrali. 
Il testo drammatico per “dimensionarsi”, per completarsi, corre dunque verso la sua rappresentazione. Corre cioè verso gli attori. Diviene quasi un punto di partenza. Per l’attore, il mestiere dell’attore, infatti, è un punto intermedio nell’unità del teatro, nato attraverso dialettiche interne. Il testo un punto di partenza. Il pubblico un punto di arrivo. 
Se ciò è vero, se cioè la “conoscenza” del testo drammatico nella sua realtà può avvenire solo attraverso l’attore, appare evidente la responsabilità dell’interpretazione. Dal punto intermedio nella creazione del teatro. Accettare l’unità del teatro porta dunque con sé alcune conseguenze di responsabilità.
Giorgio Strehler.

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