LE FANTASIE
I
Per entro i fitti popoli;
Lungo i deserti calli;
Sul monte aspro di gieli;
Nelle inverdite valli;
Infra le nebbie assidue;
Sotto gli azzurri cieli;
Dove che venga, l'Esule
Sempre ha la patria in cor.
Accolto in mezzo ai liberi
Al conversar fidente;
Ramingo tra gli schiavi,
Chiuso il pensier prudente;
Infra gl'industri unanimi;
Appo i discordi ignavi;
O fastidito, od invido,
Sempre ha la patria in cor.
Sempre nel cor l'Italia,
S'ell'anche obblìa chi l'ama;
E carità con cento
Memorie lo richiama
Là sempre a quei che gemono,
Che aggira lo spavento;
E a quei che trarli ambivano
Di servi a libertà.
S'ei dorme, i suoi fantasimi
Sono l'Italia: e vanno
Baldi ne' sogni, o abbietti,
A suscitargli affanno;
E le parventi assumono
Forme e gli alterni affetti
Or dai perduti secoli,
Or dalla viva età.
Era sopito l'Esule;
Era la notte oscura;
Con lui tacea d'intorno
L'universal natura
Presso a sentir la gelida
Ora che è innanzi al giorno;
Quando il pensier su l'andito
Un uom gli figurò.
Dato ha il cappuccio agli omeri,
Indosso ha il lucco antico,
Cinto è di cuojo, e viene
Grave, ma in atto amico;
Trasfuso agli occhi ha il giubilo
Come d'un'alta spene;
La sua parola è folgore:
Dirla oggimai chi può? —
L'han giurato. Li ho visti in Pontida
Convenuti dal monte, dal piano.
L'han giurato; e si strinser la mano
Cittadini di venti città.
Oh, spettacol di gioja! I Lombardi
Son concordi, serrati a una Lega.
Lo straniero al pennon ch'ella spiega
Col suo sangue la tinta darà.
Più sul cener dell'arso abituro
La lombarda scorata non siede.
Ella è sórta. Una patria ella chiede
Ai fratelli, al marito guerrier.
L'han giurato. Voi, donne frugali,
Rispettate, contente agli sposi,
Voi che i figli non guardar dubbiosi,
Voi ne' forti spiraste il voler.
Perchè ignoti che qui non han padri,
Qui staran come in proprio retaggio?
Una terra, un costume, un linguaggio
Dio lor anco non diede a fruir?
La sua parte a ciascun fu divisa.
È tal dono che basta per lui,
Maledetto chi usurpa l'altrui,
Chi 'l suo dono si lascia rapir!
Su, Lombardi! Ogni vostro Comune
Ha una torre; ogni torre una squilla:
Suoni a stormo. Chi ha in feudo una villa,
Co' suoi venga al Comun ch'ei giurò.
Ora il dado è gettato. Se alcuno
Di dubbiezze ancor parla prudente;
Se in suo cor la vittoria non sente,
In suo core a tradirvi pensò.
Federigo? Egli è un uom come voi.
Come il vostro, è di ferro il suo brando.
Questi scesi con esso predando,
Come voi veston carne mortal. —
Ma son mille! più mila! — Che monta?
Forse madri qui tante non sono?
Forse il braccio onde ai figli fêr dono,
Quanto il braccio di questi non val?
Su! nell'irto, increscioso Alemanno,
Su! Lombardi, puntate la spada:
Fate vostra la vostra contrada,
Questa bella che il ciel vi sortì.
Vaghe figlie dal fervido amore,
Chi nell'ora dei rischi è codardo
Più da voi non isperi uno sguardo,
Senza nozze consumi i suoi dì.
Presto, all'armi! Chi ha un ferro, l'affili
Chi un sopruso patì, sel ricordi.
Via da noi questo branco d'ingordi!
Giù l'orgoglio del fulvo lor sir!
Libertà non fallisce ai volenti,
Ma il sentier de' perigli ell'addita;
Ma promessa a chi ponvi la vita,
Non è premio d'inerte desir.
Gusti anch'ei la sventura e sospiri
L'Alemanno i paterni suoi fochi:
Ma sia invan che il ritorno egli invochi;
Ma qui sconti dolor per dolor.
Questa terra ch'ei calca insolente,
Questa terra ei la morda caduto:
A lei volga l'estremo saluto,
E sia lagno dell'uomo che muor.
II.
Era sopito l'Esule;
Era la notte oscura;
I sogni suoi travolti
Altra pingean figura.
Eran sembianze cognite,
Già discernuti volti,
Gente su cui diffondesi
Vitale ancora il sol.
Quale il piè lindo esercita
A danze pellegrine.
Quale allo specchio è intento
A profumarsi il crine.
E qual su molle coltrice
S'adagia; e vinolento
Rattien della fuggevole
Gioja, cantando, il vol: —
Pera chi stolido
Mi tedia l'anima,
Querulo, indocile
A servitù!
Ebben! che importami,
Se omai l'Italia
Nome tra i popoli
Non serba più?
Forse che sterili
Sul colle i pámpini
Ai prandi niegano
L'ilarità?
Forse che i rosei
Baci ne mancano,
E i furti facili
Della beltà?
Stringan l'imperio
Su noi gli estranei,
Se la mia stringerlo
Destra non può.
Ma non sia ch'emule
Con me sollevisi
Chi nella polvere
Finor posò.
La notte vedila
Tener le tenebre;
E il giorno limpido
I bel color:
Tai la progenie
Dell'uom dividono,
Due fati immobili,
Gioja e dolor.
Se v'ha chi è in lagrime
Sorga maledico
Contra le viscere
Che il concepir
Nè lo spregevole
Figliuol del povero
Fra i nati al giubilo
Stenda il sospir.
Oh, il nappo datemi!
Beviam! sommergasi
Tutta de' gemiti
La vanità!
Beviam! divampino
E lombi ed anima!
Gli occhi scintillino
Di voluttà!
Sul labbro scocchino
Le oblique arguzie,
I prieghi e il calido
Ghigno d'amor,
Onde le cupide
Mogli m'invocano
Caro dei talami
Trïonfator!
Beviam! chè il domito
Sposo non vigila;
E anco la timida
Divezzerò;
Lei che il volubile
Fianco e le grazie
A' gai spettacoli
Nuova recò.
Poggiato a un candido
Sen, non m'assalgano
Nenie per l'italo
Defunto onor;
Ma baci fervidi,
Lepide insidie,
Deliri, aneliti,
E baci ancor.
III.
Era sopito l'Esule
Era la notte oscura;
Un altro il sogno. — Ei siede
Svagato a una pianura.
Stirpe di padri adulteri
Quivi trescar non vede,
Ma catafratto un popolo
Dalla battaglia uscir.
Quel che giurâr l'attennero;
Han combattuto, han vinto.
Sotto il tallon dei forti
Giace il Tedesco estinto.
Ecco i dispersi accorrere
Che scapigliati e smorti
Cercan ridursi all'aquile,
Chiaman sussidio al sir.
Egli? — è scampato. Il veggiono
Nel bosco i suoi donzelli
Le man recarsi al mento,
Stracciarne i rossi velli;
Mentre i lombardi cantici
Col trïonfal concento
A lui da tergo intimano
Che qui non dee regnar.
Preda dei primi a irrompere
Nel padiglion deserto,
Ecco ostentar pel campo
L'aurea collana e il serto:
E la superba clamide,
E delle borchie il lampo
Ecco, a ludibrio, l'omero
Di vil giumenta ornar.
Come tra i brandi, mistico
Auspicio d'Israele,
L'Arca del divin patto
Con lor venìa fedele;
Così la croce, indizio
Dell'immortal riscatto,
Cinta dal fior de' militi,
Qui sul Carroccio sta.
Ecco, i lor giachi sciogliere,
Depor le cervelliere,
E tutte intorno al Cristo
Si riposâr le schiere.
Eccole a Dio, cui temono,
Prostrarsi, ed il conquisto
Gli riferir dell'ardua
Lombarda libertà.
Per la campagna, orribile
Di morti e di morenti,
Donne van mute in volta,
Cercando impazïenti
Quei che han mancato al novero
Quando squillò a raccolta,
Quando le madri accorsero
Festanti ai vincitor.
E anch'essi han le lor lagrime;
Figli dell'uomo anch'essi,
Che aspira ai gaudi, e interi
Non gli son ioni concessi!
Curve là donne ingegnansi
D'intorno ad un che i fieri
Spasmi di morte occupano
Con l'ultimo pallor.
Sovra i nemici esanimi
Ei si languìa caduto.
L'hanno le pie sorretto
L'hanno tra' suoi venduto.
Per tre ferite sanguina
Rotto al guerriero il petto:
Nè tuttavolta il rigido
Pugno l'acciar lentò.
Ma non han detto al misero
Che più non v'è cui fera?
Che in tutto il campo sola
Sventa la sua bandiera?
Che, cui la fuga all'avide
Lance lombarde invola,
Perde il Ticino al valico,
Li dà sommersi al Po?
Il sa che spose ai liberi,
Madri d'angustia uscite
Son queste che devote
Baciar le sue ferite.
Oh, quanta gioja irradia
Le moribonde gote!
Di qual conforto provida
Rimerita il valor!
Presso a migrar, lo spirito
Si stringe al cor; l'aïta,
L'agita, il riconduce
Al batter della vita:
Gli occhi virtù ripigliano
A comportar la luce:
Odi, sul labbro valida
Ferve la voce ancor! —
Dove son le tre nunzie dei santi,
Le colombe che uscir dall'altare?
Con che bello, che fausto aleggiare
Dal Carroccio all'antenna salir!
Fur le bande nimiche allor viste
Ceder campo, tremar del portento,
E percosso da miro spavento
Rovesciarsi il cavallo del sir.
Dio fu nosco. Al drappel de la Morte
Alla foga de carri falcati
Ei fu guida, per chiane e fossati
Impigliando gli avversi guerrier.
Sì, Colui che par lento agli afflitti,
È il Dio vigil che pugna per essi;
Nel suo giorno ei solleva gli oppressi,
Fa su i prenci il disprezzo cader.
Or, m'udite! Al giaciglio de' servi
Questa rissa di sangue vi toglie:
Saldi, eretti, rïarsi di voglie,
Vi fa donni del vostro vigor.
Ma vi affida un destin che v'è nuovo,
Che vi sbalza su ignoti sentieri:
A percorrerli voi, v'è mestieri
Altro spirto comporvi, altro cor.
Oh! dannati que' giorni quand'uomo
Da quali fosse città peregrino,
Per qual porta pigliasse il cammino,
Uscìa verso un'esosa città!
Non la siepe che l'orto v'impruna
È il confin dell'Italia, o ringhiosi;
Sono i monti il suo lembo: gli esosi
Son le torme che vengon di là.
Le fiumane dei vostri valloni
Si devian per correnti diverse;
Ma nel mar tutte quante riverse,
Perdon nome e si abbraccian tra lor:
Così voi, come il mar le lor acque,
Tutti accolga un supremo pensiere,
Tutti mesca e confonda un volere,
L'odio al giogo d'estranio signor.
Le città, siccom'una con una,
Abbian pace anche dentro: e l'insegni,
Col deporre i profani disegni,
L'uom che stola e manipol vestì.
Capitan, valvassor, cittadino
Cessi ognun dai livori di parte.
Il Lombardo che è scritto ad un'Arte,
Non dispetti chi un'altra seguì.
Al fratel di più forte consiglio
Chi vergogni obbedir non vi sia;
Perchè nulla vergogna più ria
Che obbedire al soldato stranier.
Se un rettor, se un de' consoli falla,
Tollerate anche i guai dell'errore,
Perchè nulla miseria maggiore
Che in dominio d'estranei cader.
E voi, madri, crescete una prole
Sobria, ingenua, pudica, operosa.
Libertà mal costume non sposa,
Per sozzure non mette mai piè. —
Addio tutti... Appressate al morente...
Ch'io mi posi a una destra vittrice.
Cari miei, non mi dite infelice;
Non piangete, o fratelli, per me.
Era allor da compiangermi quando
A scamparvi, per Dio! dal servaggio,
Vi richiesi un dì sol di coraggio,
E mi deste litigi e viltà!
Tutto in gioja or mi torna, fin anco
Se del tanto dolor mi ricordi.
È il doler che n'ha fatto concordi:
La concordia vincenti ne fa.
Miser quei che in sua vita non colse
Un fior mai dalla speme promesso!
Quei che senza venirgli mai presso,
Corse anelo, insistente ad un fin!
Peggio, ancor, se qui giunto com'io,
Qui sul passo che sganna ogni illuso,
Vólto indietro, s'accorge confuso
Ch'era iniquo il fornito cammin!
Ma la via ch'io mi scelsi fu santa.
Ma il dover ch'era il mio, l'ho compiuto.
Questo dì eh io volea, l'ho veduto:
Or clemente m'accolga Chi 'l fe'.
Qualche volta, pensose la sera,
Mi rammentin le donne ai mariti:
Qualche volta ne' vostri conviti
Sorga alcuno che dica di me:
In parole fu acerbo con noi
Fin che Italia nell'ozio si tenne.
Quando il giorno dell'opre poi venne,
Uno sguardo egli intorno girò;
Pose in lance il servaggio e la morte;
Eran pari; — e a Dio l'alma commise:
In Pontida il suo sangue promise;
Il suo sangue a Legnano versò.
IV.
Era sopito l'Esule;
Era la notte oscura.
Il sogno erano agnelle
Vaganti alla pastura;
Campi che leni salgono
Su per colline belle;
Lontano a dritta ripidi
Monti, e altri monti ancor
Dinanzi una cerulea
Laguna, un prorompente
Fiume che da quell'onde
Svolve la sua corrente.
Sovra tant'acque, a specchio,
Una città risponde;
Guglie a cui grigio i secoli
Composero il color;
Ed irte di pinacoli
Case, che su lor grevi
Denno sentir dei lenti
Verni seder le nevi;
E finestrette povere,
A cui ne' dì tepenti
La casalinga vergine
Infiora il davanzal.
È il tempo in cui l'anemone
Intisichisce e muore,
Cedendo i Soli adulti
A più robusto fiore.
Purpureo ecco il garofano
Sbiecar d'in su i virgulti
Dell'onorato amaraco,
Del dittamo vital.
Per tutto è moltitudine;
È un dì come di festa.
Donne che su i veroni
Sfoggiano in gaja vesta:
Giù tra la folla un séguito
D'araldi e di baroni,
Che una novella spandono
Come gioconda a udir.
Ma che parola parlino,
Ma che novella sia,
Ma che risposta renda
Chi grida per la via,
Nol può il sognante cogliere,
Per quant'orecchio intenda:
E gente che coll'Italo
Non ha comune il dir.
Que' suoi baroni emergono
Segnal d'un dì vetusto:
È ferreo il lor cappello,
È tutto maglia il busto:
Tal fra le vôlte gotiche
Distesa in su l'avello
Gli avi scolpian l'effigie
del morto cavalier. —
Passan da trivio in trivio;
Dar nelle trombe fanno;
Cennan che il popol taccia;
Parlano. — Intente stanno
Le turbe. E plausi e battere
Di palme a quei procaccia
Sempre il bandito annunzio
Sovra qual trivio il dier —
Ma di che fan tripudio?
Ma che parola han detto?
Ma sul cammin la calca
Or di che sta in aspetto?
La pompa ond'essi ammirano,
Più e più lontan cavalca;
E anco lontan non s'odono
Trombe oramai squillar.
Pur non v'è uom che smovasi
A ceder passo altrui.
Chi d'usurparlo ardisce,
Balza respinto; e lui
Del suo manchevol impeto
Chi 'l vantaggiò, schernisce.
Da ciascun gesto il tendere
De' curiosi appar.
All'ondeggiante strepito
Di sì condensa gente,
Ecco, una muta sosta
Or sottentrò repente.
Pur nè le trombe suonano
Nè palafren s'accosta
Che porti del silenzio
L'araldo intimator.
È un quietar spontaneo
Un ripigliar decoro.
Par anco peritosa
Una sfidanza in loro,
Come di chi con palpito
S'appresta a veder cosa
Che riverenza insolita
Sa che dee porgli in cor.
Ecco far ala, e un adito
Schiuder. Chi è mai che vegna? —
Non da milizie scorti,
Non da fastosa insegna,
Son pochi, — sol conspicui
Per negri cigli accorti.
In mezzo il biondo popolo,
Muovono lento il piè.
A coppia a coppia, in semplici
Prolisse cappe avvolti.
Che franchi atti discreti!
Che dignità nei volti!
Tra lor dan voce a un cantico.
Tra lor l'alternan lieti.
Oh, della cara Italia
La cara lingua ell'è! —
Lo stesso evangelo toccato da' suoi,
Toccammo a vicenda; giurammo anche noi
Quel ch'egli col labbro dei Conti giurò.
Su l'anime nostre, su quella di lui
Sta il patto: la perda, la danni colui
Del quale avran detto che primo il falsò.
In Curia solenne, fra un nugol di sguardi,
Qual pari con pari, coi Messi lombardi
Fu d'uopo al superbo legarsi di fè!
Il popol ch'ei volle punito, soggetto,
Gli sfugge dal piglio; gli siede a rimpetto,
Levata la fronte, sicuro di sè.
La pace! la pace! Rechiamola ai figli.
Nunziamo alle spose finiti i perigli
Di ch'elle tant'anni pei cari tremâr.
L'immune abituro pregato ai mariti,
Or l'han; nè più mogli di servi scherniti,
Ma donne di franchi s'udranno chiamar.
Addio, belle rive del fiume straniero,
E tu, mitigato signor dell'impero,
E tu, pei Lombardi la fausta città.
Tornati a sedere su i fiumi nativi,
Compagno de' nostri pensier più giulivi,
Costanza, il tuo nome perpetuo verrà.
Ma quando da canto le nostre lettiere
Vedrem le sospese labarde guerriere,
E i grumi del sangue che un dì le bruttò;
Un altro bel nome ricorso alla mente
Diremo alle donne; ciascuna, ridente,
Poggiatasi al braccio che i fieri prostrò.
Direm lo sbaraglio del campo battuto,
E il sir di tant'oste tre giorni perduto,
Tre notti fra dumi tentando un sentier.
La regia, consorte tre notti l'aspetta,
Tre giorni lo chiama dall'alta veletta
Al quarto, — misviene fra i muti scudier.
L'han cerco nel greto, nell'ampia boscaglia;
Indarno! — Sergenti, valletti in gramaglia,
Preparar nell'aula l'esequie del re. —
No, povera afflitta, non metterlo il bruno.
Giù al ponte v'è gridi; — lo passa qualcuno
È desso, — in castello; — domanda di te.
No, povera afflitta, tu colpa non hai:
E il Ciel te lo rende; nè tu le saprai
Le angosce sofferte dall'uom del tuo cor.
Ma taci; e ti basti che vano è il corrotto.
Nessun di battaglia s'attenti far motto;
Nessun con inchieste gl'irriti il rossor.
È altrove, è fra i balli del popol ritroso
Che fervon racconti del dì sanguinoso.
Là chiede ogni voce: Guerrieri, che fu? —
Oh, bello! sul campo venir di quel prodi,
Tracciarne i vestigi, ridirne le lodi,
Membrarne per tutto l'audace virtù!
Nei dì del Signore, dinanzi gli altari,
Allor che l'uom, netto d'affanni volgari,
L'origin più tende da cui derivò;
Ignoti al rimorso d'averla smentita,
Oh bello! in sen piena sentirci la vita,
Volenti, possenti, quai Dio ne creò!
Nel coglier dell'uve, nel mieter del grano,
Dovunque è una gioja, fia sempre Legnano
L'altera parola che il canto dirà.
Ma, guai pe' nipoti! se ad essi discesa,
Diventa parola che muor non compresa.
Quel giorno l'infame dei giorni sarà.
Snerbato, curante ciascun di sè solo;
Qual correr d'estranei! qual onta sul suolo
Che a noi tanto sangue, tant'ansie costò!
Allor, non distinti dai vili i gementi,
Guardando un tal volgo, diranno le genti:
I re che ha sul collo son quei mertò.
V.
Era sopito l'Esule;
Era la notte oscura;
E nulla più del lago
E delle grigie mura.
Ecco ne' sogni mobili
Una diversa imago;
Ecco un diverso palpito
Del dormiente al cor.
Pargli aver penne agli omeri,
E un ciel che l'innamora
Battere, ai rai vermigli
D'italïana aurora.
Fiuta dall'alto i balsami
De' suoi materni tigli;
Gode in veder la turgida
Foglia de' gelsi ancor.
Come la vispa rondine,
Tornata ov'ella nacque
Spazia sul pian, sul fiume,
Scorre a lambir fin l'acque,
Sale, riscende, librasi
Su l'indefesse piume,
Viene a garrir nei portici,
Svola e garrisce in ciel;
Così fidato all'aere
Ei genïal lo spira;
E cala ognor più il volo,
Più lo raccorcia, e gira
Lento, più lento, a radere
Il vagheggiato suolo;
Com'ape fa indugevole
Circa un fiorito stel.
L'aja, il pratel, la pergola
Dove gioìa fanciullo;
L'erte indicate ai bracchi
Nel giovenil trastullo;
Le fratte d'onde al vespero,
Chino a palpar gli stracchi,
Reddia, colmo sul femore
Pendendogli il carnier;
Tutti con l'occhio memore
I siti, egli rifruga,
I cari siti, ahi lasso!
Che nell'amara fuga
Larve mandar parevano
A circuïrgli il passo,
A collocargli un tribolo
Sovra ciascun sentier,
Rinato ai dì che furono,
Il mattin farsi ammira
Più rancio; e la salita
Del Sol piena sospira.
Tanto che intorno ei veggasi
Ribrulicar la vita,
Oda il venir degli uomini.
Voli dinanzi a lor.
Tutta un sorriso è l'anima
Di riversarsi ardente.
Presago ei si consola
Nelle accoglienza; e sente
Che incontreria benevolo
Fin anco lei che sola
Sa pur di quale assenzio
Deggia grondargli il cor.
Eccolo, il Sol! Frettevoli
Pestan la guazza, e fuori
A seminati, a vigne
Traversano i coltori.
Recan le facce stupide
Che il gramo viver tigne;
Scalzi, cenciosi muovono
Sul suol dell'ubertà.
Dai fumajuoli annunziansi
Ridesti a mille a mille
I fochi dei castelli,
Dei borghi e delle ville.
Dove più folto è d'uomini,
A due, a tre, a drappelli
Escono agli ozi, all'opere,
Sparsi per la città.
Son questi? È questo il popolo
Per cui con affannosa
Veglia ei cercò il periglio,
Perse ogni amata cosa?
È questo il desiderio
Dell'inquïeto esiglio?
Questo il narrato agli ospiti
Nobil nel suo patir?
Ecco, infra loro il teutono
Dominator passeggia;
Li assal con mano avara;
Li insidia; li dileggia:
Ed ei tacenti prostransi,
Fidi all'infame gara
Di chi più alacre a opprimere
O chi 'l sia più a servir.
In tante fronti vacue
D'ogni viril concetto
Chi un pensier può ancor vivo
Sperar d'antico affetto?
Chi vorria farvel nascere?
Chi non averlo a schivo
Come il blandir di femmina
Sul trivio al passeggier?
Lesto da crocchio a crocchio
Il volator trapassa
E gl'indaganti sguardi
Su quel, su questo abbassa.
I bei presagi tornangli
Ad uno ad un bugiardi;
Pur vola e vola, e indocile
Discrede il suo veder.
Colà una donna? Ahi, misera!
Qual caro suo l'è tolto?
Non è dolor che agguagli
Quel che l'è impresso in volto.
Par che da forze perfide
Messa quaggiù in travagli,
Sporga vêr Dio la lagrima
Cui gli uomini insultar.
Patria!... Spilberga!... vittime!...
Suona il suo gemer tristo. —
Quel che dir voglia, il sanno;
Com'ella pianga, han visto:
E niun con lei partecipa
Tanto solenne affanno;
Niun gl'infelici e il carcere
Osa con lei nomar.
Chi dietro un flauto gongola
Chè di cadenze il pasca,
E chi allibbisce ombroso
D'ogni stormir di frasca;
Come nel bujo il pargolo
Sotto la coltre ascoso,
Se il dì la madre, improvida,
Di spettri a lui parlò.
Altri il pusillo spirito
Onesta d'un vel pio;
Piaggia i tiranni umìle,
E sen fa bello a Dio.
Come se Dio compiacciasi
Quant'è più l'uom servile,
L'uom sovra cui la nobile
Immagin sua stampò!
E quei che fean dell'itale
Trombe sentir lo squillo
Là sulla Raab, soldati
Del tricolor vessillo,
Che a tener fronte, a vincere
Correan, — per tutto usati
L'Austro, il Boemo, l'Unghero
Cacciar dinanzi a sè,
Dove son ei? — Già l'inclita
Destra omicida è polve?
Tutte virtù l'argilla
Del cimitero involve?
O de' conigli l'indole
Anco il leon sorbilla,
E dei ruggiti immemore
Lambe a chi 'l calca i piè? —
Al dubbio amaro, l'Esule,
Come una man gli fosse
Posta a oppressar sul core,
Si risentì; si scosse
A distrigar l'anelito,
A benedir l'albóre
Che dalle vane immagini
Al ver lo ravviò.
Desto; — ammutito, immobile
Il suol com'uomo affisse
Che del suo angor vergogni:
Poi quel che vide ei scrisse.
Ma quel che ancor l'ingenuo
Soffre, pensando ai sogni,
Sol cui la patria è un idolo
Indovinar lo può.
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