LA BANCAROTTA
O SIA
IL MERCANTE FALLITO
di Carlo Goldoni
Rappresentata per la prima volta in Venezia, un anno dopo alla precedente[1], parte scritta e parte a soggetto, ed ora cambiata, riformata ed in miglior forma ridotta
ALL'ILLUSTRISSIMO ED ERUDITISSIMO
SIGNOR CONTE
ANGIOLO ANTELMINELLI CASTRACANI
PATRIZIO FANESE
Si maraviglierà con ragione l'Illustrissimo ed eruditissimo Signor Conte Angiolo Antelminelli, veggendo il nome suo in fronte di una delle mie Commedie, ma allora quando sì compiaccia udir la ragione che mi ha indotto ad arrogarmi un tale arbitrio, spero troverà egli l'ardir mio degno di perdono e di scusa. Da che col mezzo delle stampe sparse si sono le opere mie per l'Italia principalmente, molte persone, ch'io non conosco se non per fama, e che non conoscono me che per la lettura delle Commedie date alla luce, mi hanno voluto onorare della loro protezione e della loro amicizia, scrivendomi lettere di cortesia e di gentilezza ripiene, delle quali non iscarsa copia fra le carissime cose conservo. Altri, che non hanno pensato ad onorarmi in tal modo, non lasciarono non pertanto di farmi penetrare l'inclinazione del loro animo verso di me, perché l'approvazione ch'essi accordarsi degnano alle povere mie fatiche, valesse a rendermi vie più consolato. Non cesserò mai per questo di ringraziare il mio carissimo signor Abbate Giovan Vespesiano Paperini di Firenze, il quale fra le cento prove datemi di buona amicizia, questa vi aggiunse, partecipandomi in gentil modo che Voi, Illustrissimo Signor Conte, non solo siete uno degli associati alla edizione delle Opere mie, ma un costante protettore di esse, e difensore insieme contro i critici, o mal persuasi, o male inclinati. Ciò inteso con mio diletto, e non senza una ragionevole vanità, cercai di essere più minutamente informato intorno alla persona che di tanto volle onorarmi. Non erami ignoto l'illustre nome della Famiglia de' Castracani, reso assai più glorioso dal rinomato Castruccio Lucchese, il quale nell'anno 1313, favorendo la fazione de' Gibellini contro quella de' Guelfi, si rese padrone di Lucca e di Pistoia, e n'ebbe l'investitura con titolo di Duchea da Luigi IV Duca di Baviera ed Imperatore, onorato altresì dell'illustre grado di Senatore Romano. Era egli pure (siccome abbiamo dal Sabellico, dal Machiavelli, e più elegantemente da Aldo Manuzio), della Famiglia antichissima degli Antelminelli, e Voi traete da lui direttamente l'origine, per uno de' quattro Figliuoli maschi rimasti dopo di esso, e per le guerre della Toscana, e per le varie peripezie di quel secolo, trapiantati altrove in progresso di tempo, onde in Fano, città preclara e antichissima, è annoverata la Vostra Casa fra le più nobili e le più rinomate. L'illustre ed egregio Genitore Vostro, il quale portando il nome venerabile di Castruccio, conserva nella Famiglia la memoria di un sì grande antenato, ha uniti ai fregi del proprio sangue quelli non meno chiari e sublimi della Romana stirpe Capranica, legandosi in matrimonio colla Nobilissima Dama la Signora Contessa Donna Lucrezia Capranica, la quale, se fu involata al mondo con universale cordoglio nel fiore degli anni suoi, lasciò di sé gloriosa memoria, registrata e nelle stampe, e nei bronzi, e in Voi, Signore, principalmente, degno Figliuolo di una sì saggia, di una sì amabile Genitrice. In fatti cercando io avidamente dalle persone che vi conoscono il carattere Vostro particolare, e quali sieno le virtù che Vi adornano, tante me ne furono in vantaggio Vostro descritte, e sì ammirabile ritratto di Voi mi fecero e lingue e penne rispettabili, ingenue, che mi hanno colmato di maraviglia e di consolazione insieme. Chi mi dipinse la Vostra persona gentile, amabile nel conversare; chi l'animo Vostro mi appalesò alla pietà, alla cortesia inclinato; chi della Vostra erudizione parlando, mi assicurò che nella età giovanile in cui Vi trovate, numerosissime sono le scienze che possedete, ed ammirabile il genio che di promoverle e di esaltarle nutrite, corrispondendo assai bene all'amorosissima cura del Padre, che di ottimi precettori vi ha provveduto, fidando le magnanime sue speranze in Voi solo, unico erede della sua casa, e viva immagine de' gloriosi Vostri Antenati.
Sarei il più miserabile uomo del mondo, se dopo sì luminose notizie del novello mio Protettore, non conoscessi il bene che alla gloria mia ne deriva, e non tentassi almeno colle parole di manifestare a Voi, Signore, e al mondo tutto la mia sincera gratitudine rispettosa. Ecco il motivo che io vi diceva a principio avermi guidato a scrivere questo foglio, e collocarlo in luogo ove potesse vivere lungamente agli occhi vostri e a quelli del Pubblico manifesto. Non basta ch'io mi consoli con me medesimo e dica di esservi grato, ma dell'animo mio obbligato una qualche dimostrazione deggio recarvi. Per me medesimo vaglio sì poco, che l'offerirvi il mio cuore e la mia servitù sarebbe lo stesso che farvi Padrone di cosa inutile e malagurata. Grata suol essere l'oblazione de' Figli, ed io, che d'altra natura non ne ho sortito, oltre a quelli dell'intelletto, uno di questi con lieto animo vi presento, non perché pregievole e di Voi degno lo creda, ma perché amor di padre fa sì ch'io l'ami e mi rallegri nel consacrarvelo. Osservate, Illustrissimo Signor Conte, quanti ragguardevoli nomi onorano i miei parti, in questa edizione compresi: mancava il Vostro a compiere una corona alle Opere mie gloriosa, e non ho voluto per verun modo tralasciar di perfezionarla. Dovea, mi direte, di ciò avvisarvi primieramente, ma della Vostra modestia mi hanno bastantemente parlato per dubitare ch'ella mi contrastasse un tal dono, ed ho voluto essere audace nel prevenirla, fidandomi poscia nella Vostra bontà, la quale, se prima del fatto potea trovare argomenti da dissuadermi, ora non saprà del coraggio mio condannarmi. Quattr'anni ormai sono che nutrisco un tal desiderio, e che lo tengo nell'animo mio celato per cotal fine, giacché pari tempo veggo a mia vergogna essere corso, da che diedi principio ai dieci Tomi in molto minor tempo promessi, ma feci già le mie scuse con gli Associati miei umanissimi, ed ora particolarmente a Voi le ripeto, mio benignissimo Protettore e difensor validissimo, supplicandovi ben di cuore che qual vi degnaste essere liberale inverso le Opere mie, lo siate ancora pel mio nome a fronte di coloro, che la mia tardanza acremente tacciassero di mancamento. Di tutte quelle grazie che vi siete compiaciuto farmi finora per sola liberalità d'animo, e per compassion di coloro che vanno al pubblico esposti, e di quelle che d'ora in avanti spero da Voi per generosa condescendenza maggiori, vi ringrazio, Signore, col cuore il più ossequioso e divoto che dar si possa, e quanto ora ho l'onore di esprimervi in quest'umile foglio, spero un giorno potervi confermare personalmente, allora quando le mie circostanze mi permetteranno intraprendere il viaggio di Roma, che da molti anni desidero effettuare. Arrossisco, nell'età in cui sono, e nei viaggi per lo più consumata, non aver ancor veduto quella gran Capitale del Mondo. Aggiungesi a rimproverarmi di ciò gli eccitamenti amichevoli che n'ebbi frequentemente e l'amor proprio ancor niente meno, veggendo quanta fortuna ebbero le mie Commedie in una Città sì erudita, ove gl'ingegni fioriscono, e le belle arti e le scienze come in propria sede campeggiano. So che il mio nome in Roma veniva assai compatito, e con mio estremo cordoglio intesi dirmi che la tardanza di questa mia procrastinata edizione rivolse gli animi di non pochi contro di me, e mi privarono del loro amore. Ma perché mai sì rigoroso castigo ad una colpa che non li ha offesi, se non se nella sollecita compiacenza di leggere le miserabili mie produzioni? Uno sdegno figlio del più tenero amore, facilmente suole placarsi, e mi lusingo, all'apparire di questo decimo Tomo, vedermi nella grazia loro rimesso, in quella maniera che una tenera madre, sdegnata collo sviato suo pargoletto, lo abbraccia teneramente e con affettuosi baci l'accoglie, tosto che lo vede pentito al di lei seno tornare. A Voi non mancheranno, Illustrissimo Signor Conte, nella inclita patria della Vostra gran Genitrice e congiunti, ed amici, e saggi estimatori del Vostro merito; fatemi Voi la scorta presso di loro, per ottenermi colà più agevolmente il perdono, e sia questi un benefizio novello della Vostra venerabile protezione, che a Voi accresca il dritto di avermi a' Vostri comandi, ed a me l'impegno e l'obbligazione di essere in ogni tempo col più ossequioso rispetto
Di V. S. Illustriss.
Umiliss. Dev. Obblig. Servidore
Carlo Goldoni
L'AUTORE A CHI LEGGE
Correva da molto tempo sulle scene d'Italia, fra le cattive Commedie a soggetto, una Commedia pessima, intitolata: Pantalone Mercante Fallito. Questa non era che un ammasso di stolidezze di un Vecchio, che dopo aver dissipato i suoi capitali, riducevasi in prigione a cantare in musica la sua disgrazia, accompagnato da un coro di malviventi. Parvemi l'argomento degno di qualche riflesso, e un poco più ragionevolmente trattato, credei potesse riuscire dilettevole ed utile ancora, ponendo in vista la mala condotta di coloro che si abbandonano alle dissolutezze, e vi perdono dietro le facoltà ed il credito; e le male arti degl'impostori, che fanno gravissimo torto al ceto rispettabile de' Mercadanti, che sono il profitto ed il decoro delle nazioni. Per ottenere l'intento, vidi essere necessario non formare il Protagonista uno stolido, nel qual caso meriterebbe la compassione più che i rimproveri, ma uno di quelli che rovinano se medesimi e tradiscono la propria famiglia, e i corrispondenti, e gli amici, con piena malizia e fraudolenta condotta. Non intendo già di aver fatto un torto alla mia Patria, scegliendolo di nazion Veneziano, poiché in ogni Paese pur troppo se ne vedono tutto dì degli esempi, ma ho voluto seguitare in questo l'idea dell'antica Commedia del Mercante fallito, appoggiandola al Pantalone, ch'è una maschera assai graziosa in Teatro, cognita e grata quasi per ogni parte d'Italia, non essendovi compagnia di Comici o di dilettanti, che un tal personaggio non si compiaccia rappresentare. Ho soddisfatto a questo mio pensamento molti anni sono, allora quando erano per me le Commedie esercizio ancora novello, e la riforma non avea preso piede; onde pensando ad un metodo nuovo, non mi dovea del tutto allontanare dall'antico. Non erano avvezzi i Comici, e molto meno le maschere, a rappresentar le Commedie studiate, ed io non potea contentarmi di quello che dir potevano all'improvviso, onde ho accomodata la cosa dividendo il piacere metà per uno, parte cioè scrivendola a modo mio, e parte lasciandola in libertà degli Attori, come seguì delle due precedenti Commedie, se non che in questa per me ne ho voluto maggior porzione. Per verità non ebbe cattivo incontro, ma non posso dire che ottimo lo abbia avuto, e sempre mi sono dato ad intendere, che se per intero l'avessi scritta, miglior fortuna averebbe forse ottenuta. Eccomi finalmente dopo lungo tempo alla prova. Ora coll'occasione di compire il numero delle cinquanta Commedie in dieci Tomi comprese, l'ho presa novellamente per mano, e non solamente l'ho per intero rescritta, ma l'ho spogliata di tutto quello che nei tempi oscuri passati era ancor tollerato, e oggi, per la Dio grazia, fu dalle scene sbandito. Altre mutazioni diverse la pratica ed il gusto moderno m'ha insinuato di farvi, ed io non ho lasciato di faticarvi intorno per appagare il genio de' miei amorosi Associati, giacché per loro soltanto la mia edizione Fiorentina fu fatta, coperto interamente il numero delle stampe dai nomi dei sottoscritti, prima del compimento del Tomo terzo.
Personaggi
PANTALONE de' BISOGNOSI mercante veneziano
AURELIA moglie in seconde nozze di Pantalone
LEANDRO figliuolo di Pantalone del primo letto
TRUFFALDINO garzone di bottega di Pantalone
Il DOTTORE LOMBARDI amico di Pantalone
VITTORIA figliuola del Dottore
SMERALDINA serva in casa del Dottore
SILVIO conte
BRIGHELLA servitore di Silvio
CLARICE cantatrice
GRAZIOSA bolognese
MARCONE scrocco di piazza
UN SERVITORE di Clarice
La Scena si rappresenta in Venezia.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Strada con varie case.
Silvio e Brighella
BRIGH. Lustrissimo, se la me permette, gh'ho da dar una polizza.
SILV. Date qui. Conto dell'Illustrissimo Signor Conte Silvio Aretusi. D.D. A chi devo dar io?
BRIGH. La leza in fondi, e la troverà el nome del creditor.
SILV. A Pantalone de' Bisognosi, all'insegna della Tarantola. Che pretende da me costui?
BRIGH. El desidera che la ghe paga quel conto de roba, che vussustrissima ha avudo dalla so bottega.
SILV. Lo pagherò quando vorrò.
BRIGH. Poverazzo, el fa compassion. L'è mezzo falido e nol sa come far.
SILV. Suo danno: doveva vivere secondo il suo stato. Ti ricordi quando quel presontuoso volea gareggiar meco nello spendere intorno alla signora Clarice?
BRIGH. Me lo recordo sicuro.
SILV. Che pazzo! Si dava aria da gran signore; ecco il fine a cui si doveva condurre.
BRIGH. Cossa vorla far? È pezo per elo: ma intanto, scodendo dove che l'ha d'aver, el se pol in qualche conto aiutar. La ghe salda sto contarello.
SILV. Non gli darei un tozzo di pane, se lo vedessi morir di fame. Ho troppa ira contro questa sorta di gente. Vogliono spacciarla da cavalieri. E poi? E poi falliscono.
BRIGH. Poverazzo! l'ha dei crediti assae.
SILV. Tanto peggio. So che per farsi delle aderenze, per la vanità di essere trattato da' pari miei, esibiva a tutti le sue robe a credito. Suo danno; mille volte suo danno.
BRIGH. Ma, caro lustrissimo signor padron, la me permetta che parla, non in favor de Pantalon, ma pel decoro de vussustrissima. Adesso se pubblicherà tutti i debiti e tutti i crediti de sto mercante, e no me par ben fatto che se veda che quell'abito, che la gh'ha intorno...
SILV. Non più: questo modo di parlare degenera in petulanza. Si sa chi sono. Ecco il conto ch'io faccio di questa carta. (la straccia) L'onor della mia protezione paga bastantemente una partita di un bottegaio. (parte)
SCENA SECONDA
Brighella, poi Truffaldino
BRIGH. Me despiase che coll'onor della so protezion el paga anca el me salario; ma mi me darò l'onor de piantarlo.
TRUFF. Oh paesan, ho ben gusto d'averte trovà.
BRIGH. Com'ela, Truffaldin? come va i negozi del to principal?
TRUFF. I va mal per elo e pezo per mi. A sto vecchio matto de Pantalon ghe cresce i anni e ghe cresce i vizi, e in bottega ogni zorno cala la marcanzia. E mi, povero diavolo, me tocca a sfadigar assae, a magnar poco e po anca de più son obligà a far l'onorata carica del mezzan.
BRIGH. Far el mezzan de un marcante non è niente de mal: m'imagino che ti vorrà dir el sensal.
TRUFF. Certo che far el sensal l'è una cossa onorata, ma bisogna veder de che sorte de marcanzia.
BRIGH. De che sorte de marcanzia se tratta?
TRUFF. Senti: in t'una recchia, che nissun senta. De marcanzia femminina.
BRIGH. De scuffie? de nastri? de merli?
TRUFF. Oibò. Marcanzia de lettere, de parole e de stomeghezzi amorosi.
BRIGH. Bravo; ho capido; ti fa el mezzan de sta sorte de porcarie?
TRUFF. Questa l'è la carica che i me fa far; e che sia la verità, ho da portar sta lettera a una forestiera che aloza in quella locanda. (accenna una casa)
BRIGH. Per parte di chi?
TRUFF. Per parte de sior Pantalon.
BRIGH. Ancora quel vecchio el gh'ha voggia de ste frascherie?
TRUFF. Ti no sa che la volpe la perde el pelo, ma non la perde el vizio?
BRIGH. Me maraveggio che un omo della to sorte fazza de ste figure. To zio t'ha mandà qua dalle vallade de Bergamo per imparar a far el mercante, e ti ti impari sto bel mistier?
TRUFF. Se no fazz quel che vol el vecchio, el me castiga e nol me dà da magnar. Caro paesan, me raccomando a ti; per carità, troveme qualche altro negozio d'andar a star via de qua, che proprio a far ste cosse me sento i rossori verginali sul viso.
BRIGH. Sarave meio che ti andassi a servir.
TRUFF. A servir gh'ho le mie difficoltà. Prima de tutto, sia dito a mia gloria, mi no so far gnente a sto mondo, e po i servitori per el più ti sa che anca lori i è obligadi a far i mezzani; e se ti vol dir la verità, in to coscienza, ti l'averà fatto anca ti.
BRIGH. Lassemo andar, che co ghe penso, me vien i suori freddi. Gran cossa che al dì d'ozi squasi tutti i patroni i abbia da aver sto vizio! e che i poveri servitori sia obligadi a servirli in sta sorte de confidenze! No ghe basta a sti signori far una vita scandalosa per lori, i vol anca interessar in ste cosse la povera servitù. No i vede che el mal esempio che i dà ai servitori, è causa che anca lori se avezza mal, e i se precipita, e i deventa discoli come i patroni. Son stuffo anca mi de sta vita, e te conseggio anca ti de far qualche altro mistier, che sia mistier onorato, dove el galantomo se possa mantegnir senza pericolo della reputazion.
TRUFF. Che mistier poderavio far, senza pericolo della reputazion.
BRIGH. Ghe ne troveremo cento, un meggio dell'altro. Per esempio l'orese.
TRUFF. Sì ben, l'orese l'è un mistier onorato. Ma quella comodità de poder metter el rame invece de oro, l'è una gran tentazion per un galantomo.
BRIGH. L'è vero, no ti disi mal. Me par più sicuro el spezial.
TRUFF. No, camerada, me par che el sia pezo. Ho sentido a dir che i speziali, per sparagnar qualche lira nel comprar le droghe, no i tarda a rovinar i amaladi, a far disonor ai medici, e par che i sia d'accordo coi beccamorti.
BRIGH. In verità, Truffaldin, ti è un omo che parla ben e che pensa ben. Me consolo con ti, che ti fa onor alla patria. Troveremo un altro mistier. Ti poderessi far el librer.
TRUFF. Anca i libreri, per vadagnar de più, i strapazza el mistier. Cattiva carta, cattivo carattere, e i vol vender vinti quello che costa sie.
BRIGH. Sarave meggio, se to zio te volesse agiutar, che ti mettessi su un negozietto ti da to posta, una botteghetta da marzeretto con un poco de tela, un poco de cordelle e altre cosse da poco prezzo. Se n'ha visto tanti prencipiar con un capital de diese ducati, e deventar in poco tempo marcanti con dei ziri de miara de scudi.
TRUFF. Ti disi ben, ma sto mistier so come l'è fatto. Bisogna principiar a mesurarse le ongie, a scambiar el nome a tutta la roba che se vende, a tor in credenza dai marcanti grossi, andar pagando a bonora per acquistar concetto, e po, co s'ha fatto el credito, ordenar della roba assae, e co s'ha avudo la roba, serrar bottega e falir.
BRIGH. Bravo! come che ha fatto el to prencipal.
TRUFF. El mio prencipal l'ha falio da minchion, senza roba e senza bezzi; quelli che sa far el so mistier, i falisse a tempo, coi bezzi in cassa e co la roba logada.
BRIGH. Per quel che sento, ti sa le malizie in tutto, e no ti trovi albero da piccarte.
TRUFF. Lassa che porta sta lettera a sta siora Clarice, e po qualcossa risolverò.
BRIGH. Vustu che te la diga? Ti disi mal de sto mistier de mezzan, e ho paura che el te piasa assae più dei altri.
TRUFF. Certo che, a considerarlo ben, l'è un mistier de poca fadiga.
BRIGH. Ho inteso; ti è anca ti un de quei furbi, che vol finzer l'omo da ben, e vol dar da intender de far el mal per necessità. Ti sarà d'accordo col to prencipal. Dise el proverbio: chi sta col lovo, impara a urlar. No te credo più per un bezzo. Seguita el to esercizio, e no me star a vegnir a dir che ti patissi i rossori della vergogna. L'omo a sto mondo el fa quel che el vol, e no gh'è nissun che ne possa obligar a far mal. El ponto sta che tutti cerca el mistier più facile, e per paura de esser condannà dai altri, el finze de farlo mal volentiera. Anca ti ti è de quei Bergamaschi che sa far el minchion, e mi, che te cognosso, digo e sostegno che ti fa l'omo de garbo, e che ti xe un galiotto de prima riga. (parte)
SCENA TERZA
Truffaldino, poi un Servitore
TRUFF. Pol esser che Brighella diga la verità. Ma se el cognosse che mi son furbo, bisogna che lu el sia più furbo de mi. Portemo sta lettera e po ghe penseremo su meggio per l'avegnir. O de casa! (batte alla locanda)
SERV. Chi domandate?
TRUFF. Stala qua quella signora forestiera?
SERV. La signora Clarice?
TRUFF. Giusto la signora Clarice.
SERV. Sta qui, ma ora non le si può parlare.
TRUFF. Perché? Dormela?
SERV. Non dorme, ma ha delle visite, e non le si può parlare.
TRUFF. Se poderave darghe una lettera?
SERV. Datela a me, che la porterò alla sua camera.
TRUFF. Bravo! ve dilettè anca vu de portar le lettere.
SERV. Ditemi, siete voi servitore?
TRUFF. Cussì e cussì; mezzo e mezzo. Garzon de bottega, una cossa simile.
SERV. Che serve dunque far discorsi sul portar le lettere? Voi fate l'uffizio vostro, ch'io farò il mio. Datemi voi la lettera del padrone, che io la porterò alla padrona.
TRUFF. Ecco la lettera. Cussì averemo fatto la fazzenda metà per omo.
SERV. Quanto vi dona il padrone per una lettera che portate?
TRUFF. Niente affatto.
SERV. Io all'incontro, ogni lettera che porto alla padrona, mi dona un paolo, e vado subito a guadagnarlo. (entra nella locanda)
SCENA QUARTA
Truffaldino, poi Smeraldina dalla sua casa.
TRUFF. Ecco qua. In tutti i mistieri ghe vol fortuna.
SMER. Caro signor Truffaldino, che vuol dire che sono tanti giorni che non ci vediamo?
TRUFF. Bondì, Smeraldina. L'è un pezzo che no se vedemo, perché in casa del patron gh'è dei guai, delle disgrazie, e no i me lassa un'ora de libertà.
SMER. Eh, bricconcello, lo so perché ti vai scordando di me. Avrai qualche novella pratica, che ti svierà dalla tua Smeraldina.
TRUFF. No, da putto onorato.
SMER. Zitto, non bestemmiare. Dimmi un poco, che interessi hai a quella locanda?
TRUFF. Te dirò la verità. Ho portà una lettera del patron vecchio a una forestiera.
SMER. Sì, sì, la conosco. So che quel pazzo di Pantalone spende a rotta di collo con quella cara signora Clarice, e gareggia con tanti altri, che sono pazzi al pari di lui, a coltivare una donna di quel carattere. Ma è possibile che ad onta delle sue disgrazie, che oramai sono pubbliche per tutta Venezia, voglia il tuo padrone continuare a spendere e a rovinarsi del tutto?
TRUFF. No gh'è pericolo che el se rovina de più, perché l'è rovinà fin all'osso. Anzi, per dirtela in confidenza, perché so che ti è una donna de garbo, che no parla con nissun...
SMER. Oh, non vi è pericolo.
TRUFF. Sior Pantalon, oltre quel che l'ha donà a sta siora Clarice, el gh'ha imprestà trenta zecchini, e adesso che l'è in bisogno, el la prega de volergheli restituir.
SMER. Oh, è difficile che li restituisca.
TRUFF. Perché?
SMER. I danari che si prestano a certe signore, colle quali passano degli amoretti, bisogna far conto di averli donati.
TRUFF. La sa che adesso l'è poveromo; pol esser che la se mova a pietà.
SMER. Pietà in una donna di quel carattere? Non la sperare. Non avrà ella per il signor Pantalone il cuore amoroso che ha per il suo figliuolo la mia padrona; ma la condizione è diversa, e però sono diversi i loro costumi.
TRUFF. Ghe vorla ben siora Vittoria al sior Leandro?
SMER. Non fa che pensare a lui giorno e notte.
TRUFF. Siben che anca lu l'è deventà poveromo?
SMER. Lo compatisce e sa che è in disgrazia per cagione del padre.
TRUFF. Ma per mario no la lo vorrà più.
SMER. Questo non so dirti. Ella deve dipendere dal signor Dottore suo padre; per altro, se stesse a lei, son sicura che lo prenderebbe a costo di ogni pericolo.
TRUFF. E Smeraldina cossa disela de Truffaldin?
SMER. Io dico che Truffaldino è un poco di buono.
TRUFF. Perché anca elo l'è senza bezzi.
SMER. No, perché non viene a vedermi spesso, e non si ricorda di chi gli vuol bene.
TRUFF. Mi vegnirave spesso, ma ho un poco de suggizion de quel satiro del to patron.
SMER. Che cosa c'entra in questo il padrone? Sarebbe la bella cosa ch'io non potessi parlare qualche volta in casa con un amico!
SCENA QUINTA
Il Dottore e detti.
TRUFF. Ma quand el vedo, el me fa paura.
SMER. Fa così: passa di qui dopo pranzo e, se non vi sarà in casa il signor Dottore, ti avviserò, e tu potrai venire liberamente. (il Dottore ascolta)
TRUFF. Benissimo, co nol sarà in casa, vegnirò volentiera.
DOTT. Se il signor Truffaldino vuol andare in casa con Smeraldina, quando non vi è il padrone, può servirsi ora che il padrone è fuori di casa.
SMER. (Povera me!) (da sé)
TRUFF. Quando ella me fa la grazia de contentarse, me prevalerò delle so finezze. (al Dottore)
SMER. Con sua licenza. (fa una riverenza al Dottore, ed entra in casa)
SCENA SESTA
Il Dottore, Truffaldino, poi il Servitore di Clarice.
TRUFF. Donca, se la permette... (al Dottore, incamminandosi verso la di lui casa)
DOTT. Aspetti, signor Truffaldino, che se il padrone è fuori di casa, vi è un altro che gli può dare più soggezione di lui. (con ironia)
TRUFF. E chi elo, se la domanda è lecita?
DOTT. È un certo signore, che si domanda bastone, dietro la porta, pronto a ricamargli le spalle.
TRUFF. Quando l'è cussì, per no dar incomodo a sto signor, volterò el bordo, e anderò via per un'altra strada. (si scosta, e va dall'altra parte)
DOTT. Lodo la sua bella prudenza, e la consiglio non venir molto per questa parte, perché il signor bastone qualche volta ha la bontà di venir fuori di casa, ed esercitar la sua cortesia anche in mezzo la strada.
TRUFF. Oh, l'è troppo cortese! La ghe diga che nol se incomoda, che più tosto...
SERV. Amico. (a Truffaldino, uscendo dalla locanda)
TRUFF. Cossa gh'è?
SERV. La mia padrona ha letto la lettera e presto presto ha fatto la risposta, e giacché a sorte ancora vi trovo qui mi farete il piacere di portarla al vostro padrone. (dà la lettera a Truffaldino)
TRUFF. Com'ela andada? (al Servitore)
SERV. Male.
TRUFF. È vegnudo el paolo?
SERV. Questa volta non è venuto: dubito che le sia piaciuto poco la lettera che mi avete dato.
TRUFF. Ho paura anca mi.
SERV. Un'altra volta vi farò la facilità di lasciare che la portiate voi colle vostre mani. (parte)
TRUFF. Obligado della finezza. (Saria curioso de veder cossa che la responde, se la ghe promette de restituirghe i zecchini). (da sé)
DOTT. Bravo, signor Truffaldino.
TRUFF. Cossa voravela dir, patron?
DOTT. Letterine amorose.
TRUFF. Sior sì, letterine amorose. (apre la lettera in disparte)
DOTT. (Povero Pantalone! È rovinato, e non vuol far giudizio). (da sé)
TRUFF. (Me despiase che so poco lezer, e sto carattere no l'intendo). (da sé)
DOTT. (Mi dispiace ancora per suo figliuolo. Gli avrei data volentieri mia figlia. Ma ora non è più in istato di maritarsi). (da sé)
TRUFF. Sior Dottor, la compatissa, no fazzo mai per far torto alla so virtù: sala lezer?
DOTT. La prendo per una facezia, per altro l'interrogazione sarebbe ben temeraria.
TRUFF. Voio dir, se l'intende tutti i caratteri.
DOTT. Pare a voi che un uomo della mia sorte non abbia da intendere ogni carattere? Avete qualche cosa da leggere che vi prema?
TRUFF. Gh'averave sta lettera.
DOTT. A chi va quella lettera?
TRUFF. La va al mio patron.
DOTT. Al vecchio o al giovane?
TRUFF. Al vecchio.
DOTT. E voi vi prendete la libertà di aprire e di leggere le lettere che vanno al vostro padrone?
TRUFF. Ghe dirò, sior, tra mi e lu passemo con confidenza; so tutti i so interessi. So che l'ha imprestà trenta zecchini a una forestiera che sta in quella locanda, e che con una polizza el ghe li ha domandai. El m'ha promesso, se la ghe li restituisce, de darme sie mesi de salario che avanzo e, per dirghela, gh'ho un poco de curiosità, perché se tratta del mio interesse.
DOTT. Quand'è così, non ricuso di compiacervi.
TRUFF. La me farà grazia. (dà la lettera al Dottore)
DOTT. Mi pare aver inteso dire che il signor Pantalone faceva il grazioso con quella signora, e molto abbia con lei consumato.
TRUFF. Me par anca a mi che sia vero.
DOTT. E come ora le domanda trenta zecchini?
TRUFF. Questi el ghe li ha prestadi; e se spera che adesso, vedendolo in bisogno, tanto più presto la ghe li abbia da restituir. Sentimo quel che la dise.
DOTT. Sentiamo.
Signor Pantalone carissimo.
Sono penetrata dalla vostra disgrazia, e mi rincresce non essere in istato di sovvenirvi. Voi dite che mi avete prestato trenta zecchini, ma io non me ne ricordo e se ciò fosse vero, avreste di me o un obbligo o una ricevuta. Riflettete che voi siete causa della vostra rovina, e che se aveste badato a me solamente, non vi trovereste in simile stato. Non potete dire che io sia stata la cagione dei vostri disordini, mentre in due anni che avete praticato in mia casa, sono stati maggiori gl'incomodi che mi avete recato, di quelli che per me avete sofferto. Pensate ai casi vostri, mentre io per soccorrervi non posso alterare la mia economia, e molto meno privarmi di quanto mi è necessario per comparire; e non mi tormentate con lettere, mentre una fiera emicrania mi tiene oppressa, assicurandovi ciò non ostante che sono
Vostra sincera amica
chi voi sapete.
TRUFF. Cossa credela che possa sperar a conto del mio salario?
DOTT. Questa lettera vi può profittar assaissimo, considerando l'ingratitudine delle donne, e fissando la massima di starvi lontano e di non fidarsi di loro. Lasciate questa lettera nelle mie mani, ché dandola ora al signor Pantalone, gli sarebbe di troppo cordoglio. Io gli sono amico e lo compatisco; e voglio recargli tutto quell'aiuto ch'io posso nelle presenti sue circostanze. Penso al rimedio de' suoi disordini; credo averlo trovato; un poco doloroso per i suoi creditori, ma il più facile ed il più usitato. (parte)
SCENA SETTIMA
Truffaldino e Leandro
TRUFF. Quando in quella lettera no gh'e più sostanza de cussì, no me curo gnanca de portarghela a sior Pantalon. Me despias per el me salari, ma za che tutto va a precepizio, cercherò anca mi de pagarme sui resti.
LEAN. Truffaldino, son disperato.
TRUFF. E anca mi son per la medesima strada.
LEAN. Mio padre ha consumato tutto il suo patrimonio e la mia legittima, e la dote ancor di mia madre di cui io solo era l'unico erede.
TRUFF. Consoleve, signor, che l'ha consumà anca el me salari.
LEAN. Mia madre, poverina, è morta per le passioni di animo che le ha fatto provare.
TRUFF. Oh, mi mo per questo no voio che me doggia la testa.
LEAN. E per far sempre peggio, si è rimaritato mio padre con una giovane vana, petulante, superba.
TRUFF. Questa farà le vendette de vostra madre, la lo farà morir de desperazion.
LEAN. Ma almanco, già che si è rimaritato, avesse lasciato da parte tante altre pratiche, tante amicizie che lo rovinano.
TRUFF. El xe deventà sempre pezo.
LEAN. Che ho da far io, povero giovine?
TRUFF. E mi cossa oio da far, povero pupillo?
LEAN. Mi trovo senza un danaro.
TRUFF. Semo fradei carnali.
LEAN. Andar a servire non mi conviene.
TRUFF. Gnanca a mi sfadigar no me piase.
LEAN. Anderò per il mondo pellegrinando.
TRUFF. Batter la birba l'è el più bel mistier che se possa far.
LEAN. Parmi, se non m'inganno... (osservando la casa del Dottore) Sì, è dessa. La signora Vittoria affacciasi alla finestra. Ritirati, Truffaldino, lasciami un poco esperimentare, a fronte delle mie miserie, l'affetto di questa giovane.
TRUFF. Cossa spereu da ella?
LEAN. Spero molto.
TRUFF. E mi gnente affatto. (parte)
SCENA OTTAVA
Leandro, e Vittoria alla finestra.
VITT. Come state, signor Leandro?
LEAN. Male assai, signora, e stupisco che voi ancora mi conosciate, contraffatto dalle mie afflizioni.
VITT. Voi non avete colpa nelle vostre disgrazie; siete degno di compassione, ed io la risento più al vivo di ciascun altro.
LEAN. Oh cieli! sono più fortunato di quello ch'io mi credeva. È possibile ch'io possa lusingarmi del vostro affetto, ad onta delle mie miserie?
VITT. Vi amerei ancorché foste il più infelice uomo di questo mondo.
LEAN. Ma non sarà mai possibile che mi diveniate consorte.
VITT. Perché?
LEAN. Perché vostro padre non vorrà maritarvi con un miserabile.
VITT. Non temete; mio padre s'interessa moltissimo per le cose della vostra famiglia; mi dà speranza di qualche accomodamento; spero che ritornerete in istato di una mediocre fortuna, e quando tutto perisse, o sarò vostra, o non sarò di nessuno.
LEAN. Oh fedelissima amante! Oh specchio della più esemplare costanza!...
VITT. Veggo venir alcuno da quella parte. Non ho piacere di esser veduta. Consolatevi; serenate il vostro animo. Sperate bene; amatemi, e siate certo dell'amor mio.
LEAN. Sì, mia cara, sarò lieto in grazia della vostra bontà.
VITT. Addio, signor Leandro. Procurate veder mio padre, e venite da noi, quando egli sia in casa. (si ritira)
SCENA NONA
Leandro solo.
LEAN. Piacemi l'onesto costume di non volermi in casa senza del padre. Non credo che ciò si pratichi ai giorni nostri comunemente, e pur dovrebbesi praticare per evitare gli scandali e le dicerie della gente. Chi mai avrebbe creduto che tanta fedeltà, che tanto amore nutrisse per me questa giovine veramente da bene? Oh Vittoria, tu sei una cosa rara nel nostro secolo. Poco mi ha levato la sorte, privandomi delle mie sostanze, se nel tuo bellissimo cuore mi resta il più bel tesoro del mondo. (parte)
SCENA DECIMA
Camera in casa di Pantalone.
Pantalone solo. Passeggia alquanto pensoso, poi si pone a sedere.
PANT. E per questo m'oggio da andar a negar? Se son falio, saroggio solo? Gh'averò dei collega de quei pochi. Cossa se pol far? Me consolo almanco che i mi bezzi no i me xe stai magnai, no i me xe stai portai via, el mar no me li ha fatti perder. I ho godesti, i ho spesi, e ho fatto goder i amici. Mi adesso stago da re. I mi beni xe tutti sequestrai, la meggio roba xe in pegno, i mobili xe bollai, la bottega xe voda, onde mi no gh'ho più gnente da far. Fin che i creditori me lassa in pase, tiro de longo sul resto de quelle fregole che ghe xe; se i scomenzia a far brutto muso, con un felippo vago a Ferrara, e chi s'ha visto, s'ha visto. Cossa farà la mia cara siora muggier, che a forza de ambizion, de mode e de conversazion m'ha dà la spenta per far la tombola? Adesso anca ela la farà una bella fegura. So danno, no ghe ne penso un figo, la merita pezo. Se la gh'avesse giudizio, per liberarse da sti travaggi, la doverave crepar. M'ho muà de camisa una volta, pol esser che me tornasse a muar la segonda. Quel che me despiase, xe quel povero mio fio. Anca la dota de so mare gh'ho consumà. Ma cossa serve? L'ha godesto anca elo; el xe zovene, che el se inzegna; el troverà qualcun che l'agiuterà, e se el ghe n'averà elo, bisognerà che el me ne daga anca a mi. A bon conto tirerò sti trenta zecchini da siora Clarice. Pussibile che la me li fazza penar? No credo mai. Ho fatto tanto per ela, e adesso la sa el mio stato... Oh per diana, che xe qua mia muggier. Animo a sto siropetto.
SCENA UNDICESIMA
Aurelia ed il suddetto.
AUR. E bene, signor marito, che pensate di fare?
PANT. Per mi gh'ho pensà, patrona.
AUR. Si può sapere la vostra risoluzione?
PANT. Per le poste a Ferrara.
AUR. Ed io?
PANT. E vu resterè a Venezia.
AUR. Indiscreto! Avreste cuore d'abbandonarmi?
PANT. Vardè che casi! Gh'aveu paura a dormir sola?
AUR. Voglio venir con voi.
PANT. Oh, questo po no.
AUR. Come no? Non son io vostra moglie?
PANT. Pur troppo, per mia desgrazia.
AUR. Anzi per mia malora.
PANT. Sia pur maledio co v'ho visto.
AUR. Maladetto pure quando vi ho conosciuto.
PANT. Vu sè stada causa del mio precipizio.
AUR. Voi siete stato la mia rovina.
PANT. Zoggie, abiti e conversazion.
AUR. Donne, tripudi e giuoco.
PANT. Nissun sa quanto che abbia speso in do anni per la vostra maledetta ambizion.
AUR. E la dote che vi ho portato?
PANT. Certo! una gran dota! Sie mille ducati, mezzi se pol dir in strazze e mezzi un pochi alla volta, che no me n'ho visto costrutto.
AUR. Al giorno d'oggi con seimila ducati le mogli pretendono dalla casa la gondola con due remi.
PANT. Sì ben, xe la verità. Le putte, co le se marida, le rovina do case: quella de so pare e quella de so mario.
AUR. Orsù, qui non vi è riparo ai vostri disordini: fate di voi tutto quel che volete, ma prima pensate ad assicurarmi un mantenimento onesto e decente alla mia condizione, ed alla dote che vi ho consegnato.
PANT. Per mi ho fenio la roba e ho fenio i pensieri. M'inzegnerò de viver mi alla meggio che poderò. Per el resto, ve dirò quel bel verso: «Ogni un dal canto suo cura si prenda».
AUR. Ecco qui quel che ho avanzato a sacrificare la mia gioventù con un vecchio.
PANT. Dovevi lassar star de farlo; mi no v'ho obligà, mi no v'ho pregà.
AUR. Mio padre è stato causa del mio precipizio.
PANT. Fe cussì: andè in casa de vostro padre e fe che lu ghe rimedia.
AUR. Bell'onore di un marito civile, rimandar la moglie in casa del padre, dopo averle consumata la dote.
PANT. Chi l'ha consumada, vu o mi?
AUR. Meritereste... basta, non dico altro.
PANT. Cossa meriteravio? Disè suso, patrona.
AUR. Sono una donna onorata, per altro...
PANT. Cara siora, no andemo avanti. Zitto, e lassemola là.
AUR. Che cosa vorreste dire?
PANT. Tasemo, che faremo meggio.
AUR. Parlate.
PANT. No voggio parlar.
AUR. Parlate se potete parlare.
PANT. Se volesse parlar, parleria.
AUR. Animo, dico, parlate.
PANT. Zo la ose, patrona.
SCENA DODICESIMA
Il Dottore ed i suddetti; poi Servitore
DOTT. Che cos'è questo strepito? Vergogna! Si grida fra marito e moglie?
AUR. Ecco il bel procedere di mio marito. Oltre l'avermi ridotta in miseria, m'intacca ancora nella riputazione.
PANT. Mi no digo cosse che no sia da dir, né penso cosse che no sia da pensar. Digo che la conversazion da tutte le ore...
AUR. E voi colla continua pratica de malviventi...
PANT. Avè fatto fin adesso mormorar la zente.
AUR. E voi vi siete reso ridicolo a tutto il mondo.
DOTT. Signori miei, volete farmi la grazia di lasciarmi parlare?
PANT. Sì, caro sior Dottor, parlè, che ve ascolto volentiera.
DOTT. Mi permettete che io dica la mia opinione intorno alla quistione che fra voi si agita?
AUR. Dite pure: so che siete assai ragionevole.
DOTT. Parlando col dovuto rispetto all'uno e all'altro dico che entrambi siete tinti della medesima pece, e che rimproverandovi fra voi due, si può dire che la padella dice al paiuolo: fatti in là, che tu mi tingi.
AUR. Bella sentenza sul gusto di Bertoldo!
DOTT. Bertoldo appunto soleva dire la verità.
AUR. Quando non sapete giudicar meglio, fate a meno di impacciarvi dove non siete chiamato.
PANT. Lassela dir, sior Dottor, e no ghe badè. M'avè dà qualche speranza de trovar un rimedio alle mie disgrazie; son qua, ve prego, me raccomando a vu.
DOTT. Il rimedio spererei di averlo trovato e di rimettere in piedi la vostra casa ed il vostro negozio, ma, sia detto con buona pace della signora Aurelia, le sue malagrazie mi consigliano a non procacciarne di peggio.
PANT. Sentiu? Per causa vostra sior Dottor ne abbandona, e po dirè che son mi la rovina della fameggia. (ad Aurelia)
AUR. Caro signor Dottore, compatitemi. I disgusti che mi fa provar mio marito, mi levano di ragione. Conosco che ho detto male, e ve ne chiedo scusa. (L'interesse mi fa parlare con umiltà). (da sé)
DOTT. Orsù, la ringrazio della bontà con cui adesso mi parla. E son qui per far tutto il possibile per l'uno e l'altro. Sentano il mio progetto.
PANT. Via, disè suso, che ve ascolto con ansietà.
AUR. Anch'io sentirò con piacere.
SERV. Signora è venuta la sarta col vestito.
AUR. Vengo subito. Signore, parlate pure con mio marito, che io già di affari simili non me n'intendo; vi raccomando salvar la mia dote, e che possa avere in mia libertà il modo di comparire. (parte col Servitore)
SCENA TREDICESIMA
Pantalone ed il Dottore
PANT. Ve par che la sia una donna de garbo?
DOTT. Orsù, signor Pantalone, veniamo alle corte. Io vi son buon amico: compatisco la vostra disgrazia, benché, per dire la verità, sia provenuta dalla vostra mala condotta. Eccomi qui pronto a darvi aiuto e consiglio per trarvi fuori dei guai, se sia possibile, ma prima di tutto mi avete a promettere di osservare i patti che fra di noi si faranno.
PANT. Caro compare Dottor, comandè; son in te le vostre man. Farò tutto quel che volè.
DOTT. Promettetemi di non giocare, di non scialacquare, di lasciar stare le male pratiche.
PANT. Sì, tutto, no v'indubitè. Se me remetto, vederè se farò pulito.
DOTT. Sentite dunque quel che ho fatto, e quel che sono per fare. In primis et ante omnia, benché vostra moglie non sappia niente, ho incamminata in nome suo un'assicurazione di dote per la somma di seimila ducati, e ho fatto bollare tutti quei pochi generi di mercanzia che vi sono restati, e i mobili della casa, e i libri del negozio per la ragione dei crediti; ed ho ordinato il sequestro per i beni stabili ipotecati. Inoltre ho incamminato ai fòri competenti la causa del pagamento della dote materna in favore del signor Leandro vostro figliuolo, come erede della madre e vostra prima consorte, ascendente il credito a diecimila ducati; onde con queste due azioni anteriori e privilegiate si viene a coprire un capitale di sedicimila ducati, sui quali i creditori non possono avere azione veruna.
PANT. Fin qua va ben, e sta cossa l'aveva prevista anca mi, ma ghe trovo dei radeghi che me dà da pensar.
DOTT. Proponete le difficoltà, e vedrete se tutte le saprò sciogliere.
PANT. Prima de tutto mi sarò sempre falio, soggetto a esser messo in preson, e no poderò camminar.
DOTT. A questo si è provveduto. Si chiamerà il consorzio dei creditori, per formare la graduatoria col bilancio dei debiti e dei crediti e dei capitali, detractis detrahendis; avremo un salvocondotto in pendenza di tal giudizio. Poi si farà l'esibizione di un trenta o di un quaranta per cento ai creditori, da pagarsi a tempo; procureremo di pagare la prima rata, e poi, siccome è il solito di simili aggiustamenti, sarà facile tirar di lungo, senza che più se ne parli.
PANT. El remedio no xe cattivo. Ma considero, caro Dottor, che mia muggier e mio fio sarà patroni de tutto, e mi farò la figura de un povero desgrazià.
DOTT. Anche a questo ho pensato per il vostro decoro e per mantenere in casa la vostra autorità. Rispetto al figlio, conviene emanciparlo, farlo sui iuris, e poi farvi instituire da lui Procuratore generale irrevocabile de' suoi interessi. Fatto questo, si pianterà il negozio in suo nome, si cambierà la ragione di Pantalone de' Bisognosi in quella di Leandro de' Bisognosi: così i creditori vostri non avranno azione veruna contro il nuovo negozio, e voi con titolo di procurator generale seguiterete a maneggiare, a dirigere, e sarete sempre padrone. Così parimenti rispetto alla moglie. Il marito è legittimo amministratore dei beni della consorte; faremo avvalorare il titolo per un di più con una procura della medesima, e anche di quella porzione d'effetti sarete voi il direttore.
PANT. L'idea xe bona, e la me comoda infinitamente. Tutto sta che mia muggier e mio fio i se contenta, e che i se voggia fidar de mi.
DOTT. Lasciate fare a me a persuaderli; basta che promettiate e manteniate il patto di batter sodo, e di regolarvi con carità e con prudenza.
PANT. Stè pur seguro che farò le cosse da omo: me basta de poder camminar.
DOTT. Ho già ordinato il salvocondotto, e l'avrete prima del pranzo.
PANT. No vedo l'ora de andar fora de casa, de farme veder, de spazzizar un pochetto. Poderoggio andarghe liberamente?
DOTT. Senza alcuna difficoltà.
PANT. Me dirali: vardè là quel falio?
DOTT. Oibò! una maraviglia, si suol dire per proverbio, dura tre giorni. Dopo qualche piccolo discorsetto, tutti si scorderanno e vi considereranno per un nuovo mercante in piazza, e accaderà di voi quello che è accaduto di tanti altri, che hanno fatto lo stesso non una volta sola, ma due e tre volte ancora.
PANT. Cossa faroggio, se vedo i mi creditori?
DOTT. Salutateli con cortesia. Parlate con essi loro delle novità, delle guerre, e non parlate mai d'interessi.
PANT. E se lori me intrasse in sto articolo?
DOTT. Dite che parlino col vostro procuratore.
PANT. E se qualcun me rompesse el muso?
DOTT. Tanto meglio per voi; con quello avreste saldato il conto.
PANT. Basta, me varderò de schivar sta bona fortuna. Ve raccomando de farme aver presto el salvocondotto, perché me preme de camminar.
DOTT. Camminerete liberamente. Ma badate non abusarvi del bene che vi si procura. Sopra tutto ricordatevi di star lontano dalle donne.
PANT. Donne mi no ghe n'ho mai praticà.
DOTT. So tutto, e potrei su tal proposito mortificarvi, ma non voglio farlo, per non accrescervi dispiaceri. Ho una lettera assai curiosa per disingannarvi.
PANT. Una lettera? Lassemela veder.
DOTT. La leggeremo poi questa sera con comodo, con riflesso. Per ora è meglio badare a sollecitar quel che preme.
PANT. Sì, caro amigo, andè, fe presto, me raccomando alla vostra bontà.
DOTT. Forti nel proposito.
PANT. No gh'è pericolo.
DOTT. Mai più giuoco.
PANT. Mai più.
DOTT. Mai più donne.
PANT. Mai più.
DOTT. Bravo! così mi piace. Sincerità, costanza ed onoratezza. (parte)
SCENA QUATTORDICESIMA
Pantalone solo.
PANT. El gh'ha una lettera! De chi mai? Una lettera per disingannarme? De siora Clarice no crederave; so che la me vol ben, son seguro che l'averà sentio con dolor le mie desgrazie, che no la mancarà de mandarme i trenta zecchini, e de più se me bisognasse. No vedo l'ora de sentir la resposta. Subito che posso, anderò a receverla mi. Ma ho dito al Dottor: mai più donne. Una donna come questa, la se pol praticar. La xe una zoggia, la xe de un ottimo cuor, e se torno in fortuna... Oimei, scomenzemo mal; cossa diravelo, se me sentisse, el Dottor? Ma ho dito de aver giudizio, non ho miga dito de volerme retirar in t'un romitorio. Se pol praticar con prudenza, e siora Clarice xe una donna de proposito, che la se pol praticar. (parte)
SCENA QUINDICESIMA
Camera con tavolino e sedie, calamaio ecc.
Aurelia ed il Dottore
AUR. Sì, signor Dottore, farò tutto quel che volete. Farò la procura che m'insinuate di fare. So che siete un galantuomo, e mi getto nelle vostre mani; ma, vi prego, fate che tornino a casa presto i miei abiti almeno, se per ora non si possono ricuperar le mie gioje.
DOTT. Benissimo; avrà gli abiti, avrà le gioje, favorisca di sottoscrivere la procura.
AUR. Subito. (si pone a sedere al tavolino)
DOTT. (Non è poco che si persuada sì facilmente) (da sé)
AUR. Quando li avrò i danari che mi abbisognano?
DOTT. Subito che si potrà.
AUR. Ho inteso. Se non li ho prima, non sottoscrivo. (s'alza)
DOTT. È necessario ch'ella solleciti a segnar questo foglio per la riputazione del marito e della casa, e per non lasciare incagliare i negozi che si devono continuare.
AUR. Non m'importa né del marito, né della casa, né di altri negozi, quando non abbia quello che mi bisogna per comparire.
DOTT. Si assicuri che li avrà.
AUR. Ma quando?
DOTT. Li avrà domani; le basta?
AUR. Domani?
DOTT. Domani; prometto io che avrà il danaro domani.
AUR. Quando voi me lo promettete... (siede per sottoscrivere)
DOTT. (Converrà far di tutto per contentarla). (da sé)
AUR. Signor Dottore, mi è sovvenuto che ho un impegno per questa sera, e se non ho i miei abiti almeno per questa sera, non sottoscrivo la carta.
DOTT. Ma vede bene...
AUR. Vedo tutto, ma io li voglio per questa sera.
DOTT. Quanto ci vorrà per riscuotere i suoi vestiti?
AUR. Ci vorranno in circa trecento ducati.
DOTT. Cospetto! trecento ducati? Per aver trecento ducati sopra un pegno di abiti, ci vuole di molta roba. Compatisca, io non sono persuaso che vogliavi tutta questa somma.
AUR. Non siete persuaso? Credete ch'io voglia di più del bisogno? Che abbia in altro ad impiegar il danaro fuor che nelle cose oneste, necessarie ed utili per il decoro della famiglia? Mi conoscete poco. Sono una donna discreta; non getto malamente un soldo; non troverete la più economa, la più regolata di me. Ecco la nota de' miei vestiti impegnati. Vedete, se vi dico la verità. (dà un foglio al Dottore)
DOTT. Vediamo un poco gli effetti di quest'ammirabile economia. Un'andriene di broccato d'oro. Una simile di broccato d'argento. Un mantò e sottana compagna d'amuere color di rosa, ricamato d'argento. Un altro mantò e sottana con punto di Spagna. Sei gonnellini ricamati d'oro e d'argento. Due tabarri guarniti e due ricamati. Ventiquattro camicie fine con pizzi di Fiandra. Si vede dalla nota di questi pegni la buona economia della signora Aurelia. Per la moglie di un mercante il corredo è discreto. Ecco un capitale di un migliaio di zecchini almeno, che impiegato in negozio potrebbe sostenere una casa, ed eccolo miseramente sagrificato in roba, che adoperata un giorno, perde subito la metà del valore, e in poco tempo diviene antica e non vale la quinta parte del prezzo. A proporzione degli abiti, mi figuro quel che saranno le gioje, ed ecco come gli uomini si rovinano, come i mariti si lasciano mal condurre, come i mercanti per causa delle loro mogli falliscono.
AUR. Poteva il signor Dottore risparmiarsi l'incomodo di una stucchevole moralità, e per non maggiormente infastidire né lui, né me, possiamo lacerar questa carta. (vuole stracciare la procura)
DOTT. No, la si fermi, non tanto caldo. Ho detto così per un modo di dire. Ella è padrona di far del suo quel che vuole. Sottoscriva il foglio, e non ne parliamo più d'avvantaggio.
AUR. Prima di sottoscrivere voglio i danari per la riscossione dei pegni.
DOTT. Non è la sua premura per comparir questa sera?
AUR. Sì, Signore.
DOTT. Bene, per questa sera si può riscuotere uno di questi vestiti, quello che più le aggrada.
AUR. Questo non si può fare. Il pegno si è fatto in una sola volta, e si dee riscuotere tutto insieme.
DOTT. Mi perdoni il mio ardire, che cosa ha ella fatto di trecento ducati in una volta?
AUR. Ho fatto... ho fatto... li ho impiegati per la riputazione della famiglia.
DOTT. Sarebbe mai ciò seguito due mesi sono, allora quando si disse ch'ella aveva perduto al giuoco cento zecchini sulla parola?
AUR. Quando li avessi perduti, era necessario che li pagassi, e non si doveva lasciar esposta la riputazione della casa.
DOTT. Certo il signor Pantalone deve esser obbligato alla moglie, che ha a cuore la sua riputazione! (con ironia)
AUR. Ecco qui, per la stessa ragione mi pongo a rischio, sottoscrivendo un foglio, di perdere la mia dote.
DOTT. Via dunque; faccia l'atto eroico come va fatto; stenda qui la sua firma.
AUR. La stenderò, se vi saranno i trecento ducati.
DOTT. Non gli servono per questa sera? Questa sera si troveranno.
AUR. E non è lo stesso che io aspetti a sottoscrivere questa sera?
DOTT. Non è lo stesso. Senza di questa carta non si può far argine al torrente dei creditori. Se questi s'impossessano dei beni di suo marito, tutto va in confusione, e dote e mobili e vestiti e gioje; a revocare gli atti seguiti vi vorranno dei mesi, ed ella resterà senza il danaro, senza la roba, e senza il modo di vivere e di comparire.
AUR. Quand'è così, sottoscrivo subito.
DOTT. (Ho trovato il modo di spaventarla). (da sé)
AUR. E le mie gioje si riscuoteranno?
DOTT. Si riscuoteranno le gioje. Scriva il suo nome.
AUR. E voglio una mesata di dieci zecchini al mese.
DOTT. Sì, l'avrà. Sottoscriva.
AUR. Ed essere padrona della mia dote.
DOTT. Ci s'intende. Via, si solleciti.
AUR. E che mio marito non abbia a rimproverarmi.
DOTT. (O pazienza, non abbandonarmi!) (da sé) Il signor Pantalone non parlerà.
AUR. E che Leandro non sia padrone di niente, e che io sola comandi, e che sempre possa io dire d'aver rimesso la casa col mio.
DOTT. Tutto vero; si farà come vuole, si dirà quel che vuole. Sottoscriva.
AUR. Io Aurelia... Mi promettete voi tutte queste cose?
DOTT. Sì, signora, prometto io.
AUR. Io Aurelia Bisognosi affermo.
DOTT. Sia ringraziato il cielo.
AUR. E che innanzi sera...
DOTT. Innanzi sera ci vedremo. (prende il foglio) Mi lasci sollecitare quel che più preme. Si fidi di me, ed intanto, a conto di quello ch'ella pretende, riceva quest'utile avvertimento: le donne ambiziose rovinano le famiglie. Un'economa come lei, non le può far che del bene. (parte)
SCENA SEDICESIMA
Aurelia sola.
AUR. Non so se quest'ultime parole le abbia dette per ironia; so bene che colle prime mi aveva un poco seccato. Basta, non credo che il Dottore mi mancherà di parola. Riscuoterò i miei vestiti, e siccome alcuni di essi sono poco moderni, li venderò alla meglio per farmi un abito nuovo. Gran passione è questa di vestire alla moda! Certamente, quando vedo un abito di buon gusto, mi si agghiaccia il sangue, se non ne posso avere un compagno.
(parte)
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Bottega di Pantalone, fornita di panni e sete e altri capi di mercanzia, aperta sopra la strada e corrispondente di dentro alla casa del medesimo.
Leandro e Truffaldino
LEAN. Eccoci, per grazia del cielo, ritornati in bottega.
TRUFF. Siori panni, siore stoffe, siore pezze de roba, mi no credeva d'aver più l'onor de vederve e de manizarve.
LEAN. Possiamo ringraziare il Dottor Lombardi che ci ha assistito, e possiamo ringraziare la signora Vittoria, ch'ella per amor mio avrà sollecitato il padre a interessarsi cotanto per il nostro bene.
TRUFF. Le donne qualche volta le fa del ben, qualche volta le fa del mal.
LEAN. Le donne buone fanno sempre del bene.
TRUFF. L'è vera, ma delle donne bone se ghe ne stenta a trovar.
LEAN. No, Truffaldino, non dir così, che sei una mala lingua. È molto maggiore il numero delle donne oneste e dabbene; ma queste, siccome vivono per lo più ritirate, non figurano al mondo e da pochi son conosciute. Le cattive all'incontro, per poche che siano, si fanno scorgere facilmente, e il mondo, mal persuaso di loro, biasima il sesso senza distinguere le persone.
TRUFF. Donca le bone le sarà quelle che vive retirade, e le cattive quelle che pratica.
LEAN. Né meno questa distinzione è bastante per giudicare di loro. Possono le più sagge, le più discrete, le più esemplari conversare liberamente, ed è ben fatto anzi ch'esse conversino, per dar un esempio di bontà sociabile; ma per assicurarsi della bontà di una donna, vi vuol del tempo, e le cattive si conoscono presto, onde, come diceva, si crede maggiore il numero di queste che di quell'altre.
TRUFF. Vostra madregna ela bona o cattiva?
LEAN. A me non tocca parlar di lei; è moglie di mio padre, e devo usarle rispetto.
TRUFF. E mi che no son so parente, digo e sostegno che l'è cattiva, pessima e dolorosa.
LEAN. Orsù, mutiamo discorso. Prendiamo per mano la mercanzia che vi era, e riscontriamone le misure; e della nuova, venuta ora in bottega, facciamo la separazione e il registro. Va tu nella stanza di sopra. Prima di tutto leverai la polvere che in quattro giorni sarà caduta sopra la roba, e fatto questo, avvisami, che verrò a riscontrarla.
TRUFF. Sior sì, vado subito. (Fortuna, te ringrazio, son tornà in stato de farme onor colla mia Smeraldina. Se trovo un taio a proposito, ghe porto da far un busto. Za, se vien sior Pantalon in bottega, no passa una settimana che la se torna a serrar). (da sé, e parte)
SCENA SECONDA
Leandro, poi il conte Silvio, poi Brighella
LEAN. E pure, in mezzo alla consolazione di rivedermi nel mio negozio, mi dà pena il pensare che, per ragione del credito mio anteriore e per quello di mia matrigna, abbiano a perdere i creditori. Ma se il cielo mi darà fortuna, protesto di volere soddisfar tutti. Spero che mio padre cambierà il sistema di vita che ha menato finora, e aiuterà il negozio a risorgere colla pratica e coll'attenzione. Potrei escluderlo dal maneggio, ma il rispetto che ho per lui non me lo permette.
SILV. Oh, signor Leandro, vi riverisco.
LEAN. Servidore di vossignoria illustrissima.
SILV. Mi rallegro di rivedervi in bottega.
LEAN. Grazie alla bontà del signor conte.
SILV. Avete accomodati i vostri interessi?
LEAN. Per ora si sono accomodati alla meglio; ma spero in avvenire che tutti saranno soddisfatti e contenti.
SILV. Avete bene assortito il vostro negozio?
LEAN. Sufficientemente per poter servire chi ci onorerà comandarci.
SILV. Avete di queste stoffe moderne di Francia, che diconsi peruviane?
LEAN. Di Francia non ne abbiamo, signore, ma bensì di quelle dello stato nostro, lavorate principalmente in Vicenza, che sono belle quanto quelle di Francia, e ben passate, e di buona seta, e di vaghi colori, che costano meno e fanno ancora miglior riuscita.
SILV. Lasciatemene veder qualche mostra.
LEAN. Appunto, eccone qui tre pezze sul banco. Veda se alcuna di queste può soddisfarla.
SILV. Per dire la verità, sono vaghissime, e come dite voi, i fiori sono assai ben passati ed hanno corpo, e i colori sono bene distribuiti. Questa mi piace più delle altre. Staccatene venti braccia per farmi un abito intero.
LEAN. M'immagino che il prezzo le sarà noto.
SILV. Appunto, mi era scordato di domandare il prezzo. Quanto ne volete al braccio?
LEAN. (Cattivo segno, se si scorda di domandare il prezzo). (da sé) Con chi conosce la roba, non si domanda più del giusto. Il solito è di domandar venti lire, per poi discendere ad una lira alla volta sino alle undici. A me piace l'usanza inglese: vale quindici lire, e non le domando di più.
SILV. La domanda è onestissima; non vi si può battere un soldo. Tagliatene venti braccia.
LEAN. Permetta ch'io le domandi una cosa.
SILV. Dite pure.
LEAN. Il negozio nostro deve andar per ora con un'altra regola. Mi figuro ch'ella mi conterà il danaro immediatamente.
SILV. So bene anch'io che ora non potete stare in esborso; mi appago della convenienza. Tagliate il drappo e non ci pensate.
LEAN. La servo subito. (misura le venti braccia di stoffa) Ne avanzano due sole braccia; se non ha difficoltà di prender tutta la stoffa, può servirsene per un paio di calzoni di più.
SILV. Sì, la prenderò tutta. Piegatela; ehi, Brighella.
BRIGH. Illustrissimo. (Leandro piega la stoffa)
SILV. Porterai questa stoffetta dal sarto, e gli dirai che sono ventidue braccia, che faccia in modo che v'escano due paia di calzoni. (Portala dove ti ho detto). (piano a Brighella)
BRIGH. La sarà servida. (Come alo fatto a tor sto abito senza quattrini?) (da sé)
SILV. Consegnate la roba al mio servitore. (a Leandro)
LEAN. Vuol che facciamo il conto, signore?
SILV. Sì, fatelo.
LEAN. Ecco qui. Braccia ventidue, a lire quindici il braccio, importano lire trecento e trenta.
SILV. Va benissimo. Portala al sarto, e digli che voglio l'abito per dopo domani. (a Brighella)
BRIGH. Vado subito. (vuol prendere la stoffa)
LEAN. Aspettate, galantuomo. (a Brighella, ritirando la roba) Il danaro, signore. (a Silvio)
SILV. Ad un par mio si fanno di queste scene? Quando ho detto di pagarlo, avete paura ch'io non lo paghi? Quanti zecchini fanno trecento e trenta lire?
LEAN. Quindici zecchini in punto.
SILV. E bene, quindici zecchini. (tira fuori una borsa) Prendi la roba e portala al sarto. (a Brighella)
BRIGH. La possio tor? (a Leandro)
LEAN. Prendetela.
BRIGH. Non occorr'altro; la porto subito. (Ancora me par impossibile che el ghe la paga). (da sé; prende la pezza e parte)
SILV. Non ho tanto nella borsa che basti. Dopo pranzo venite da me, che sarete pagato.
LEAN. Come, signore? Ehi, galantuomo. (verso Brighella)
SILV. Che? ardireste richiamare il mio servitore, diffidando della mia parola? (arrestando Leandro)
LEAN. I nostri patti non sono questi. Ha detto di pagar subito.
SILV. Poche ore non guastano. Pagando oggi, vi pago subito. Non vi faccio scrivere a libro. Venite oggi da me.
LEAN. Mi perdoni; questa non è la maniera. Se verrò oggi da lei, mi farà quello che mi ha fatto per lo passato. Ci son venuto sessanta volte per riscuotere il conto vecchio, e la partita non è saldata.
SILV. La vostra temerità meriterebbe che vi facessi correre altre sessanta volte, ma ho compassione delle vostre disgrazie, e voglio pagarvi non solo questo, ma tutto quel che vi devo di vecchio ancora. Unite i due conti insieme, e poi venite da me.
LEAN. I libri del negozio sono fuori di bottega, in mano de' creditori. Per ora mi paghi questo.
SILV. No, no, assolutamente. Voglio pagar tutto insieme. Quando avete i libri in bottega, fatemi un conto solo, e venite a riscuotere il vostro danaro.
LEAN. Mi paghi questo, signore, che ha obbligo di pagarlo subito, se ha coscienza, se ha riputazione.
SILV. Se ho riputazione! Ad un par mio si dice se ha riputazione? Non so chi mi tenga, che non vi lasci una memoria sul viso...
LEAN. Così si tratta coi galantuomini?...
SILV. Che galantuomini! Mercantuccio fallito.
SCENA TERZA
Pantalone e detti.
PANT. Coss'è sto strepito?
LEAN. Il signor conte...
SILV. Vostro figliuolo è temerario a tal segno, che mi ha perduto il rispetto.
LEAN. Ha preso ventidue braccia di peruviana... Trattenetevi, signor padre, in bottega, che a costo di tutto voglio ricuperarla. (parte)
SCENA QUARTA
Pantalone ed il conte Silvio
SILV. (Vada pure. Di Brighella posso fidarmi). (da sé)
PANT. Cossa vol dir, sior conte, invece de pagarme el debito vecchio, la vien a far un debito novo?
SILV. Ho detto a vostro figliuolo che venga oggi da me, che sarà pagato. Che impertinenza è questa di voler diffidare per poche ore?
PANT. Mio fio no xe patron de disponer, e se la vuol qualcossa, che la parla con mi.
SILV. Con voi ho da parlare? Credete forse che io non sappia che voi nel negozio non c'entrate più né poco, né molto?
PANT. Mi no gh'intro? Cossa songio mi?
SILV. Siete un fallito.
PANT. Sior conte, mi no me voggio scaldar el sangue, perché i mi interessi presentemente vuol che gh'abbia pazenzia, per no fenirme de precipitar. M'avè dito falio, gh'avè rason. Son andà in desordene per diversi motivi, ma tra questi ghe xe anca la rason delle male paghe; i prepotenti della vostra sorte xe quelli che rovina i poveri botteghieri. Volè far da grandi col nostro sangue, e a forza de far scriver sui libri, e de prometter e no pagar, ridusè i marcanti a falir. Ma se al marcante se ghe dise falio co nol pol pagar, cossa se ghe ha da dir a un par vostro, che fa i debiti per no pagar? Sior conte, in confidenza, che nissun ne sente, el xe un robar bello e bon.
SILV. A me questo?
PANT. A vu, sior; e se gh'ho cuor de dirlo, gh'ho anca cuor de mantegnirvelo, se bisogna.
SILV. Orsù, vedo che la disperazione in cui siete vi fa uscir di voi stesso, né voglio perdere il mio decoro con un uomo capace di ogni più vil debolezza.
PANT. Mi capace de viltà? Mi capace de debolezze?
SILV. Sì, voi che avete avuto il coraggio di ripetere da una donna trenta zecchini, dopo di averglieli regalati.
PANT. Chi v'ha dito sta cossa?
SILV. Clarice istessa, che si burla di voi.
PANT. Me par impussibile che la me possa trattar cussì mal, dopo quel che ho fatto per ela. Se poderave dar che sior conte avesse suppià sotto, per un poco de rabbia de no aver podesto far elo quello che ho fatto mi. I trenta zecchini ghe li ho imprestai. Xe ben vero che aveva animo de donargheli, ma adesso che so cussì, li voggio se credesse de precipitar.
SILV. Farete un'azione da vostro pari.
PANT. Cossa vorla dir, patron? la se spiega.
SILV. Non occorre che d'avvantaggio mi spieghi. Intendetela come volete; imparate per l'avvenire a trattar le donne di merito, ed a cozzarla co' pari miei. Ecco il fine che vi si doveva. La signora Clarice di voi si ride, e fa la stima che deve farsi della mia protezione.
PANT. Ghe vol altro che protezion! i vol esser bezzi.
SILV. Danari a me non ne mancano.
PANT. La paga i so debiti, co l'è cussì.
SILV. Vi pagherò, quando mi parerà di pagarvi. (parte)
SCENA QUINTA
Pantalone, poi il Servitore di Clarice.
PANT. El gh'ha rason che adesso no son in stato de far bravure, da resto ghe voria far veder quel che son bon de far; e se le cosse mie le se drezza, el vederà chi son. Ma da sta sorte de prepotenti no se pol recever de meggio. Quel che più me fa specie, xe el trattamento de siora Clarice: rider delle mie disgrazie? burlarme sora marcà? E no responderme gnanca alla lettera che gh'ho scritto? Chi sa che no la m'abbia resposo malamente, e no la sia quella lettera che m'ha dito el Dottor? Ma come porla esser in te le so man? no so, non ho più visto Truffaldin; pol esser tutto; ma se la xe cussì, anca sta siora farò che la se penta d'averse burlà de mi.
SERV. Servitor umilissimo, signor Pantalone.
PANT. No seu vu el servitor de siora Clarice?
SERV. Per obbedirla.
PANT. Xe vero che la vostra patrona?...
SERV. La mia padrona lo riverisce e gli manda questo viglietto.
PANT. Lassè veder. (prende il viglietto e lo apre) Sentiamo cossa che la sa dir.
Carissimo Amico.
Mi consolo di cuore che gl'interessi vostri riprendano miglior aspetto, assicurandovi ch'ero per voi in una agitazione grandissima. Non fate caso di quanto vi scrissi nell'altro mio viglietto, poiché un eccessivo dolor di testa mi aveva tratto fuor di me stessa. Se avrete la compiacenza di venir da me, parleremo dei trenta zecchini, e siate certo che potete disporre di me stessa. Vi prego dunque consolarmi colla vostra presenza, assicurandovi ch'io sono e sarò sempre colla più sincera amicizia
Vostra vera amica
chi voi sapete.
(Cossa me andava disendo quel caro sior conte, che la se burla de mi, che no la fa più stima de mi? Se pol scriver con più sincerità, con più amor? Capisso che el conte Silvio parla per invidia, per rabbia, e giusto per farghe despetto vôi andar, vôi seguitar l'amicizia e lo voggio far desperar). Andè dalla vostra patrona, diseghe che la ringrazio, e che sarò a reverirla. (al Servitore)
SERV. Sì, signore, sarà servito. (Non mi dona niente?) (da sé)
PANT. Coss'è? voleu gnente?
SERV. Avrei bisogno di comprare un poco di nastro color di rosa per un certo affare.
PANT. Aspettè. Questo ve serviravelo?
SERV. Questo sarebbe a proposito. Quanto al braccio?
PANT. Servelo per vu?
SERV. Per me, sì, signore.
PANT. Co el serve per vu, tolè la pezza e portevela via.
SERV. Obbligatissimo alle sue grazie. (Se farà così, anche la mia padrona gli tornerà a voler bene e non dirà più male di lui, come diceva questa mattina). (da sé, e parte)
SCENA SESTA
Pantalone solo.
PANT. Nissun m'ha visto a darghe quella cordella; no l'ho più da far, e no lo vôi più far; ma son in impegno per causa de sior conte de farghela veder co sta donna. Fenio sto impegno, lasso tutte le pratiche e me metto a tender al sodo. No posso miga tutto in t'una volta scambiarme affatto. Sta mutazion improvvisa gh'ho paura che la me farave crepar. Un pochetto alla volta me userò. Za con siora Clarice no gh'ho bisogno de spender per adesso; se ghe dono i trenta zecchini che la m'ha da dar, la xe discreta, ghe basterà. La me userà le solite distinzion, e sto sior conte scacchìo, affamà, el vederemo a batter la retirada, e el metterà le pive in tel sacco. (parte)
SCENA SETTIMA
Leandro, poi Aurelia
LEAN. Pazienza; non mi è riuscito ritrovar Brighella. Ma se porterà al sarto la roba, egli è avvisato, e gliela farò sequestrar nelle mani. Ecco qui; mio padre se ne va altrove e lascia la bottega sola. Continua colla solita sua negligenza. Almeno avesse chiamato i giovani. Chi è di là? c'è nessuno?
AUR. Chi chiamate, signor Leandro? (viene dall'interno della bottega)
LEAN. Qualcheduno che stia qui, sicché non resti la bottega sola.
AUR. Si è rimesso roba che basti nella bottega?
LEAN. Abbiamo un passabile sortimento da servire anche uno sposalizio, se occorre. Molta roba era ordinata; capitò nei giorni passati, ed io l'ho avuta sulla mia parola; altra mi è stata fidata da' miei amici, che hanno avuto compassione di me.
AUR. Che bei drappi ci sono all'ultima moda?
LEAN. Uno fra gli altri mi par bellissimo, con poco argento, ma bene distribuito. Non costa molto, ma in opera deve riuscire assai bene.
AUR. Potrei vederlo? Per semplice curiosità.
LEAN. Ma voi, signora, non istate bene in bottega.
AUR. Ora non passa nessuno. Vedo questo drappo e me ne vado subito.
LEAN. Eccolo qui. Osservate. (le fa vedere una pezza di broccatello)
AUR. Veramente bello; bello, di ottimo gusto. Quanto lo venderete al braccio?
LEAN. A me lo mettono cinquanta lire; faccio il conto di venderlo tre zecchini.
AUR. È bellissimo veramente.
LEAN. Vi piace dunque.
AUR. Sì, mi piace tanto, che ne voglio un taglio per me.
LEAN. Oh, signora, perdonate, ora non è il tempo che vi facciate un abito di questa spesa.
AUR. Lo voglio assolutamente.
LEAN. Bel guadagno che farà il negozio.
AUR. Segnatelo a mio conto. Mi ha promesso il signor Dottore, che avrò una mesata di tre zecchini.
LEAN. Da chi avrete questa mesata?
AUR. Da vostro padre, da voi, dal negozio.
LEAN. Tre zecchini il mese? Mi contenterei poterne ricavar tanti da mantener la famiglia, senza aggravarci di maggiori debiti.
AUR. Basta, per ora voglio quest'abito, e poi la discorreremo.
LEAN. Non signora; non l'avrete.
AUR. Non l'avrete? A me si dice non l'avrete? Colla mia dote si è assicurata la roba della bottega.
LEAN. Colla vostra dote e coll'eredità di mia madre.
AUR. E per conto mio voglio ora quest'abito.
LEAN. Ed io a proporzione posso dire di volerne quattro.
AUR. Prendetene anche sei, non m'importa. Intanto porto via questa pezza, e fate conto di non averla. (parte, e si porta seco il broccato)
SCENA OTTAVA
Leandro, poi Truffaldino
LEAN. Tutti tendono a consumare, ed io sarò il sacrificato? Se si vogliono rovinare, che si rovinino. Truffaldino.
TRUFF. Signor.
LEAN. Prendi queste tre pezze di broccato, e portale dalla signora Vittoria.
TRUFF. Se fala sposa?
LEAN. Non pensar altro. Portale colà, e dille che le tenga, fino che da me o da suo padre saprà cosa ne debba fare. (Prima che il diavolo le porti, le voglio mettere in salvo). (da sé, e parte)
TRUFF. Coll'occasion che porto ste tre pezze alla patrona, porterò sto taggio de manto alla serva. (prende la roba e parte)
SCENA NONA
Camera in casa di Clarice, con tavolino.
Clarice e Brighella
CLAR. Venite qui, che parleremo con libertà.
BRIGH. El mio padron ghe fa riverenza, e el ghe manda sta stoffa peruviana per farse un abito.
CLAR. Sono bene obbligata al signor conte. Mettetela qui su questo tavolino.
BRIGH. L'è un drappo all'ultima moda.
CLAR. Certo, è vago, è di buon gusto. Ringraziatelo voi intanto, che poi farò io le mie parti.
BRIGH. La sarà servida.
CLAR. Aspettate, voglio darvi da bere l'acquavite.
BRIGH. No la s'incomodi.
CLAR. Non volete?
BRIGH. Per non refudar le so grazie, riceverò quel che la se degna de darme.
CLAR. Mi dispiace che non ho moneta. Un'altra volta.
BRIGH. Come la comanda. (Avara del diavolo. Ho fatto tanta fadiga a sconderme da sior Leandro che me vegniva drio; se saveva cussì... basta). (da sé) A bon reverirla.
CLAR. Verrà presto il signor conte?
BRIGH. L'ha dito che el vegnirà avanti sera. (Che bel cuor che ha el me padron! Portar via la roba a un povero desgrazià, per farse merito con una donna! E mi ghe la porto? Voggio andar adesso a cavarme sta maledetta livrea). (da sé, indi parte)
SCENA DECIMA
Clarice, poi Pantalone
CLAR. Gran prodigio è questo del signor conte. Non ha mai fatto altrettanto. Ad onta delle sue grandiose parole, l'ho sempre creduto spiantato, ma convien dire ch'ei possa spendere, se ha fatto per me il sagrifizio di parecchi zecchini. Ciò mi fa sperare qualche cosa di più... Ma penso poi fra me stessa, che il vivere di regali e di protezioni è una cosa di troppo pericolo e di molto poco decoro. Pazienza! Ho gettato il tempo a imparare la musica, e la voce mi ha tradito. Sono stata allevata con morbidezza, e ora non so ridurmi... Oh, converrà che ci pensi e che mi procuri un marito, o che mi determini ad un mestiere che possa darmi da vivere con un poco più di riputazione.
PANT. Con grazia. Se pol vegnir?
CLAR. Venga, venga, signor Pantalone.
PANT. Cossa feu, fia mia? Steu ben?
CLAR. Benissimo, per servirla. Ed ella, signore, come si porta?
PANT. Mi stago da re. Pochi bezzi, ma sanità e bon tempo no me ne manca.
CLAR. Chi ha spirito, non si lascia abbattere dalle disgrazie.
PANT. Parlemo de cosse aliegre. Son vegnù a disnar con vu; me voleu?
CLAR. Mi farà piacere. Ma sa che io son sola; se si contenta di quel poco che c'è.
PANT. Me contento de tutto. Me basta la compagnia de siora Clarice. M'ho tolto la libertà de portarve un per de pernise. Tolè, fia, che le farè cusinar.
CLAR. Bene obbligata al signor Pantalone. Le mangeremo in compagnia, se si contenta.
PANT. No so se poderò restar. Se no vegnirò mi, le magnerè vu, una stamattina e una sta sera. Le metto qua su sto taolin. (pone le pernici sul tavolino e vede la stoffa) Cossa xe sta roba? qualche spesa da novo?
CLAR. Sì, signore, mi faccio un abito.
PANT. Se pol veder?
CLAR. Guardate, e ditemi se è di buon gusto.
PANT. Oh bella! sto drappo el xe vegnù fora dalla mia bottega.
CLAR. Ho piacere che la spesa sia stata fatta da voi.
PANT. Anca sì che indivino chi v'ha portà sto regalo?
CLAR. Lo credete un regalo?
PANT. Mi sì, certo; e una donna sincera come vu, no me lo negherà.
CLAR. È vero, non lo posso negare (È meglio confessarlo per metterlo al punto di far altrettanto). (da sé)
PANT. Sto regalo ve l'ha fatto sior conte Silvio.
CLAR. Verissimo. Si credeva ch'ei non potesse spendere, ma ha fatto vedere che ne ha, e che è un galantuomo.
PANT. Anzi in sta occasion el fa veder che el xe un miserabile e un poco de bon. Sta roba el l'ha cavada de man a mio fio con inganno, con prepotenza. Nol l'ha pagada e nol gh'ha intenzion de pagarla. E vu, se sè quella donna d'onor che ve vantè de esser, no l'avè da recever.
CLAR. Ma egli me l'ha mandata per il suo servitore, ed io l'ho ricevuta; come avrei a fare presentemente?
PANT. Mandeghela indrio; ma gnanca: el xe capace de venderla, e mi averave perso el mio capital. Fe cussì demela a mi, fideve de mi. Diseghe che l'ho vista, che l'ho cognossua...
CLAR. Ed io, poverina, ho da perdere miseramente un vestito? (con afflizione)
PANT. Aveu paura che mi no sia capace de farvene uno compagno?
CLAR. Questo mi piace tanto!
PANT. Aspettè. Gh'aveu el vostro servitor in casa?
CLAR. Ci deve essere.
PANT. Deme della carta e el calamar, e lassè far a mi, che sarè contenta.
CLAR. Eccovi il calamaio e la carta.
PANT. Scrivo do righe, e spero che sarè consolada. (si pone a scrivere)
CLAR. (Veramente, se il signor Pantalone ritorna com'era prima, mi giova più la di lui amicizia; è più splendido, è più generoso, e poi, presso la gente del mondo, un vecchio dà meno di osservazione). (da sé)
PANT. Ho fenio. Sentì quel che scrivo a mio fio.
Carissimo figlio.
Mi è riuscito ricuperare la peruviana, carpita dal signor Conte, e la rimando a bottega. In compagnia del datore della presente, mandatemi per un garzone le quattro pezze di ganzo, perché ho un'occasione di esitarne a pronti contanti.
CLAR. Perché avete detto a pronti contanti?
PANT. Digo cussì con mio fio, perché no voggio che el sappia i fatti mii. Chiamè el servitor. Demoghe sto drappo, e che el porta i ganzi d'oro e d'arzento, che ve sceglierè quelle che più ve piase.
CLAR. Ho da rimandar questo? e se non manda le pezze di ganzo, ho da restar senza?
PANT. Fideve de mi, non abbiè paura.
CLAR. Lo farò per compiacervi; (ma lo faccio mal volentieri). (da sé)
PANT. Tanto più me impegnè a far per vu tutto quello che poderò far.
CLAR. Vado subito a consegnar al servitore il drappo e la lettera. (Arrischio dieci per aver trenta; non mi par cattivo negozio). (da sé, indi parte portando seco la stoffa e il viglietto)
SCENA UNDICESIMA
Pantalone, poi Clarice
PANT. Voggio farghela veder a sto sior conte. Sior sì, un abito de ganzo per farghe despetto. E che l'impara a donar la roba soa, e no la roba dei altri. Nol xe un piccolo affronto quello che per causa mia ghe fa sta donna, a scoverzer le so magagne e mandar la so roba dove el l'ha tolta senza pagarla. Questo xe segno che la me vol ben, che la fa stima de mi.
CLAR. Posso far di più per il signor Pantalone?
PANT. Giusto adesso pensava tra de mi, che certo ve son obligà e che no so per vu cossa che no farave.
CLAR. Che mi dite ora sul proposito dei trenta zecchini?
PANT. Che ve li dono e che no ghe ne parlemo mai più.
CLAR. Se li volete, son pronta a restituirveli.
PANT. No v'incomodè, no ve travaggiè, che no i voggio.
CLAR. Aveva fatto un pegno per ritrovarli.
PANT. Poverazza! gradisso el vostro bon cuor. Avereu speso gnente per el pegno che avè fatto?
CLAR. A chi mi ha fatto il piacere, bisognerà ch'io doni almeno un zecchino.
PANT. No vôi che ghe remettè del vostro per causa mia. Tolè el zecchin e recuperè la vostra roba. (le dà uno zecchino)
CLAR. Grazie al signor Pantalone. (Anche questo è buono. Non era così pazza io d'impegnar per lui la mia roba) (da sé)
PANT. Me basta che me voggiè ben, e sora tutto che ve desfè intieramente de sto sior conte, che no merita d'esser praticà da una donna della vostra sorte.
CLAR. Mi dispiace una sola cosa.
PANT. Cossa ve despiase?
CLAR. Che questa sera mi ha invitata a una festa di ballo e ad una cena ancora, ed io gli ho dato la parola d'andarvi.
PANT. Se trova una scusa, e no se ghe va.
CLAR. È vero, lo potrei fare e lo farei volentieri, ma ho preso impegno di condurvi due signore del mio paese coi loro amici e parenti, e mi dispiace di dover fare una cattiva figura.
PANT. Anca co sti signori se trova un pretesto.
CLAR. Non saprei qual pretesto ideare. Questa è una cosa che mi mortifica infinitamente.
PANT. Cara fia, me despiase anca mi. Ma da sior conte no gh'avè d'andar.
CLAR. Per farmi comparir bene coi miei patrioti, non potrebbe supplire il signor Pantalone? Delle feste e delle cene me ne ha date ancora; non mi potrebbe favorir questa sera?
PANT. Lo faria volentiera. Ma adesso gh'ho i mii riguardi.
CLAR. Che sia vero quel che hanno detto?
PANT. Cossa ali dito?
CLAR. Che il signor Pantalone non comanda più, non maneggia più, non è padrone di spendere, né di cavarsi una soddisfazione?
PANT. No xe vero gnente. Son patron mi, comando mi, posso spender a modo mio, e che sia la verità, stassera gh'averè la cena e la festa da ballo.
CLAR. Davvero, vi sarò tanto obbligata, e avrò piacere per voi, acciò si smentiscano le lingue dei maldicenti.
PANT. Son quel che giera e sarò sempre a vostra disposizion. Ghe xe stà in casa un poco de borrasca, ma ho buttà l'àncora a fondi e me son defeso.
SCENA DODICESIMA
Il Servitore di Clarice e detti.
SERV. Son qui colla risposta.
CLAR. Dov'è la roba? (al servitore)
SERV. Io non ho altra roba che questo pezzo di carta.
PANT. No i v'ha dà delle pezze de ganzo? No xe vegnù con vu nissun de bottega?
SERV. Non c'è nessuno con me, e il ganzo non l'ho veduto.
PANT. Mio fio ghe gerelo?
SERV. Questa polizza l'ha scritta egli stesso.
PANT. Cossa diselo? (vuol aprire)
CLAR. A me, a me; voglio leggerla io. (prende la carta)
Carissimo signor padre.
Delle pezze di ganzo che vi erano, la più bella l'ha voluta per sé la vostra signora consorte. Le altre le ho poste in salvo, perché non periscano, e penso di barattarle. Ho venduto le peruviane e quella ancora che avete mandato, ricuperata dalle mani del Conte.
PANT. (Stago fresco da galantomo). (da sé)
CLAR. Ecco il bell'abito che mi farà il signor Pantalone. Già il cuore me lo diceva; ho perduto quello che aveva, ed ora sono senza dell'uno e senza dell'altro.
PANT. Mia muggier s'ha tolto una pezza de ganzo? La me ne renderà conto. Farò che la lo metta fora, e ve lo manderò avanti sera.
CLAR. No, no, non voglio entrare in impegno con vostra moglie. Ciò potrebbe farmi perdere la riputazione presso di lei e presso del mondo. Pazienza! Farò di meno, e imparerò in avvenire a fidarmi poco delle promesse degli uomini.
PANT. Vu me mortifichè senza rason.
CLAR. Non ho ragione di lamentarmi? Che dirà il signor conte? Come potrò giustificarmi con lui della mala azione che per causa vostra gli ho fatto?
PANT. Ghe remedieremo.
CLAR. Eh, non vi è altro rimedio che dirgli che voi mi avete sedotta...
PANT. Cussì me volè trattar?
CLAR. Compatitemi, è grande la passione di aver perduto un vestito, in tempo che ne ho di bisogno.
PANT. No son capace de farvene un altro?
CLAR. Non so di che cosa siate capace. Vedo ora il bel frutto delle vostre lusinghe.
PANT. L'oggio fatto fursi per lusingarve?
CLAR. Se diceste davvero, non mi avreste fatto perdere il certo per l'incerto.
PANT. Son un galantomo, patrona.
CLAR. Alle prove si conosce la verità.
PANT. Alle prove? Tolè, siora, ve farò veder chi son. Tolè, questi xe cinquanta zecchini; feve un abito de ganzo, e comprevelo da chi volè. (getta sul tavolino una borsa)
CLAR. Basteranno cinquanta zecchini?
PANT. Se no i basterà, supplirò per el resto. A dosso no ghe n'ho altri. Voleu che me despoggia in camisa?
CLAR. No, il mio caro signor Pantalone, vi sono tanto obbligata. Vedo l'amore, la bontà che avete per me. Vi ho sempre conosciuto per il re de' galantuomini. Non farei un dspiacere a voi per trattare un altro, s'ei mi volesse indorare da capo a piedi. Tratterò il signor conte com'egli merita. Non isperi egli d'avermi al suo festino. Voglio venire al vostro, che sarà bello, che sarà magnifico, e che mi sarà tanto più caro, perché mi viene offerto dal bel cuore del mio amatissimo signor Pantalone.
PANT. Volè anca el festin?
CLAR. Sì, certo, e anche la cena. Non me l'avete promesso? Un galantuomo come voi, non manca alla sua parola.
PANT. No occorre altro. Faremo tutto. (Ghe son, e bisoga starghe).
CLAR. Ma non vi è tempo da perdere, se volete far le cose con buona maniera. Conviene che andiate a dare gli ordini per questa sera.
PANT. Aspettè, xe a bonora. Lasseme gòder un poco la vostra compagnia.
CLAR. No, se mi volete bene, non perdete tempo. Mi preme che riesca la cosa con pulizia; andate subito ad ordinare quel che bisogna.
PANT. E ho d'andar subito?
CLAR. Via, non mi fate andar in collera.
PANT. Vago, vago. Par che me scazzè via.
CLAR. Questa sera ci divertiremo.
PANT. Stassera se devertiremo. Sarè avvisada del logo. Invidè vu chi volè, che mi no invido nessun. Arecordeve, sora tutto, che sior conte nol voggio.
CLAR. Il signor conte non lo pratico più.
PANT. Brava, a revederse stassera. Voggieme ben, tendè al sodo, no v'indubitè gnente. Fin che gh'averò bezzi, i sarà tutti a vostra disposizion. (parte)
CLAR. Va subito dal signor conte Silvio, digli che venga qui, che mi preme. (al servitore) (Non voglio perdere né l'uno, né l'altro). (parte)
SERV. La mia padrona ha giudizio. È una cacciatrice che tende le reti ai fagiani, alle starne, ai passeri ed ai merlotti. (parte)
SCENA TREDICESIMA
Camera in casa di Pantalone.
Aurelia e Marcone
AUR. Sì, certo, questa sera portatemi tutti i miei vestiti, che il danaro ci sarà per riscuoterli.
MARC. Quand'ella abbia il danaro, sto qui vicino, mi mandi a chiamare, che vengo subito.
AUR. Ma che vi pare de' miei vestiti? Mi sembrano antichi, non è egli vero?
MARC. Certo che sono antichi, per una giovane come lei. Anzi la consiglierei a venderli e farsene de' più moderni.
AUR. Ecco qui del broccato per farne uno di gusto.
MARC. Il drappo è bello. All'ultima moda. Ma la pezza è grossa; ve ne sarà per più di un vestito.
AUR. L'ho misurato. Sono cinquanta braccia.
MARC. Si cavano due vestiti intieri senza risparmio. Ne potrebbe vendere uno.
AUR. Anzi lo voglio vendere, perché ho bisogno di cento cose e non voglio dipendere da mio marito.
MARC. Quanto ne vuole al braccio?
AUR. Alla bottega lo vendono tre zecchini.
MARC. Oh, non merita questo prezzo. Vi è pochissimo argento. Il drappo è leggiero, e anche poco battuto. Al più, al più, gli si potrebbero dar tre filippi.
AUR. Se lo volessi dare per tre filippi, voi lo comprereste?
MARC. Se si trattasse di far a lei un piacere, lo comprerei, cioè ne comprerei ventidue braccia per un'andriene.
AUR. E ventidue sono quarantaquattro. Avanzerebbero sei braccia. Potreste comprare anche le sei braccia che restano.
MARC. Per farne che? Basta, per servirla, li comprerò a un zecchino al braccio.
AUR. Quanto mi verrebbe in tutto?
MARC. Delle ventidue braccia sedici zecchini e mezzo, e sei ventidue e mezzo.
AUR. Datemi il danaro, e prendetevi ventiotto braccia del drappo.
MARC. Ma, favorisca in grazia, se questa sera ha da riscuotere i suoi vestiti, perché ora vuol farne uno di nuovo, ch'è inferiore dei suoi?
AUR. Non mi avete detto che non sono alla moda?
MARC. Ora mi sovviene che due di essi sono moderni ancor più di questo, e più massicci, e di maggior valore. Non sarebbe meglio che ella si prendesse di tutta la pezza cento e cinquanta filippi?
AUR. Cencinquanta filippi non mi sarebbero discari. (Potrei divertirmi alla conversazione). (da sé)
MARC. (Se me la dà, ne guadagno almeno cinquanta). (da sé)
AUR. Sono quasi persuasa di farlo.
MARC. Ed io son pronto a darle il danaro.
AUR. Animo dunque, il negozio è fatto.
MARC. Misuriamo la pezza.
AUR. Misuriamola; ma di me vi potete fidare.
MARC. Non occorr'altro; sto sulla sua parola. Contiamo il danaro. (tira fuori la borsa e principia a numerare)
SCENA QUATTORDICESIMA
Pantalone e detti.
PANT. (Mia muggier co sto dretto de piazza? Son curioso de saver cossa se contratta). (da sé, in disparte)
AUR. Sopratutto che i zecchini siano di Venezia e di peso.
MARC. Io mi fido di lei, ed ella deve fidarsi di me.
PANT. (Bezzi? Per diana, che ghe n'averia bisogno anca mi, che siora Clarice me n'ha dà una bona destrigada). (da sé)
MARC. Settanta e cinque settantacinque; questi sono settantacinque zecchini...
PANT. Alto là, patroni. Cossa xe sti negozi?
AUR. (Oh maledetto! è capitato in tempo!) (da sé)
PANT. Coss'è, sior Marcon carissimo, che interessi gh'aveu con mia muggier?
MARC. Signore, ella vuol vendere questa pezza di broccato, ed io per farle piacere la compro.
PANT. Per farghe piaser!
MARC. Io non sono venuto a pregarla.
AUR. E bene, che vorreste dire per questo? (a Pantalone)
PANT. Voggio dir, che me maraveggio dei fatti vostri, che in tel caso che se trova la nostra casa, abbiè cuor de tor la roba in bottega, e de venderla per buttarla via.
AUR. Finalmente la roba di bottega è assicurata dalla mia dote.
PANT. Se farè cussi, andarà la dota e la bottega e la casa. Pensè a regolarve, pensè al bisogno che gh'avemo d'economia. Ai debiti che un zorno bisognerà pagar. Moderè l'ambizion, scambiè el modo de viver, e tolè esempio da mi. Via, mostreve una donna savia e prudente. Aspettè che la sorte se mua per nu, e allora poderè sodisfarve; abbiè giudizio, vivè con regola, e tolè esempio da mi.
AUR. Orsù, per causa mia non voglio che dite che siete andato in rovina. Vi lascio il broccato e mi privo di questa soddisfazione, sperando che voi pure farete lo stesso. Ma se mi accorgo che voi gettiate malamente un paolo, vi assicuro che anch'io non lascierò di fare la parte mia. (parte)
SCENA QUINDICESIMA
Pantalone e Marcone
MARC. Dunque riprendo il mio danaro e vi chiedo scusa se mai...
PANT. Aspettè. Quanto ghe devi de quella pezza de ganzo?
MARC. Dirò, capisco che in bottega lo venderete di più a chi verrà a comprarlo; ma cercando di volerlo vendere, non si può pretendere...
PANT. Via, quanto ghe devi?
MARC. Sono cinquanta braccia in ragione di tre filippi il braccio, cencinquanta filippi.
PANT. Podeu crescer gnente?
MARC. Niente affatto.
PANT. Che bezzi xe quelli?
MARC. Settantacinque zecchini.
PANT. Tolè su el ganzo, e portevelo via. (si prende i zecchini)
MARC. Ma voi avete sgridato la moglie...
PANT. Ela li toleva per buttarli via. Mi togo i bezzi per impiegarli ben. (Ela li averave zogai, mi almanco li spenderò meggio stassera) (da sé, e parte)
SCENA SEDICESIMA
Marcone, poi Leandro ed il Dottore
MARC. Mi pareva impossibile che Pantalone avesse fatto giudizio. (prende il broccato sotto il braccio)
LEAN. Che fate qui voi?
MARC. Prendo la roba mia, e me ne vado.
LEAN. Da chi avete avuto quel broccato? Dalla signora Aurelia?
MARC. Non signore. L'ho avuto dal signor Pantalone, e a lui ho contato settantacinque zecchini.
LEAN. Cinquanta braccia di quel broccato a tre filippi il braccio? Con che coscienza lo prendereste?
MARC. Cosa mi andate voi discorrendo? L'ho preso da un mercante; se non me lo avesse potuto dare, non me lo avrebbe dato. Egli ha avuto il danaro, ed io mi porto meco la mercanzia; sono un galantuomo e voi, se siete di ciò malcontento, lamentatevi di vostro padre. (parte)
SCENA DICIASSETTESIMA
Leandro e il Dottore
LEAN. Sentite, signor Dottore? Mio padre continua a precipitare i negozi come ha fatto sempre.
DOTT. E vi è di peggio ancora. Tengo persone all'erta per sapere i suoi andamenti; e so ch'egli è stato a fare una lunga visita alla signora Clarice.
LEAN. Possibile che ciò sia vero?
DOTT. Che volete di più? La locanda è dirimpetto alla nostra casa. L'hanno veduto entrare ed uscire mia figlia e la serva.
LEAN. Ora capisco dove voleva esitare le pezze di broccato, che mi mandò a chiedere.
DOTT. E vi dirò anche di peggio. So che ha parlato con de' suonatori per una festa di ballo.
LEAN. Povero me! Sono assassinato.
DOTT. Convien trovarvi rimedio. Sinora negli accomodamenti ho avuto riguardo al suo decoro, da qui in avanti penserò soltanto all'interesse vostro, povero innocente sagrificato!
LEAN. Venero e rispetto mio padre, ma la sua condotta ci vuol ridurre un'altra volta agli estremi. (parte)
DOTT. Vi rimedierò io; chi non ha fede, non merita compassione. (parte)
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Camera nel casino della festa di ballo, con tavolino, sedie e lumi accesi.
Pantalone e Truffaldino
PANT. Senti, Truffaldin, sta sera gh'ho bisogno de agiuto. Ho tolto sto casin a fitto per devertirme, e sta sera se fa una cena e un festinetto; ho gusto d'averte anca ti, perché ti xe fidà, e son seguro che ti tenderà a quel che bisogna, ma varda ben, no dir gnente né a mio fio, né a mia muggier, né al Dottor, né a nissun a sto mondo. Se ti parli, poveretto ti.
TRUFF. No la dubita gnente, in materia de fedeltà no gh'è nissun che possa dir de mi quel che se pol dir de tanti altri garzoni.
PANT. Come sarave a dir? Cossa credistu che fazza i altri garzoni?
TRUFF. I ha ordinariamente tre o quattro vizietti, un più bello dell'altro. I se diletta de zogar, e chi paga? la cassetta del patron. I ha la donnetta, e chi la veste? la roba della bottega del patron. I va all'opera, alla commedia, e a spese de chi? del patron. I se va a devertir coi so cari amici, e chi tol de mezzo? el patron. Co i sta a bottega, cossa fali? i mormora del patron, i strapazza el patron, e i conta ai so camarada tutte le fufigne del patron.
PANT. Ti che ti xe un putto de garbo e senza vizi, come fastu a saver tutte ste cosse?
TRUFF. Le so perché le so, e se no le savesse, no le saveria.
PANT. Oh, che bella rason da pandolo! (No vorave che costù fusse pezo dei altri. Ghe voggio dar una tastadina). (da sé)
TRUFF. (Se el la savesse tutta! Ma fazzo le mie cosse con pulizia e nol saverà gnente più de cussì). (da sé)
PANT. Stassera, come che te diseva, fazzo un festin; se ti gh'avessi anca ti qualche impegnetto con qualche putta, ti la poderessi menar.
TRUFF. So che la burla, sior Pantalon.
PANT. No, no burlo, ho paura che saremo pochetti. Averave gusto che ghe fusse delle donne, staressimo più allegramente.
TRUFF. (Se credesse che el disesse da bon!) (da sé)
PANT. Via, se ti cognossi qualche femena, fala vegnir, e do, e tre, quante che ti vuol. Za nissun saverà gnente; tasi ti, che taso anca mi.
TRUFF. Caro sior padron, co se tratta de farghe servizio, la lassa far a mi. Cognosso quattro o cinque massere, le farò vegnir.
PANT. (Oh, che baron!) Dime un poco, te fazzo una confidenza. Vorave veder de cavar le spese in qualche maniera. Metteremo dei taolini; taggierò alla bassetta e vorave che in maschera ti me stassi arente a farme da groppier: te ne intendistu de bassetta?
TRUFF. Sior sì, la lassa far a mi, e la taggia liberamente. Ai ponti ghe tenderò mi. So cossa che l'è el più, el paroli, el sette a levar, la segonda, la fazza, la sonica, el ponto in marea; so tutto, la se fida de mi.
PANT. (Oh che galiotto!) (da sé) Caro Truffaldin, te vôi confidar un'altra cossa. So che ti me vuol ben, ti me assisterà.
TRUFF. Son qua, per i amici me farave squartar.
PANT. Bravo, ti me tratti come amigo, no come patron.
TRUFF. A bottega e in casa ve considero come patron, qua semo al casin, semo in confidenza, e fideve de un omo della me sorte.
PANT. Mi credo de poderme fidar più come amigo, che come patron.
TRUFF. No gh'è dubbio, no tradirave un amigo per tutto l'oro del mondo.
PANT. Più tosto el patron.
TRUFF. Co l'andasse da l'amigo al patron...
PANT. Più tosto tradir el patron che l'amigo.
TRUFF. Vedì ben, l'amicizia l'è una gran cossa.
PANT. (Melo vago godendo sto caro amigo). (da sé) Penso che a ste donne che vegnirà, bisogneria donarghe qualcossa.
TRUFF. Seguro che le donne le vol esser regalade, e se no le se regala, no se fa gnente.
PANT. Anca ti le to massere ti le regalerà.
TRUFF. Qualche volta.
PANT. E come fastu a trovar i bezzi o la roba da regalarle?
TRUFF. Lassemo andar sti discorsi, che no serve gnente; cossa pensela, sior Pantalon, de voler donar a ste donne?
PANT. (Eh, ti ghe cascherà, furbazzo!) (da sé) Se poderia donarghe qualche taggio de roba, qualche cavezzo de drappo, della cordela, delle galanterie de bottega.
TRUFF. Sior sì, ste cosse le donne le gradisse infinitamente. Anca mi co ghe porto... E così come vorla far?
PANT. Me despiase che in bottega ghe xe sempre mio fio. Gran seccagine, gran ignorante che xe quel mio fio.
TRUFF. L'è una cossa che no se pol sopportar. Avaro, fastidioso, cattivo.
PANT. L'è un temerario de prima riga.
TRUFF. Credeme da amigo, sior Pantalon, che l'è un aseno.
PANT. Olà, come parlistu de mio fio? Varda ben che anca elo el xe to patron. Ti no ti disi mal dei patroni.
TRUFF. Eh, digo cussì, perché nol me sente.
PANT. Bravo! Come se poderave far a provvederse del nostro bisogno, senza che elo se n'accorzesse?
TRUFF. Lassè far a mi. Za el serra la bottega a bonora, averè tutto quel che volè.
PANT. Come farastu co la bottega serrada?
TRUFF. No stè a pensar altro, sarè servido.
PANT. Ti xe un omo de spirito, ti xe un bon amigo; dimelo in segretezza; za con mi ti te pol confidar; gh'averavistu, per fortuna, qualche chiave falsa?
TRUFF. Zitto, che nissun senta. Sior sì, gh'ho una chiave che averze.
PANT. Caro ti, lassa che la veda.
TRUFF. Ma... no credessi mai che fasse delle baronade; son un garzon onorato. Savìu per cossa che m'ho fatto far sta chiave?
PANT. Per cossa?
TRUFF. Perché i patroni delle volte i dorme tardi, i tien le chiave in camera, e cussì posso andar a avrir la bottega la mattina a bonora.
PANT. Mo che bravo putto! Mo che putto de garbo! Lassemela veder mo sta chiave.
TRUFF. Eccola qua. Ma! zitto. (mostra la chiave)
PANT. Zitto. (prende la chiave) E senza far altre chiaccole, sior garzon onorato, che no zioga, che no roba, che no gh'ha donne e che no dise mal dei patroni, andè subito subito a far i fatti vostri, e non abbiè più ardir de metter piè né in casa, né in bottega, e ringraziè el cielo che no ve fazza andar in galia.
TRUFF. A mi sto tradimento? A un amigo della mia sorte?
PANT. Oh che caro amigo! Ladro, baron, furbazzo.
TRUFF. Deme la me chiave.
PANT. Te darò un fracco de legnae, se no ti va via.
TRUFF. La me costa un ducato.
PANT. Chi elo quel favro che te l'ha fatta?
TRUFF. L'era un galantomo, che le faceva per far servizio ai zoveni de bottega.
PANT. Voggio saver chi el xe. Dove stalo de bottega?
TRUFF. Nol gh'ha bottega, el negozia in casa.
PANT. Ma dove?
TRUFF. All'altro mondo.
PANT. Xelo morto?
TRUFF. Sior sì; a Napoli, per benemerito della so bella virtù, i gh'ha fatto l'onor de impiccarlo.
PANT. I te farà a ti l'istesso onor, se ti seguiterà sta vita.
TRUFF. Per cossa?
PANT. Perché ti è un ladro.
TRUFF. Tutti i ladri se impiccheli?
PANT. Certo.
TRUFF. Caro sior Pantalon, adesso che so sta cossa, no gh'è dubbio che toga mai più niente a nissun. Me despiase d'averlo fatto, e ve domando perdon. Ve ringrazio che m'avè fatto la carità de avisarme, e per gratitudine ve vôi dar anca mi un avertimento da amigo. Vardeve ben e penseghe ben, perché se mi ho robà ai mi patroni, anca vu avè ingannà i marcanti che v'ha fidà la so roba, e credemelo, sior Pantalon, che anca a questo se ghe dise robar. (parte)
SCENA SECONDA
Pantalone, poi Marcone
PANT. Tocco de desgrazià!... Ma! no so cossa dir. El m'ha fatto vegnir i suori. Manco mal che no gh'è nissun.
MARC. Oh, signor Pantalone, la riverisco.
PANT. Compare Marcon, bona sera sioria.
MARC. Eccomi qui a ricevere le vostre grazie.
PANT. Solo sè vegnù? Perché no menar qualchedun?
MARC. Ho condotto una giovane, ma non l'ho fatta venir avanti, perché non sapevo chi ci fosse.
PANT. Fela vegnir. No ghe xe gnancora nissun.
MARC. Subito. (in atto di partire)
PANT. Oe, disè, che roba xela?
MARC. Una giovane bolognese; ma savia, onesta e civile.
PANT. Cossa serve? Co la xe con vu, me l'immagino. Fela vegnir avanti.
MARC. Subito la faccio venire. Anzi vi prego di custodirla voi, fin tanto ch'io vado poco lontano per un piccolo interesse.
PANT. Volentiera. A mi me la podè consegnar. Savè che son galantomo, e po xe passà el tempo che Berta filava. (parte)
MARC. Basta, basta. Ritorno presto. (parte)
SCENA TERZA
Pantalone, poi Graziosa
PANT. Me piase l'allegria, la compagnia; da resto de donne no ghe ne penso.
GRAZ. Serva sua. (fa una riverenza sgarbata)
PANT. Patrona, la reverisso. Stala ben?
GRAZ. Gnor sì.
PANT. Vorla comodarse? Se vorla sentar?
GRAZ. Gnor no.
PANT. La xe bolognese n'è vero?
GRAZ. Gnor sì.
PANT. Xela mai più stada a Venezia?
GRAZ. Gnor no.
PANT. Ghe piasela sta città?
GRAZ. Gnor sì.
PANT. Xela maridada?
GRAZ. Gnor no.
PANT. Xela putta?
GRAZ. Gnor sì.
PANT. (Gnor sì, gnor no, la me par una marmottina). (da sé) Cossa gh'ala nome?
GRAZ. Graziosa.
PANT. Graziosa?
GRAZ. Gnor sì.
PANT. El so cognome?
GRAZ. Nol so.
PANT. No la sa el so cognome?
GRAZ. Gnor no.
PANT. De che casada xe so sior padre?
GRAZ. Nol so.
PANT. No la gh'ha padre?
GRAZ. Gnor no.
PANT. No la lo ha mai cognossù so sior padre?
GRAZ. Gnor no.
PANT. Xelo morto?
GRAZ. Nol so.
PANT. (Oh che capetto d'opera che me xe capità!) (da sé) La diga, gh'ala morosi?
GRAZ. Gnor no.
PANT. Ghe ne voravela uno?
GRAZ. Gnor sì.
PANT. Mi saravio bon per ela?
GRAZ. Gnor no.
PANT. Obligado della finezza. Starala un pezzo a Venezia?
GRAZ. Gnor sì.
PANT. Dove stala de casa?
GRAZ. Nol so.
PANT. Sala ballar pulito?
GRAZ. Gnor no.
PANT. No la xe vegnua qua per ballar?
GRAZ. Gnor no.
PANT. Xela vegnua per cenar?
GRAZ. Gnor sì.
PANT. Mo brava! Mo che bon mobile che m'ha menà quel caro Marcon!
SCENA QUARTA
Il Servitore di Clarice e detti.
SERV. Servitor umilissimo, signor Pantalone.
PANT. Quel zovene, ve saludo. Vienla la vostra patrona?
SERV. È qui vicina che va venendo, e mi ha mandato innanzi a dire a V.S., se le permette di condurre una persona con lei.
PANT. No xela patrona?
SERV. Ma non sa se V.S. vorrà la persona ch'ella vorrebbe condurre.
PANT. Tutti, fora che el conte Silvio.
SERV. Appunto è il conte Silvio ch'ella conduce.
PANT. Come! la lo sa pur. La me fa sto torto?
SERV. Non ha potuto disimpegnarsi, e se non viene il conte, non può venir la padrona.
PANT. E la festa che xe fatta per ela?
SERV. Non può venire senza del signor conte.
PANT. Son curioso de saver el perché. No so cossa dir, che la vegna con chi la vol. Da una banda gh'ho gusto che sto sior el veda come se fa a servir una donna, co se xe in t'un impegno; che la vegna, che la xe patrona.
SERV. Sì, signore, glielo dirò. (parte)
SCENA QUINTA
Pantalone e Graziosa
PANT. Cossa fala in piè?
GRAZ. Nol so.
PANT. Xela stracca?
GRAZ. Gnor no.
PANT. No la sa dir altro che gnor sì e gnor no?
GRAZ. Gnor sì.
PANT. Via donca, che la diga qualcossa de bello.
GRAZ. Gnor sì.
PANT. Vorla che la vegna trovar a casa?
GRAZ. Gnor no.
PANT. No la gh'ha reloggio?
GRAZ. Gnor no.
PANT. Toravela questo, se ghe lo dasse? (le mostra il suo orologio)
GRAZ. Gnor sì. (con allegria)
PANT. Gnor no. (mette via l'orologio)
GRAZ. (Piange.)
PANT. La pianze? Per cossa pianzela?
GRAZ. Nol so. (piangendo)
PANT. Voravela sto reloggio?
GRAZ. Gnor sì.
PANT. Se ghelo darò, me vorala ben?
GRAZ. Gnor no.
PANT. Mo sarave ben minchion, se ghe lo dasse.
SCENA SESTA
Marcone e detti.
MARC. Eccomi di ritorno.
PANT. Compare, vu m'avè menà una zoggia.
MARC. Ah? che ne dite?
PANT. Gnor sì, gnor no, a tutto pasto.
MARC. Signora Graziosa.
GRAZ. Gnor.
MARC. Vi pare che il signor Pantalone sia una persona di merito?
GRAZ. Nol so.
PANT. Caro vu, feme un servizio, menela de là in portego, che debotto la me fa vegnir mal.
MARC. Vossignoria non conosce il buono.
PANT. Tegnivela a cara, che la xe una cossa particolar.
MARC. Volete venire in sala?
GRAZ. Gnor sì.
PANT. Gh'ala bisogno de gnente?
GRAZ. Gnor no.
MARC. Fate una riverenza al signor Pantalone.
GRAZ. Gnor sì. (fa una riverenza sgarbata e parte)
PANT. Compare, co no gh'avè de meggio, stè mal.
MARC. Non conoscete il buono, vi dico. È una giovine semplice, semplicissima, e non è male ch'ella sappia dir di sì e di no secondo le congiunture. (parte)
SCENA SETTIMA
Pantalone, poi Clarice in maschera ed il conte Silvio
PANT. Per mi digo che la xe una sempia, e che me piase che le donne le sappia dir de no con rason, e dir de sì co bisogna.
CLAR. Eccoci, signor Pantalone, a ricevere le vostre grazie.
PANT. Anzi i xe onori che mi ricevo da ela e da sior conte, che se degna de favorirme.
SILV. Ringraziate la signora Clarice. In grazia sua ho ceduto il luogo, e ho differito la festa che le avevo già preparato.
PANT. L'aveva parecchià una festa e la l'ha differida? Meggio per ela, sior conte; la scriva in libro: per tanti sparagnati.
SILV. Voi ne avete più bisogno di me di scrivere a libro le partite di risparmio.
PANT. Ela no sa i fatti mii.
SILV. Né voi sapete i miei.
PANT. Certo mi no posso dir altro de ela, che quel che parla i mi libri.
SILV. È questa la gran camera della festa da ballo?
PANT. Lustrissimo sior no. Ghe xe un portego grando sie volte come sta camera, ben illuminà, con dei sonadori in abbondanza, e po dopo la vederà un tinelo con una tola, che sarà degna della presenza de vussustrissima.
SILV. Avete fatto bene a prendere in imprestito questo casino, in luogo lontano assai dalle piazze.
PANT. Perché oggio fatto ben?
SILV. Perché i vostri creditori difficilmente vi troveranno.
PANT. E ela l'ha fatto mal a vegnir qua.
SILV. Per qual ragione?
PANT. Perché la xe vegnua in casa de un so creditor.
SILV. (Costui è stanco di vivere). (da sé)
CLAR. E bene, signor Pantalone, non vi è nessuno ancora? Non si principia la festa?
PANT. Xe ancora a bonora; ma se la vol andar in portego, la xe patrona.
SILV. Già che vi è tempo, signora Clarice, si potrebbe andare dal vostro sarto a sollecitarlo. Già la gondola aspetta.
PANT. Ala comprà el ganzo per farse l'abito?
CLAR. Non ancora.
SILV. L'abito non sarà di broccato, ma tant'e tanto sarà una cosa nobile e di buon gusto.
PANT. Saravelo fursi de stoffa peruviana?
CLAR. Non parliamo ora di vestiti. Andiamo a veder la sala.
SILV. Cosa sapete voi di che sia il vestito ch'ella dee farsi?
PANT. Vardava se el giera el drappo che sior conte ha tolto alla mia bottega.
SILV. Pensate che in Venezia non ve ne siano di compagni?
PANT. Ghe ne sarà, ma intanto sior conte ha volesto farne sta finezza de vegnirlo a comprar da nu.
CLAR. (Non vorrei che si scoprisse l'imbroglio). (da sé) Andiamo, signor conte, andiamo, signor Pantalone.
SILV. Ho dato ordine al mio servitore, che paghi a vostro figliuolo quello che ho comperato per me.
PANT. No la s'incomoda de pagar sta polizza. Piuttosto la me salda le vecchie.
SILV. No, no, voglio saldar questa per ora. Ho dato la mia parola.
PANT. Per questa no gh'è bisogno, la xe saldada.
SILV. Perché saldata?
PANT. Perché la roba xe tornada a bottega.
CLAR. Volete finirla, signori miei? Volete finirla?
SILV. Come! L'avreste voi levata dalla bottega del sarto?
PANT. L'ho tolta dove che l'ho trovada, e la mia roba la posso tor dove che la trovo.
SILV. Dove l'avete voi trovata?
PANT. In casa de siora Clarice; e l'avviso per so regola, che co se vol regalar una signora, se va a comprar e se paga, e co no se pol pagar, se fa de manco de far regali.
CLAR. (L'ha voluta dire, che possaglisi seccar la lingua). (da sé)
SILV. Signora Clarice, che cos'è quel che dice il signor Pantalone?
CLAR. Non so niente. Andiamo a ballare.
SILV. Avreste voi avuto l'ardire di portar via un abito alla signora Clarice? (a Pantalone) Ecco cosa sono i bravi giocatori di testa. Portano via alle donne in luogo di darne, e fanno poscia i festini...
PANT. I omeni della mia sorte sa donar cinquanta zecchini a una donna per farse un abito de ganzo. Siora Clarice, se l'ala fatto? L'ala comprà? Se i cinquanta zecchini no basta, la comandi, questi i xe zecchini, e i xe a so disposizion. (fa vedere una borsa con danari)
SILV. (Costui tenta di mortificarmi, ma penserò una qualche vendetta). (da sé)
CLAR. Signor Pantalone, i galantuomini che fanno una finezza di buon cuore, non la propalano per mortificare chi l'ha ricevuta.
PANT. La compatissa, la gh'ha rason, ma de le volte no se pol far de manco.
SILV. Il signor Pantalone fa delle guasconate di molte. Chi sa che in quella borsa non vi sia del rame invece di oro?
PANT. Rame, patron? La varda, la se inspecchia in sto rame. (versa i zecchini sopra la tavola)
SILV. Tutto sangue di creditori.
PANT. Cussì xe quell'abito che la gh'ha intorno.
CLAR. Orsù, signor conte, o che si cambi discorso, o che io me ne vado, e in casa mia non verrete più né l'uno né l'altro...
PANT. Gnanca mi? Cossa gh'oggio fatto?
CLAR. Non voglio che per causa mia fra di voi abbiate ad essere nemici. O pacificatevi, o non pratico più nessuno.
PANT. Per mi co sior conte no gh'ho inimicizia. Col me paga el mio contarelo, no voggio altro.
SILV. Per farvi vedere che dono tutto alla signora Clarice, mi scordo ogni cosa e in segno di buona amicizia venite qui; sediamo e facciamo un taglio alla bassetta.
PANT. A sta ora la vol zogar?
SILV. Per che cosa avete qui preparate le carte?
PANT. Perché se qualchedun se stufa, co i altri balla, el possa devertirse a zogar.
SILV. Fintanto che si uniscono i convitati, giochiamo.
PANT. Eh, che xe troppo a bonora.
SILV. Non ha coraggio il signor Pantalone, ha paura di perdere. Quei zecchini gli sono assai cari, ora che ne ha più pochi.
PANT. Mi no gh'ho suggizion de settanta o ottanta zecchini. Son capace de metterli tutti su un ponto.
SILV. Animo dunque, proviamoci.
CLAR. Eh no, lasciate...
PANT. Che el ghe ne metta fora altrettanti.
SILV. No, è troppo tutti in un colpo. Dieci zecchini alla volta. Ecco dieci zecchini. Mettete, come volete. (mescola le carte e fa il taglio)
PANT. Fante a diese zecchini.
SILV. Fante; ho vinto. (dopo aver fatto il giuoco)
PANT. Va fante a vinti zecchini.
SILV. Fante. Ho guadagnato venti zecchini. (come sopra)
PANT. Va sette a diese zecchini.
SILV. Sette. Voglio dieci zecchini. (come sopra)
PANT. Asso, al resto de tutti sti bezzi.
SILV. Ecco l'asso. Ho vinto. (come sopra)
PANT. Bravo. I ho persi tutti.
SILV. Volete altro?
PANT. Va cinque a vinti zecchini.
SILV. Danaro in tavola.
PANT. La taggia, son galantomo.
SILV. Sulla parola non giuoco. (si alza e ripone il danaro)
CLAR. Signor Pantalone, per farmi il vestito di broccato, vi vorrebbero altri venti zecchini.
PANT. La se li fazza dar da sior Silvio.
CLAR. Vergogna! Perdere il danaro così miseramente, e mancar di parola a una donna!
PANT. La doveva far de manco de menarme in casa sto sior.
SILV. I pari miei vi onorano, quando vengono dove voi siete.
PANT. Coss'è sti pari miei? Se sa chi sè, sior conte postizzo.
SILV. Se non avrete giudizio, vi taglierò la faccia.
PANT. A mi, sior conte cànola? sior baro da carte?
SILV. Come parli, temerario?
PANT. Sì, quei bezzi me li avè barai.
SILV. Eh, corpo di bacco! (mette mano alla spada)
PANT. Sta in drio. (mette mano ad un pugnale)
CLAR. Aiuto.
SCENA OTTAVA
Marcone e detti.
MARC. Che cos'è? Cos'è stato?
PANT. In casa mia se fa de ste azion?
CLAR. In questi imbarazzi io non ci voglio più essere. In casa mia non ci venite mai più. (a Pantalone, e parte)
SILV. Ci troveremo in altro luogo. (parte)
SCENA NONA
Pantalone e Marcone
PANT. A monte la festa. Feme un servizio, licenziè i sonadori, licenziè tutti. Fe serrar la porta del casin, e po vegnì qua, che discorreremo.
MARC. Si può sapere il perché?
PANT. Ve conterò tutto. Fe prima quel che v'ho dito.
MARC. I suonatori sono pagati?
PANT. No i xe pagai, ma i pagherò.
MARC. Non anderanno via senza esser pagati.
PANT. Feme el servizio, pagheli vu.
MARC. Io non ho danari.
PANT. Fe una cossa, vu come vu, mostrando che mi no sappia gnente. Diseghe che me xe vegnù mal, che sta sera no se balla altro, e se i vol esser pagai, tolè le candele delle lumiere, e pagheli con della cera.
MARC. Questa è una cosa che non va bene.
PANT. Mo via, no fe che me despiera più de quello che son.
MARC. Compatitemi, non lo farò mai. E poi cosa dirà quella giovane bolognese?
PANT. Se ghe dirè andemo a casa, la dirà gnor sì.
MARC. E la vostra riputazione?
PANT. Poveretto mi! la xe andada.
MARC. Il vostro credito?
PANT. No gh'è più remedio.
MARC. Sentite. Arrivano delle persone.
PANT. Che no i me veda, che no i me trova. Vago via, scampo via. Tolè le cere, tolè la cena, ve lasso tutto. No voggio altro, son desperà. (parte)
SCENA DECIMA
Marcone solo.
MARC. Oh che pazzo! È fallito una volta, e non si ravvede. Il cielo l'aiuta, e si mette a far peggio. Può riacquistare il credito, e vuol di nuovo precipitarsi. Questo è il solito di tali uomini sciagurati. Chi fallisce per una disgrazia, merita compassione e si può rimettere; ma chi fallisce per cagione dei vizi, è sempre lo stesso, e non merita né aiuto, né compatimento. (parte per la porta della sala)
SCENA UNDICESIMA
Camera in casa di Pantalone.
Aurelia e il Dottore
DOTT. Così è, signora Aurelia: i seimila ducati della sua dote sono depositati in un banco fruttifero al quattro per cento, e rendono all'anno dugento quaranta ducati. Di questo frutto ella sarà padrona fin ch'ella vive; ne potrà disporre da sé, farne disporre dal marito o da altri, come vuole, ma si contenterà partire da questa casa, ove né ella, né il signor Pantalone vi devono avere parte veruna.
AUR. Come? In casa mia chi comanda?
DOTT. Comanda il signor Leandro per le sue ragioni ereditarie dotali. Il rispetto ch'egli ha avuto sinora per il padre, lo ha indotto a lasciar ch'egli dominasse ad onta de' suoi disordini, sperandolo ravveduto; ma vedendo ch'egli si regola peggio che mai nel giorno istesso della sua risorsa, si è stabilito di dar moglie al signor Leandro, mandar in pace il signor Pantalone, acciò la mala vita del padre non rovini del tutto il povero innocente figliuolo.
AUR. E che cosa farà il povero mio marito? Anderà prigione? Anderà mendicando?
DOTT. Non signora. Il signor Leandro non è tanto inumano, e chi lo consiglia non ha sentimenti crudeli. Il signor Pantalone anderà ad abitare in villa per qualche tempo, e gli si passerà un tanto al mese da poter vivere, e il figlio si assumerà di pagar col tempo i creditori del padre.
AUR. Non ha egli fatta, come io pure, per consiglio vostro una procura al signor Pantalone?
DOTT. Il signor Leandro l'ha revocata.
AUR. Ed io non la potrò revocare?
DOTT. Potete farlo, quando vogliate.
AUR. Lo faccio subito. Non voglio ch'ei mi consumi i frutti della mia dote.
DOTT. Non gli darete niente, signora, per conto vostro?
AUR. Niente affatto. Che cosa sono dugento quaranta ducati all'anno? Se voglio vestirmi con un poco di proprietà... Appunto, ove sono i danari che mi avete promesso per riscuotere i miei vestiti?
DOTT. I disordini nuovi del signor Pantalone sono causa che non vi si mantiene il patto. Ma non temete, il signor Leandro col tempo vi contenterà.
SCENA DODICESIMA
Leandro e detti.
LEAN. Sì, signora Aurelia, ch'io venero come madre, se il cielo mi darà fortuna, spero che tutti saranno di me contenti. Voi avrete un assegnamento discreto, ma in caso di qualche estraordinario bisogno, non vi abbandonerò. Siete moglie di mio padre, e tanto basta perché io vi rispetti, e sia impegnato per l'onor vostro e per le vostre oneste soddisfazioni.
AUR. Caro signor Leandro, voi mi fate piangere per tenerezza. Rimetto tutto nel vostro bel cuore. Maritatevi, che il cielo vi benedica; io me ne anderò, dove voi mi destinerete ch'io vada.
LEAN. Siete padrona di restar qui. Ma è necessario che mio padre vada a ritirarsi in campagna, e sarebbe cosa ben fatta, e lodevole molto, che voi per qualche tempo soffriste di ritirarvi con lui.
AUR. Sì, lo farò volentieri. Piuttosto che scomparire in città, mi eleggo di buona voglia il ritiro della campagna.
DOTT. Gran cosa, che anche nell'atto di far un bene, si voglia perdere il merito per motivo dell'ambizione!
AUR. Si può sapere chi sia la moglie che avete scelto? (a Leandro)
LEAN. Ecco qui. La figlia del signor Dottore, l'amabile signora Vittoria, da cui riconoscerò mai sempre il mio bene, il mio stato, il mio onorevole risorgimento.
DOTT. Sì signora. Ventimila ducati di dote e la mia assistenza lo faranno risorgere quanto prima.
SCENA TREDICESIMA
Pantalone e detti.
PANT. Son qua, son qua anca mi.
LEAN. Ah! signor padre...
PANT. So tutto, fio mio, so tutto, e son contento de tutto. Sì, caro Dottor, el vostro zovene m'ha trovà, el m'ha informà de ogni cossa, e cognosso che el cielo v'ha mosso a pietà de nu, e che vu sè la colonna della nostra casa. Muggier, vardemose in viso, e vergognemose d'aver fatto a chi pol far pezo. Mi son contento de andar a star in campagna, e vu, se volè vegnir, vegnì; ma se vegnì, me fe un servizio, se no vegnì, me ne fe do. Me contenterò de quel poco che mio fio me darà. Caro fio, te domando perdon d'averte precipità; te prego, co ti pol, de pagar i debiti, e za che el cielo t'ha dà la grazia de no someggiar a to pare, consolete, ringrazielo de cuor, e fissete sempre più in tel cuor le massime bone da galantomo, e da omo da ben. Giera pentio, aveva stabilio de muar vita, de tender al sodo anca mi, ma i cattivi abiti, le occasion, e el comodo de poderlo far, m'ha un'altra volta tirà al precipizio. Xe ben che no gh'abbia più gnente da manizar. Ho gusto che abbiè revocà la procura, e merito de esser mortificà. Me consolo, fio mio, che ti te maridi e che te tocca una putta savia, discreta e amorosa. Muggier, compatime, xe ben che vegnì via con mi, perché da vu no so cossa che la poderave imparar. Soffrì che parla liberamente de vu, se parlo in te l'istessa maniera de mi. Semo stai do matti, un più bello dell'altro. Xe tempo de far giudizio. Mi son vecchio, e vu no sè più una putella. Andemo in campagna, retiremose dalle pompe, dalle mode, dai devertimenti. Lassemo far a chi sa, lassemo goder chi merita, e confessemo d'accordo tutti do, che el nostro poco giudizio xe quello che n'ha tratto in rovina, e che m'ha fatto falir.
AUR. Caro marito, non so chi peggio di noi...
LEAN. Non parliamo altro di cose triste. Vi supplico, signor padre...
PANT. No me fe serrar el cuor più de quello che el xe. Dottor, avanti de andar in campagna, vorave aver el contento de abrazzar mia niora.
DOTT. Volentieri. Se il signor Leandro si contenta...
LEAN. Anzi mi farete il maggior piacere di questo mondo. Già le case nostre sono vicine, può venire come si trova.
DOTT. Vado subito e la conduco da voi. (parte)
SCENA QUATTORDICESIMA
Aurelia, Leandro e Pantalone
PANT. Leandro, te voggio dar un avvertimento. Manda via subito quel furbazzo de Truffaldin, perché el xe un baron, che gh'ha tutti i vizi del mondo.
LEAN. Non mi ha dato tempo di licenziarlo. Si è licenziato da sé; è partito che non saranno due ore, colla barca di Padova.
PANT. L'ha previsto el colpo. Varda se el giera un poco de bon; fina le chiave false de bottega el gh'aveva. Tiò, e conservele per memoria. El favro che le ha fatte, el dise che a Napoli el xe stà piccà: un zorno o l'altro ghe succederà l'istesso anca a elo.
LEAN. Convien dire però che Truffaldino non sia dell'ultima scelleratezza, mentre con tutte le chiavi false non ha rubato che picciolissime cose.
PANT. Tanto per mantegnir i so vizi.
SCENA QUINDICESIMA
Brighella e detti.
BRIGH. Padroni riveriti.
LEAN. Che c'è? Che cosa volete?
BRIGH. Vegno a dire che i pol despenar dai libri le partite del mio padron.
LEAN. Perché?
BRIGH. Perché in sto ponto l'è stà chiappà dai sbirri, e l'è stà messo in preson.
PANT. Gerelo con una donna?
BRIGH. Sì signor, con siora Clarice. E anca ela l'è stada messa in una corriera e mandada via.
LEAN. Per che cosa lo hanno carcerato?
BRIGH. No ghe so dir, ma credo che ghe sia del sporco. Prima de tutto nol giera né conte, né lustrissimo, né signor: e po l'ha fatto tante porcarie, tante prepotenze...
SCENA SEDICESIMA
Il Dottore, Vittoria, Smeraldina ed i suddetti.
DOTT. Ecco qui mia figliuola.
PANT. Cara niora, lassè che ve abrazza...
VITT. Signore, questo titolo non l'ho ancor meritato.
PANT. Mo perché?
VITT. Perché ancora non sono moglie di vostro figlio.
PANT. Cossa fastu che no ti la sposi? Via, Leandro, avanti che me slontana da ti, dame sta consolazion.
LEAN. Se il signor Dottore si contenta...
DOTT. Una volta si deve fare: fatelo ora, se ciò v'aggrada.
LEAN. Che ne dite, Vittoria?
VITT. Per me son pronta.
LEAN. Ecco la mano.
VITT. Eccovi colla mia la mia fede.
PANT. Son contento, vago via contento. Tiò, fio mio, un baso, e a vu, niora, un abrazzamento de cuor. Voggieghe ben a mio fio, che el lo merita. No vardè che el sia nato da un cattivo pare, perché quanto mi son stà cattivo, altrettanto Leandro xe bon; el xe bon, de bon fondo, de bon cuor, e per questo el cielo lo agiuta; e mi, che meritava de esser fulminà, per i so meriti son ancora in piè, e prego el cielo che me daga tanto de vita da scontar i desordeni della mia mala condotta, e dei cattivi esempi che fin adesso gh'ho dà.
VITT. Signore, le vostre parole fanno conoscere che siete alfin ragionevole, e insegnate assai più col vostro pentimento, di quello che abbiate fatto colla vostra vita passata; poiché l'errore è comune agli uomini, e il ravvedersi è privilegio di pochi.
PANT. Mo che parlar! Mo che pensar da putta de garbo! Cossa diseu, muggier? Ah? no i xe miga discorsi de scuffie e de merli de Fiandra.
AUR. Non mi mortificate d'avvantaggio. Ammiro la virtù della signora Vittoria, e s'ella mi permette, l'abbraccierò come figlia.
VITT. Ed io con figliale rispetto vi bacio umilmente la mano.
SMER. Signori, già che Truffaldino è partito, e non spero di vederlo più, voglio sgravarmi di un peso che ho sullo stomaco. Egli mi ha portato in più volte il valore di circa duecento ducati, ma tutto è nella mia cassa, a vostra disposizione.
PANT. Vedeu l'effetto della chiave falsa? (a Leandro)
DOTT. Così eh, si tien mano? (a Smeraldina)
VITT. Povera ragazza! credeva che fossero cose sue di Truffaldino; le dava ad intendere che le portava del suo.
SMER. Così è, in coscienza mia.
LEAN. Vedo che la signora Vittoria ha compassione di Smeraldina; se le capitasse occasione di maritarsi, le si potrebbe donare quanto ella dice avere del nostro.
SMER. Oh, che siate mille volte benedetto! Con queste buone massime il cielo non vi abbandonerà.
BRIGH. Se Smeraldina volesse, el partido no saria lontan. Se cognossemo che è qualche tempo.
SMER. Sì, caro Brighella, se mi volete, non dico di no.
VITT. Via, Smeraldina, fa ancor tu quello che ha fatto la tua padrona.
SMER. Brighella, dammi la mano.
BRIGH. Son qua: tiò la man, e andemo a far la revista della dota.
DOTT. Ma in casa nostra Smeraldina non ci sta più.
VITT. Vedi, Smeraldina, il bel concetto che ti sei fatta? Per l'avvenire vivi con maggior cautela, dove puoi temere di qualche frode: che se questa volta ti è andata bene, non ti riuscirà sempre con egual felicità.
SMER. Oh signora, non vi è pericolo che prenda mai più cosa alcuna da chi si sia.
PANT. Saldi ai propositi, che no i rompemo. Ghe n'ho fatto anca mi, e pur troppo, con mio dolor e con mia vergogna, appena fatti ho mancà. Questo vien dal modo de farli, o dalla causa che li fa far. Co se dise vôi far del ben, in tempo che no se pol far del mal, se fa presto a tornar a far mal, co no se xe più in necessità de far ben. Un marcante che ha falio per poco giudizio, fina che el xe in desgrazia, el pensa a remetterse; co l'è remesso, el cerca la strada de tornar a falir. Cossa vuol dir sto desordene? Vuol dir che i omeni no cognosse el ben, se no quando che i se trova in miseria; e che per umiliar i superbi xe necessario che la providenza del ciel li avvilissa, li confonda, e che succeda, a chi no gh'ha cervello, quel che me xe successo anca a mi.
Fine della Commedia.
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