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lunedì 5 dicembre 2011

Il Conte di Carmagnola di Alessandro Manzoni


PERSONAGGI STORICI

Il Conte di Carmagnola.
Antonietta Visconti, sua moglie.
Una loro Figlia, a cui nella tragedia si è attribuito il nome di Matilde.
Francesco Foscari, Doge di Venezia.

Condottieri al soldo dei Veneziani:
Giovanni Francesco Gonzaga,
Paolo Francesco Orsini,
Nicolò Da Tolentino,

Condottieri al soldo del Duca di Milano:
Carlo Malatesti,
Angelo Della Pergola,
Guido Torello,
Nicolò Piccinino, a cui nella tragedia si è attribuito il cognome di Fortebraccio,
Francesco Sforza,
Pergola Figlio.

PERSONAGGI IDEALI


MARCO, Senatore Veneziano.
MARINO, uno de’ Capi del Consiglio dei Dieci.
PRIMO COMMISSARIO veneto nel campo.
SECONDO COMMISSARIO.
UN SOLDATO Del CONTE.
UN SOLDATO prigioniero.

senatori, condottieri, soldati, prigionieri, guardie



ATTO PRIMO


SCENA I

Sala del Senato, in Venezia.

IL DOGE e SENATORI seduti.


IL DOGE

È giunto il fin de’ lunghi dubbi, è giunto,
nobiluomini, il dì che statuito
fu a risolver da voi. Su questa lega,
a cui Firenze con sì caldi preghi
incontro il Duca di Milan c’invita,                               5
oggi il partito si porrà. Ma pria,
se alcuno è qui cui non sia noto ancora
che vile opra di tenebre e di sangue
sugli occhi nostri fu tentata, in questa
stessa Venezia, inviolato asilo       10
di giustizia e di pace, odami: al nostro
deliberar rileva assai che’ alcuno
qui non l’ignori. Un fuoruscito al Conte
di Carmagnola insidiò la vita;
fallito è il colpo, e l’assassino è in ceppi.  15
Mandato egli era; e quei che a ciò mandollo
ei l’ha nomato, ed è... quel Duca istesso
di cui qui abbiam gli ambasciatori ancora
a chieder pace, a cui più nulla preme
che la nostra amistà. Tale arra intanto       20
ei ci dà della sua. Taccio la vile
perfidia della trama, e l’onta aperta
che in un nostro soldato a noi vien fatta.
Due sole cose avverto: egli odia dunque
veracemente il Conte; ella è fra loro         25
chiusa ogni via di pace; il sangue ha stretto
tra lor d’eterna inimicizia un patto.
L’odia... e lo teme: ei sa che il può dal trono
quella mano sbalzar che in trono il pose;
e disperando che più a lungo in questa     30
inonorata, improvida, tradita
pace restar noi consentiamo, ei sente
che sia per noi quest’uom; questo tra i primi
guerrier d’Italia il primo, e, ciò che meno
forse non è, delle sue forze istrutto          35
come dell’arti sue; questo che il lato
saprà tosto trovargli ove più certa,
e più mortal sia la ferita. Ei volle
spezzar quest’arme in nostra mano; e noi
adoperiamla, e tosto. Onde possiamo       40
un più fedele e saggio avviso in questo,
che dal Conte aspettarci? Io l’invitai;
piacevi udirlo?
(segni di adesione)
S’introduca il Conte.


SCENA II

IL CONTE, e detti.


IL DOGE

Conte di Carmagnola, oggi la prima
occasion s’affaccia in che di voi   45
si valga la Repubblica, e vi mostri
in che conto vi tiene: in grave affare
grave consiglio ci abbisogna. Intanto
tutto per bocca mia questo Senato
si rallegra con voi da sì nefando   50
periglio uscito; e protestiam che a noi
fatta è l’offesa, e che sul vostro capo
or più che mai fia steso il nostro scudo,
scudo di vigilanza e di vendetta.

IL CONTE

Serenissimo Doge, ancor null’altro           55
io per questa ospital terra, che ardisco
nomar mia patria, potei far che voti.
Oh! mi sia dato alfin questa mia vita,
pur or sottratta al macchinar de’ vili,
questa che nulla or fa che giorno a giorno            60
aggiungere in silenzio, e che guardarsi
tristamente, tirarla in luce ancora,
e spenderla per voi, ma di tal modo,
che dir si possa un dì, che in loco indegno
vostr’alta cortesia posta non era.   65

IL DOGE

Certo gran cose, ove il bisogno il chieda,
ci promettiam da voi. Per or ci giovi
soltanto il vostro senno. In suo soccorso
contro il Visconte l’armi nostre implora
già da lungo Firenze. Il vostro avviso       70
nella bilancia che teniam librata
non farà piccol peso.

IL CONTE

E senno e braccio
e quanto io sono è cosa vostra: e certo
se mai fu caso in cui sperar m’attenti
che a voi pur giovi un mio consiglio, è questo.     75
E lo darò: ma pria mi sia concesso
di me parlarvi in breve, e un core aprirvi,
un cor che agogna sol d’esser ben noto.

IL DOGE

Dite: a questa adunanza indifferente
cosa che a cor vi stia giunger non puote.  80

IL CONTE

Serenissimo Doge, Senatori;
io sono al punto in cui non posso a voi
esser grato e fedel, s’io non divengo
nemico all’uom che mio signor fu un tempo.
S’io credessi che ad esso il più sottile       85
vincolo di dover mi leghi ancora,
l’ombra onorata delle vostre insegne
fuggir vorrei, viver nell’ozio oscuro
vorrei, prima che romperlo, e me stesso
far vile agli occhi miei. Dubbio veruno     90
sul partito che presi in cor non sento,
perch’egli è giusto ed onorato: il solo
timor mi pesa del giudizio altrui.
Oh! beato colui cui la fortuna
così distinte in suo cammin presenta        95
le vie del biasmo e dell’onor, ch’ei puote
correr certo del plauso, e non dar mai
passo ove trovi a malignar l’intento
sguardo del suo nemico. Un altro campo
correr degg’io, dove in periglio sono        100
di riportar, forza è pur dirlo, il brutto
nome d’ingrato, l’insoffribil nome
di traditor. So che de’ grandi è l’uso
valersi d’opra ch’essi stiman rea,
e profondere a quel che l’ha compita        105
premi e disprezzo, il so; ma io non sono
nato a questo; e il maggior, premio che bramo,
il solo, egli è la vostra stima, e quella
d’ogni cortese; e, arditamente il dico,
sento di meritarla. Attesto il vostro          110
sapiente giudizio, o Senatori,
che d’ogni obbligo sciolto inverso il Duca
mi tengo, e il sono. Se volesse alcuno
de’ benefizi che tra noi son corsi
pareggiar le ragioni, è noto al mondo       115
qual rimarrebbe il debitor dei due.
Ma di ciò nulla: io fui fedele al Duca
fin che fui seco, e nol lasciai che quando
ei mi v’astrinse. Ei mi balzò dal grado
col mio sangue acquistato: invan tentai    120
al mio signor lagnarmi. I miei nemici
fatto avean siepe intorno al trono: allora
m’accorsi alfin che la mia vita anch’essa
stava in periglio: a ciò non gli diei tempo.
Ché la mia vita io voglio dar, ma in campo,         125
per nobil causa, e con onor, non preso
nella rete de’ vili. Io lo lasciai,
e a voi chiesi un asilo; e in questo ancora
ei mi tese un agguato. Ora a costui
più nulla io deggio; di nemico aperto       130
nemico aperto io sono. All’util vostro
io servirò, ma franco e in mio proposto
deliberato, come quei ch’è certo
che giusta cosa imprende.

IL DOGE

E tal vi tiene
questo Senato: già tra il Duca e voi          135
ha giudicato irrevocabilmente
Italia tutta. Egli la vostra fede
ha liberata, a voi l’ha resa intatta,
qual gliela deste il primo giorno. È nostra
or questa fede; e noi saprem tenerne        140
ben altro conto. Or d’essa un primo pegno
il vostro schietto consigliar ci sia.

IL CONTE

Lieto son io che un tal consiglio io possa
darvi senza esitanza. Io tengo al tutto
necessaria la guerra, e della guerra,           145
se oltre il presente è mai concesso all’uomo
cosa certa veder, certo l’evento;
tanto più, quanto fien l’indugi meno.
A che partito è il Duca? A mezzo è vinta
da lui Firenze; ma ferito e stanco  150
il vincitor; voti gli erari: oppressi
dal terror, dai tributi i cittadini
pregan dal ciel su l’armi loro istesse
le sconfitte e le fughe. Io li conosco,
e conoscer li deggio: a molti in mente      155
dura il pensier del glorioso, antico
viver civile; e subito uno sguardo
rivolgon di desio là dove appena
d’un qualunque avvenir si mostri un raggio,
frementi del presente e vergognosi.          160
Ei conosce il periglio; indi l’udite
mansueto parlarvi; indi vi chiede
tempo soltanto de sbranar la preda
che già tiensi tra l’ugne, e divorarla.
Fingiam che glielo diate: ecco mutata      165
la faccia delle cose; egli soggioga
senza dubbio Firenze; ecco satolle
le costui schiere col tesor de’ vinti,
e più folte e anelanti a nove imprese.
Qual prence allor dell’alleanza sua           170
far rifiuto oseria? Beato il primo
ch’ei chiamerebbe amico! Egli sicuro
consulterebbe e come e quando a voi
mover la guerra, a voi rimasti soli.
L’ira, che addoppia l’ardimento al prode 175
che si sente percosso, ei non la trova
che ne’ prosperi casi: impaziente
d’ogni dimora ove il guadagno è certo,
ma ne’ perigli irresoluto: a’ suoi
soldati ascoso, del pugnar non vuole        180
fuor che le prede. Ei nella rocca intanto,
o nelle ville rintanato attende
a novellar di cacce e di banchetti,
a interrogar tremando un indovino.
Ora è il tempo di vincerlo: cogliete           185
questo momento: ardir prudenza or fia.

IL DOGE
Conte, su questo fedel vostro avviso
tosto il Senato prenderà partito;
ma il segua, o no, v’è grato; e vede in esso,
non men che il senno, il vostro amor per noi.       190
(parte il Conte)


SCENA III

IL DOGE, e SENATORI


IL DOGE

Dissimil certo da sì nobil voto
nessun s’aspetta il mio. Quando il consiglio
più generoso è il più sicuro, in forse
chi potria rimaner? Porgiam la mano
al fratello che implora: un sacro nodo                          195
stringe i liberi Stati: hanno comuni
tra lor rischi e speranze; e treman tutti
dai fondamenti al rovinar d’un solo.
Provocator dei deboli, nemico
d’ognun che schiavo non gli sia, la pace                      200
con tanta istanza a che ci chiede il Duca?
Perché il momento della guerra ei vuole
sceglierlo, ei solo; e non è questo il suo.
Il nostro egli è, se non ci falla il senno,
né l’animo. Ei ci vuole ad uno ad uno;                         205
andiamgli incontro uniti. Ah! saria questa
la prima volta che il Leon giacesse
al suon delle lusinghe addormentato.
No; fia tentato invan. Pongo il partito
che si stringa la lega, e che la guerra                            210
tosto al Duca s’intimi, e delle nostre
genti da terra abbia il comando il Conte.

MARINO


Contro sì giusta e necessaria guerra
io non sorgo a parlar; questo sol chiedo,
che il buon successo ad accertar si pensi.                     215
La metà dell’impresa è nella scelta
del capitano. Io so che vanta il Conte
molti amici tra noi; ma d’una cosa
mi rendo certo, che nessun di questi
l’ama più della patria; e per me, quando                      220
di lei si tratti, ogni rispetto è nulla.
Io dico, e duolmi che di fronte io deggia,
serenissimo Doge, oppormi a voi,
non è il duce costui quale il richiede
la gravità, l’onor di questo Stato.                                 225
Non cercherò perché lasciasse il Duca.
Ei fu l’offeso; e sia pur ver: l’offesa
è tal che accordo non può darsi; e questo
consento: io giuro nelle sue parole.
Ma queste sue parole importa assai                              230
considerarle, perché tutto in esse
ei s’è dipinto; e governar sì ombroso,
sì delicato e violento orgoglio,
o Senatori, non mi par che sia
minor pensier della guerra istessa.                                235
Finor fu nostra cura il mantenerci
la riverenza de’ soggetti; or altro
studio far si dovria, come costui
riverir degnamente. E quando egli abbia
la man nell’elsa della nostra spada,                              240
potrem noi dir d’aver creato un servo?
Dovrà por cura di piacergli ognuno
di noi? Se nasce un disparer, fia degno
che nell’arti di guerra il voler nostro
a quel d’un tanto condottier prevalga?                        245
S’egli erra, e nostra è dell’error la pena,
ché invincibil nol credo, io vi domando
se fia concesso il farne lagno; e dove
si riscotan per questo onte e dispregi,
che far? soffrirli? Non v’aggrada, io stimo,                 250
questo partito; risentirci? e dargli
occasion che, in mezzo all’opra, e nelle
più difficili strette ei ci abbandoni
sdegnato, e al primo altro signor che il voglia,
forse al nemico, offra il suo braccio, e sveli                 255
quanto di noi pur sa, magnificando
la nostra sconoscenza, e i suoi gran merti?

IL DOGE

Il Conte un prence abbandonò; ma quale?
un che da lui tenea lo Stato, e a cui
quindi ei minor non potea mai stimarsi;                       260
un da pochi aggirato, e questi vili;
timido e stolto, che non seppe almeno
il buon consiglio tor della paura,
nasconderla nel core, e starsi all’erta;
ma che il colpo accennò pria di scagliarlo:                   265
tale è il signor che inimicossi il Conte.
Ma, lode al ciel, nulla in Venezia io vedo
che gli somigli. Se destrier, correndo,
scosse una volta un furibondo e stolto
fuor dell’arcione, e lo gettò nel fango;                         270
non fia per questo che salirlo ancora
un cauto e franco cavalier non voglia.

MARINO

Poiché sì certo è di quest’uomo il Doge,
più non m’oppongo; e questo a lui sol chiedo:
vuolsi egli far mallevador del Conte?                          275

IL DOGE

A sì preciso interrogar, preciso
risponderò: mallevador pel Conte,
né per altr’uom che sia, certo, io non entro;
dell’opre mie, de’ miei consigli il sono:
quando sien fidi, ei basta. Ho io proposto                   280
che guardia al Conte non si faccia, e a lui
si dia l’arbitrio dello Stato in mano?
Ei diritto, anderà; tale io diviso.
Ma s’ei si volge al rio sentier, ci manca
occhio che tosto ce ne faccia accorti,                           285
e braccio che invisibile il raggiunga?

MARCO

Perché i princìpi di sì bella impresa
contristar con sospetti? E far disegni
di terrori e di pene, ove null’altro
che lodi e grazie può aver luogo? Io taccio                  290
che all’util suo sola una via gli è schiusa;
lo star con noi. Ma deggio dir qual cosa
dee sovra ogni altra far per lui fidanza?
La gloria ond’egli è già coperto, e quella
a cui pur anco aspira; il generoso,                                 295
il fiero animo suo. Che un giorno ei voglia
dall’altezza calar de’ suoi pensieri,
e riporsi tra i vili, esser non puote.
Or, se prudenza il vuol, vegli pur l’occhio;
ma dorma il cor nella fiducia; e poi                              300
che in così giusta e grave causa, un tanto
dono ci manda Iddio; con quella fronte,
e con quel cor che si riceve un dono,
sia da noi ricevuto.

MOLTI SENATORI

Ai voti, ai voti!


IL DOGE

Si raccolgano i voti; e ognun rammenti                        305
quanto rilevi che di qui non esca
motto di tal deliberar, né cenno
che presumer lo faccia. In questo Stato
pochi il segreto hanno tradito, e nullo
fu tra quei pochi che impunito andasse.                       310


SCENA IV

Casa del Conte.


IL CONTE

Profugo, o condottiero. O come il vecchio
guerrier nell’ozio i giorni trar, vivendo
della gloria passata, in atto sempre
di render grazie e di pregar, protetto
dal braccio altrui, che un dì potria stancarsi                 315
e abbandonarmi; o ritornar sul campo,
sentir la vita, salutar di nuovo
la mia fortuna, delle trombe al suono
destarmi, comandar; questo è il momento
che ne decide. Eh! se Venezia in pace                         320
riman, degg’io chiuso e celato ancora
in questo asilo rimaner, siccome
l’omicida nel tempio? E chi d’un regno
fece il destin, non potrà farsi il suo?
Non troverò tra tanti prenci, in questa                         325
divisa Italia, un sol che la corona,
onde il vil capo di Filippo splende,
ardisca invidiar? che si ricordi
ch’io l’acquistai, che dalle man di dieci
tiranni io la strappai, ch’io la riposi                              330
su quella fronte, ed or null’altro agogno
che ritorla all’ingrato, e farne un dono
a chi saprà del braccio mio valersi?


SCENA V

MARCO, e IL CONTE


IL CONTE

O dolce amico; ebben qual nova arrechi?

MARCO

La guerra è risoluta, e tu sei duce.                                335

IL CONTE

Marco, ad impresa io non m’ accinsi mai
con maggior cor che a questa: una gran fede
poneste in me: ne sarò degno, il giuro.
Il giorno è questo che del viver mio
ferma il destin: poi che quest’alma terra                      340
m’ha nel suo glorioso antico grembo
accolto, e dato di suo figlio il nome,
esserlo io vo’ per sempre; e questo brando
io consacro per sempre alla difesa
e alla grandezza sua.

MARCO

Dolce disegno!                          345
non soffra il ciel che la fortuna il rompa...
o tu medesmo.

IL CONTE

Io? come?

MARCO

Al par di tutti
i generosi, che giovando altrui
nocquer sempre a sé stessi, e superate
tutte le vie delle più dure imprese,                               350
caddero a un passo poi, che facilmente
l’ultimo de’ mortali avria varcato.
Credi ad un uom che t’ama: i più de’ nostri
ti sono amici; ma non tutti il sono.
Di più non dico, né mi lice; e forse                              355
troppo già dissi. Ma la mia parola
nel fido orecchio dell’amico stia,
come nel tempio del mio cor, rinchiusa.

IL CONTE

Forse io l’ignoro? E forse ad uno ad uno
non so quai siano i miei nemici?

MARCO

E sai                          360
chi te gli ha fatti? In pria l’esser tu tanto
maggior di loro, indi lo sprezzo aperto
che tu ne festi in ogni incontro. Alcuno
non ti nocque finor; ma chi non puote
nocer col tempo? Tu non pensi ad essi,                        365
se non allor che in tuo cammin li trovi;
ma pensan essi a te, più che non credi.
Spregia il grande, ed obblia; ma il vil si gode
nell’odio. Or tu non irritarlo: cerca
di spegnerlo; tu il puoi forse. Consiglio                       370
di vili arti ch’io stesso a sdegno avrei,
io non ti do, né tal da me l’aspetti.
Ma tra la noncuranza e la servile
cautela avvi una via; v’ha una prudenza
anche pei cor più nobili e più schivi;                            375
v’ha un’arte d’acquistar l’alme volgari,
senza discender fino ad esse: e questa
nel senno tuo, quando tu vuoi, la trovi.

IL CONTE

Troppo è il tuo dir verace: il tuo consiglio
le mille volte a me medesmo io il diedi;                       380
e sempre all’uopo ei mi fuggì di mente;
e sempre appresi a danno mio che dove
semina l’ira, il pentimento miete.
Dura scola ed inutile! Alfin stanco
di far leggi a me stesso, e trasgredirle,                         385
tra me fermai che, s’egli è mio destino
ch’io sia sempre in tai nodi avviluppato
che mestier faccia a distrigarli appunto
quella virtù che più mi manca, s’ella
è pur virtù; se è mio destin che un giorno                    390
io sia colto in tai nodi, e vi perisca;
meglio è senza riguardi andargli incontro.
Io ne appello a te stesso: i buoni mai
non fur senza nemici, e tu ne hai dunque.
E giurerei che un sol non è tra loro                               395
cui tu degni, non dico accarezzarlo,
ma non dargli a veder che lo dispregi.
Rispondi.

MARCO

È ver: se v’ha mortal di cui
la sorte invidii, è sol colui che nacque
in luoghi e in tempi ov’uom potesse aperto                  400
mostrar l’animo in fronte, e a quelle prove
solo trovarsi ove più forza è d’uopo
che accorgimento: quindi, ove convenga
simular, non ti faccia maraviglia
che poco esperto io sia. Pensa per altro                        405
quanto più m’è concesso impunemente
fallire in ciò che a te; che poche vie
al pugnal d’un nemico offre il mio petto;
che me contra i privati odii assecura
la pubblica ragion; ch’io vesto il saio                           410
stesso di quei che han la mia sorte in mano.
Ma tu stranier, tu condottiero al soldo
di togati signor, tu cui lo Stato
dà tante spade per salvarlo, e niuna
per salvar te... fa che gli amici tuoi                               415
odan sol le tue lodi; e non dar loro
la trista cura di scolparti. Pensa
che felici non son, se tu nol sei.
Che dirò più? Vuoi che una corda io tocchi,
che ancor più addentro nel tuo cor risoni?                   420
Pensa alla moglie tua, pensa alla figlia
a cui tu se’ sola speranza: il cielo
dié loro un’alma per sentir la gioia,
un’alma che sospira i dì sereni,
ma che nulla può far per conquistarli.                          425
Tu il puoi per esse; e lo vorrai. Non dire
che il tuo destin ti porta; allor che il forte
ha detto: io voglio, ei sente esser più assai
signor di sé che non pensava in prima.

IL CONTE


Tu hai ragione. Il ciel si prende al certo                       430
qualche cura di me, poiché m’ha dato
un tale amico. Ascolta; il buon successo
potrà, spero, placar chi mi disama:
tutto in letizia finirà. Tu intanto
se cosa odi di me che ti dispiaccia,                              435
l’indole mia ne incolpa, un improvviso
impeto primo, ma non mai l’obblio
di tue parole.

MARCO


Or la mia gioia è intera.
Va, vinci, e torna. Oh come atteso e caro
verrà quel messo che la gloria tua                                 440
con la salute della patria annunzi!




FINE DELL’ATTO PRIMO




ATTO SECONDO


SCENA I

Parte, del campo ducale con tende.

MALATESTI e PERGOLA


PERGOLA

Sì, condottier; come ordinaste, in pronto
son le mie bande. A voi commise il Duca
l’arbitrio della guerra: io v’ho ubbidito,
ma con dolor; ve ne scongiuro ancora,
non diam battaglia.

MALATESTI

Anzian d’anni e di fama,            5
o Pergola, qui siete; io sento il peso
del vostro voto; ma cangiar non posso
il mio. Voi lo vedete; il Carmagnola
ci provoca ogni dì: quasi ad insulto
sugli occhi nostri alfin Maclodio ha stretto:                 10
e due partiti ci rimangon soli;
o lui cacciarne, o abbandonar la terra,
che saria danno e scorno.

PERGOLA

A pochi è dato,
a pochi egregi il dubitar di novo,
quando han già detto: ell’è così. S’io parlo                  15
è che tale vi tengo. Italia forse
mai da’ barbari in poi non vide a fronte
due sì possenti eserciti: ma il nostro
l’ultimo sforzo è di Filippo. In ogni
fatto di guerra entra fortuna, e sempre                         20
vuol la sua parte: chi nol sa? Ma quando
ne va il tutto, o Signore, allor non vuolsi
dargliene più ch’ella non chiede; e questo
esercito con cui tutto possiamo
salvar, ma che perduto in una volta                              25
mai più rifar non si potria, non dèssi
come un dado gittarlo ad occhi chiusi,
avventurarlo in un sì piccol campo,
e in un campo mal noto, e quel che è peggio
noto al nemico. Ei qui ci trasse: un torto                      30
argin divide le due schiere: a destra
e a sinistra paludi, in esse sparsi
i suoi drappelli; e noi fuori de’ nostri
alloggiamenti non teniamo un palmo
pur di terren. Credete ad un che l’arti                          35
conosce di costui, che ha combattuto
al fianco suo: qui c’è un’insidia. Forse
la miglior via di guerreggiar quest’uomo
saria tenerlo a bada, aspettar tempo,
tanto che alcun dei duci ai quali è sopra                      40
prendesse a noia il suo superbo impero;
e il fascio ch’egli or nella mano ha stretto
si rallentasse alfin. Pur, se a giornata
venir si deve, non è questo il loco:
usciam di qui, scegliamo un campo noi,                       45
tiriam quivi il nemico: ivi in un giorno,
senza svantaggio almanco, si decida.

MALATESTI

Due grandi schiere a fronte stanno; e grande
fia la battaglia: d’una tale appunto
abbisogna Filippo. A questi estremi                             50
a poco a poco ei venne, e coi consigli
che or proponete: a trarnelo, fia d’uopo
appigliarci agli opposti. Il rischio vero
sta nell’indugio; e nel mutare il campo
rovina certa. Chi sapria dir quanto                               55
di numero e di cor scemato ei fia,
pria che si ponga altrove? Ora egli è quale
bramar lo puote un capitan; con esso
tutto lice tentar.


SCENA II

SFORZA, FORTEBRACCIO, e detti.


MALATESTI

Ditelo, o Sforza,
e Fortebraccio; voi giungete in tempo:                         60
ditelo voi, come trovaste il campo?
Che possiamo sperarne?

SFORZA

Ogni gran cosa.
Quando gli ordini udir, quando lor parve
che una battaglia si prepari, io vidi
un feroce tripudio: alla chiamata                                  65
esultando venièno, e col sorriso
si fean cenno a vicenda. E quando io corsi
entro le file, ad ogni schiera un grido
s’alzava; ognuno in me fissando il guardo
parea dicesse: o condottier, v’intendo.                        70

FORTEBRACCIO

E tai son tutti: allor ch’io venni a’ miei,
tutti mi furo intorno. Un mi dicea:
quando udremo le trombe? Altri: noi siamo
stanchi d’esser beffati; e tutti ad una
la battaglia chiedean, come già certi                            75
dell’ottenerla, e dubbi sol del quando.
Ebben, compagni, io rispondea, se il segno
presto s’udrà, mi date voi parola
di vincere con me? Gli elmi levati
sull’aste, un grido universal d’assenso                         80
fu la risposta, ond’io gioisco ancora.
E a tai soldati ci venia proposto
d’intimar la ritratta? e che alle mani,
che già posate sulle spade aspettano
l’ordin di sguainarle e di ferire,                                    85
si comandasse di levar le tende?
Chi fronte avria di presentarsi ad essi
con tal ordine ormai?

PERGOLA

Dal parlar vostro
un novo modo di milizia imparo;
che i soldati comandino, e che i duci                           90
ubbidiscano.

FORTEBRACCIO

O Pergola, i soldati
a cui capo son io, fur da quel Braccio
disciplinati, che per tutto ancora
con maraviglia e con terror si noma;
e non son usi a sostener gli scherni                               95
dell’inimico.

PERGOLA

Ed io conduco genti
da me, qual ch’io mi sia, disciplinate;
e sono avvezze ad aspettar la voce
del condottiero, ed a fidarsi in lui.

MALATESTI

Dimentichiamo or noi che numerati                             100
sono i momenti, e non ne resta alcuno
per le gare private?


SCENA III

TORELLO, e detti.


SFORZA

Ebben, Torello,
siete mutato di parer? Vedeste
l’animo ardente de’ soldati?

TORELLO

Il vidi;
udii le grida del furor, le grida                                     105
della fiducia e del coraggio; e il viso
rivolsi altrove, onde nessun dei prodi
vi leggesse il pensier che mal mio grado
vi si pingeva: era il pensier che false
son quelle gioie e brevi; era il pensiero                         110
del valor che si perde. Io cavalcai
lungo tutta la fronte: io tesi il guardo,
quanto lunge potei; rividi quelle
macchie che sorgon qua e là dal suolo
uliginoso che la via fiancheggia:                                  115
là son gli agguati, il giurerei. Rividi
quel doppio cinto di muniti carri,
onde assiepato è del nemico il campo.
Se l’urto primo ei sostener non puote,
ha una ritratta ove sfuggirlo e uscirne                          120
preparato al secondo. Un novo è questo
trovato di costui, per torre ai suoi
il pensier primo che s’affaccia ai vinti,
il pensier della fuga. Ad atterrarlo
due colpi è d’uopo: ei con un sol ne atterra.                125
Perché, non giova chiuder gli occhi al vero,
non son più quelle guerre, in cui pe’ figli
e per le donne e per la patria terra
e per le leggi che la fan sì cara,
combatteva il soldato; in cui pensava                           130
il capitano a statuirgli un posto,
egli a morirvi. A mercenarie genti
noi comandiamo, in cui più di leggieri
trovi il furor che la costanza: e’ corrono
volonterosi alla vittoria incontro;                                 135
ma s’ella tarda, se son posti a lungo
tra la fuga e la morte, ah! dubbia è troppo
la scelta di costoro. E questo evento
più che tutt’altro antiveder ci è forza.
Vil tempo in cui tanto al comando cresce                    140
difficoltà, quanto la gloria scema!
Io lo ripeto, non è questo un campo
di battaglia per noi.

MALATESTI

Dunque?

TORELLO

Si muti.
Non siam pari al nemico; andiamo in luogo
dove lo siam.

MALATESTI

Così Maclodio a lui                              145
lascerem quasi in dono? I valorosi,
che vi son chiusi, non potran tenersi
più che due giorni.

TORELLO

Il so; ma non si tratta
né d’un presidio qui, né d’una terra;
trattasi dello Stato.

SFORZA

E di che mai                                150
se non di terre si compon lo Stato?
E quelle che indugiando, ad una ad una
già lasciammo sfuggir, quante son elle?
Casal, Bina, Quinzano e... e se vi piace
noveratele voi, ché in tal pensiero                                155
troppo caldo io mi sento. Il nobil manto,
che a noi fidato ha il Duca, a brano a brano
soffriam così che in nostra man si scemi,
e che a lui messo omai da noi non giunga
che una ritratta non gli annunzi. Intanto                      160
superbisce il nemico, e ai nostri indugi
sfacciato insulta.

TORELLO

E questo è segno, o Sforza,
ch’ei brama una battaglia.

SFORZA

Oh, che puot’egli
bramar di più, che innanzi a sé cacciarne
con la spada nel fodero?

PERGOLA

Che puote                          165
bramar di più? Dirovvel io: che noi
tutto arrischiam l’esercito in un campo
ov’egli ha preso ogni vantaggio. Or questo
poniamo in salvo; ché le terre è lieve
riprender con gli eserciti.

FORTEBRACCIO

Con quali?                         170
Non, per mia fé, con quelli a cui s’insegna
a diloggiar quando il nemico appare,
a non mirarlo in faccia, a lasciar soli
nelle angosce i compagni; ma con genti
quali or le abbiam d’ira e di scorno accese,                  175
impazienti di pugnar, con queste
si riparan le perdite, e si vince.
Che dobbiamo aspettar? Brandi arrotati,
perché lasciarli irrugginir?

SFORZA

Torello,
voi temete d’agguati? Anch’io dirovvi:                       180
non son più quelle guerre, in cui minuti
drappelletti movean, con l’occhio teso
ogni macchia guatando, ogni rivolta.
Un’oste intera sopra un’oste intera
oggi rovescerassi: un tanto stuolo                                185
si vince sì, ma non s’accerchia; ei spazza
innanzi a sé gl’intoppi, e fin ch’è unito,
dovunque sia, sul suo terreno è sempre.

FORTEBRACCIO
(a Pergola e Torello)

Siete convinti?

TORELLO

Sofferite...

MALATESTI

Io il sono.
Omai vano è più dir. Certo io mi tengo                        190
che tutti andrete in operar d’accordo
più che non foste in divisar disgiunti.
Poi che un partito e l’altro ha il suo periglio,
scegliamo almen quel che più gloria ha seco.
Noi darem la battaglia: alla frontiera                            195
io mi pongo coi miei; Sforza vien dietro
e chiude la vanguardia; il mezzo tenga
della battaglia Fortebraccio: e il nostro
ufizio sia con impeto serrarci
addosso al campo del nemico, aprirlo,                         200
e spingerci a Maclodio. Voi, Torello,
e voi, Pergola, a cui sì dubbia sembra
questa giornata, io pongo in vostra mano
l’assicurarla: voi, discosti alquanto,
il retroguardo avrete. O la fortuna,                              205
pur come suol, seconda i valorosi,
e rompiamo il nemico; e voi piombate
sopra i dispersi. Ma s’ei dura incontro
l’impeto nostro, e ci vedete entrati
donde uscir soli non possiam; venite                            210
a noi, reggete i periglianti amici;
ché, per cosa che avvenga, io vi prometto,
retrocedere a voi non ci vedrete.

FORTEBRACCIO

Non ci vedrete, no.

SFORZA

Siatene certi.

FORTEBRACCIO

Sia lode al ciel, combatteremo alfine:                          215
mai non accadde a capitan, ch’io sappia,
per fare il suo mestier contender tanto.

PERGOLA

O Carmagnola, tu pensasti che oggi
il giovenil corruccio alla prudenza
prevarrebbe dei vecchi; e ti apponesti.                         220

FORTEBRACCIO

Sì, la prudenza è la virtù dei vecchi:
ella cresce con gli anni, e tanto cresce
che alfin diventa...

PERGOLA

Ebben, dite.

FORTEBRACCIO

Paura;
poi che volete ad ogni modo udirlo.

MALATESTI

Fortebraccio!

PERGOLA

L’hai detto. Ad un soldato                   225
che già più volte avea pugnato e vinto
prima che tu vedessi una bandiera,
oggi tu il primo hai detto...

MALATESTI

Da quel lato,
presso Maclodio è posto il Carmagnola.
Quegli fra noi che avere oggi pensasse                        230
altro nemico che costui, sarebbe
un traditor: pensatamente il dico.

PERGOLA

Ritratto il voto che dapprima io diedi;
e il do per la battaglia: ella fia quale
predissi allor; ma non importa. Allora                          235
potea schifarsi; or la domando io primo:
io son per la battaglia.

MALATESTI

Accetto il voto
ma non l’augurio: lo distorni il cielo
sul capo del nemico.

PERGOLA

O Fortebraccio,
tu m’hai offeso.

MALATESTI

Or via...

FORTEBRACCIO

Se così credi,                   240
sia pur così: perché a te spiaccia, o a quale
altro pur sia, non crederai ch’io voglia
una parola ritirar che uscita
dalle labbra mi sia.

MALATESTI
(in atto di partire)

Chi resta fido
a Filippo, mi segua.

PERGOLA

Io vi prometto                             245
che oggi darem battaglia, e che di noi
non mancheravvi alcuno. O Fortebraccio,
non giunger onta ad onta; io ti ripeto,
tu m’hai offeso. Ascolta, io t’offro il modo
che tu mi renda l’onor mio, serbando                           250
intatto il tuo.

FORTEBRACCIO

Che vuoi?

PERGOLA

Dammi il tuo posto.
Ovunque tu combatta, a tutti è noto
che tu volesti la battaglia, ed io,
io devo ad ogni modo essere in luogo
che l’amico e il nemico aperto veda                             255
ch’io non ho... tu m’intendi.

FORTEBRACCIO

Io son contento.
Prendi quel posto; poi che il brami, è tuo.
O forte, or m’odi: ora m’è dolce il dirti
ch’io non t’offesi, no: per la fortuna
del signor nostro tu soverchio temi:                             260
questo dir volli. Ma il timor che nasce
in cor di quel che ama la vita, e l’ama
più dell’onor, ma che nel cor del prode
muore al primo periglio ch’egli affronta,
e mai più non risorge, o valoroso,                                 265
pensavi tu?...

PERGOLA

Nulla pensai: tu parli
da generoso qual tu sei.
(a Malatesti)
Signore,
voi consentite al cambio?...

MALATESTI

Io ci consento;
e son ben lieto di veder tant’ira
tutta cader sovra il nemico.

TORELLO
(allo Sforza)

Io stava                            270
col Pergola da prima; ingiusto, io spero,
non vi parrà...

SFORZA

V’intendo; e con lui state
alla vanguardia: ultimi e primi, tutti
combatterem; poco m’importa il dove.

MALATESTI

Non più ritardi. Iddio sarà coi prodi.                           275
(partono)


SCENA IV

Campo veneziano. Tenda del Conte.

IL CONTE, un SOLDATO


SOLDATO

Signor, l’oste nemica è in movimento:
la vanguardia è sull’argine, e s’avanza.

IL CONTE

I condottieri dove son?

SOLDATO

Qui tutti
fuor della tenda i principali; e stanno
gli ordin vostri aspettando.

IL CONTE

Entrino tosto.                  280
(parte il Soldato)


SCENA V


IL CONTE

Eccolo il dì ch’io bramai tanto. — Il giorno
ch’ei non mi volle udir, che invan pregai,
che ogni adito era chiuso, e che deriso,
solo, io partiva, e non sapea per dove,
oggi con gioia io lo rammento alfine.                           285
Ti pentirai, dicea, mi rivedrai,
ma condottier de’ tuoi nemici, ingrato!
Io lo dicea; ma allor pareva un sogno,
un sogno della rabbia; ed ora è vero.
Gli sono a fronte: ecco mi balza il core:                       290
io sento il dì della battaglia... E s’io...
No: la vittoria è mia.


SCENA VI

IL CONTE, GONZAGA, ORSINI, TOLENTINO,
altri CONDOTTIERI


IL CONTE

Compagni, udiste
la lieta nova: l’inimico ha fatto
ciò ch’io volea; così voi pur farete.
E il sol che sorge, a ognun di noi, lo giuro,                  295
il più bel dì di nostra vita apporta.
Non è tra voi chi una battaglia aspetti
per farsi un nome, il so; ma questa sera
l’avrem più glorioso; e la parola
che al nostro orecchio sonerà più grata,                       300
omai fia quella di Maclodio. Orsini,
son pronti i tuoi?

ORSINI

Sì.

IL CONTE

Corri all’imboscate
sulla destra dell’argine; raggiungi
quei che vi stanno, e prendine il comando.
E tu a sinistra, o Tolentino. E quindi                            305
non vi movete, che non sia lo scontro
incominciato; quando ei fia, correte
alle spalle al nemico. Udite entrambi.
Se dell’insidie egli s’avvede, e tenta
ritrarsi, appena avrà voltato il dorso,                            310
siategli addosso uniti: io son con voi.
Provochi, o fugga, oggi dev’esser vinto.

ORSINI

E lo sarà.
(parte)

TOLENTINO

T’ubbidirem, vedrai.
(parte)

IL CONTE
(agli altri)

Tu, Gonzaga, al mio fianco. I posti a voi
assegnerò sul campo. Andiam, compagni;                   315
si resista al prim’urto: il resto è certo.



CORO


S’ode a destra uno squillo di tromba;
a sinistra risponde uno squillo:
d’ambo i lati calpesto rimbomba
da cavalli e da fanti il terren.
Quinci spunta per l’aria un vessillo;                             5
quindi un altro s’avanza spiegato:
ecco appare un drappello schierato;
ecco un altro che incontro gli vien.

Già di mezzo sparito è il terreno;
già le spade rispingon le spade;                                    10
l’un dell’altro le immerge nel seno;
gronda il sangue; raddoppia il ferir.
— Chi son essi? Alle belle contrade
qual ne venne straniero a far guerra?
Qual è quei che ha giurato la terra                                15
dove nacque far salva, o morir?

— D’una terra son tutti: un linguaggio
parlan tutti: fratelli li dice
lo straniero: il comune lignaggio
a ognun d’essi dal volto traspar.                                  20
Questa terra fu a tutti nudrice,
questa terra di sangue ora intrisa,
che natura dall’altre ha divisa,
e ricinta con l’alpe e col mar.

— Ahi! Qual d’essi il sacrilego brando            25
trasse il primo il fratello a ferire?
Oh terror! Del conflitto esecrando
la cagione esecranda qual è?
— Non la sanno: a dar morte, a morire
qui senz’ira ognun d’essi è venuto;                              30
e venduto ad un duce venduto,
con lui pugna, e non chiede il perché.

— Ahi sventura! Ma spose non hanno,
non han madri gli stolti guerrieri?
Perché tutte i lor cari non vanno                                  35
dall’ignobile campo a strappar?
E i vegliardi che ai casti pensieri
della tomba già schiudon la mente,
ché non tentan la turba furente
con prudenti parole placar?                                          40

— Come assiso talvolta il villano
sulla porta del cheto abituro,
segna il nembo che scende lontano
sopra i campi che arati ei non ha;
così udresti ciascun che sicuro                                     45
vede lungi le armate coorti,
raccontar le migliaia de’ morti,
e la pieta dell’arse città.

Là, pendenti dal labbro materno
vedi i figli che imparano intenti                                   50
a distinguer con nomi di scherno
quei che andranno ad uccidere un dì;
qui le donne alle veglie lucenti
de’ monili far pompa e de’ cinti,
che alle donne diserte de’ vinti                                    55
il marito o l’amante rapì.

— Ahi sventura! sventura! sventura!
Già la terra è coperta d’uccisi;
tutta è sangue la vasta pianura;
cresce il grido, raddoppia il furor.                                60
Ma negli ordini manchi e divisi
mal si regge, già cede una schiera;
già nel volgo che vincer dispera,
della vita rinasce l’amor.

Come il grano lanciato dal pieno                      65
ventilabro nell’aria si spande;
tale intorno per l’ampio terreno
si sparpagliano i vinti guerrier.
Ma improvvise terribili bande
ai fuggenti s’affaccian sul calle;                                   70
ma si senton più presso alle spalle
anelare il temuto destrier.

Cadon trepidi a pié de’ nemici,
gettan l’arme, si danno prigioni:
il clamor delle turbe vittrici                                          75
copre i lai del tapino che mor.
Un corriero è salito in arcioni;
prende un foglio, il ripone, s’avvia,
sferza, sprona, divora la via;
ogni villa si desta al rumor.                                          80

Perché tutti sul pesto cammino
dalle case, dai campi accorrete?
Ognun chiede con ansia al vicino,
che gioconda novella recò?
Donde ei venga, infelici, il sapete,                               85
e sperate che gioia favelli?
I fratelli hanno ucciso i fratelli:
questa orrenda novella vi do.

Odo intorno festevoli gridi;
s orna il tempio, e risona del canto;                              90
già s’innalzan dai cori omicidi
grazie ed inni che abbomina il ciel.
Giù dal cerchio dell’alpi frattanto
lo straniero gli sguardi rivolve;
vede i forti che mordon la polve,                                 95
e li conta con gioia crudel.

Affrettatevi, empite le schiere,
sospendete i trionfi ed i giochi,
ritornate alle vostre bandiere:
lo straniero discende; egli è qui.                                   100
Vincitor! Siete deboli e pochi?
Ma per questo a sfidarvi ei discende;
e voglioso a quei campi v’attende
dove il vostro fratello perì.

Tu che angusta a’ tuoi figli parevi,                   105
tu che in pace nutrirli non sai,
fatal terra, gli estrani ricevi:
tal giudizio comincia per te.
Un nemico che offeso non hai,
a tue mense insultando s’asside;                                  110
degli stolti le spoglie divide;
toglie il brando di mano a’ tuoi re.

Stolto anch’esso! Beata fu mai
gente alcuna per sangue ed oltraggio?
Solo al vinto non toccano i guai;                                  115
torna in pianto dell’empio il gioir.
Ben talor nel superbo viaggio
non l’abbatte l’eterna vendetta;
ma lo segna; ma veglia ed aspetta;
ma lo coglie all’estremo sospir.                                    120

Tutti fatti a sembianza d’un Solo,
figli tutti d’un solo Riscatto,
in qual ora, in qual parte del suolo,
trascorriamo quest’aura vital,
siam fratelli; siam stretti ad un patto:                           125
maledetto colui che l’infrange,
che s’innalza sul fiacco che piange,
che contrista uno spirto immortal!




FINE DELL’ATTO SECONDO




ATTO TERZO


SCENA I

Tenda del Conte.

IL CONTE e IL PRIMO COMMISSARIO


IL CONTE

Siete contenti?

PRIMO COMMISSARIO

Udir l’alto trionfo
della patria; vederlo; essere i primi
a salutarla vincitrice; a lei
darne l’annunzio; assistere alla fuga
de’ suoi nemici; e mentre al nostro orecchio                5
rimbomba il suon della minaccia ancora,
veder la gloria sua fuor del periglio
uscir raggiante e più che mai serena,
come un sol dalle nubi; è gioia questa
forse, o signor, cui la parola arrivi?                              10
Voi la vedete: essa vi sia misura
della riconoscenza; e ben ci tarda
di rendervi tai grazie in altro nome
che non è il nostro, e del Senato a voi
riferir la letizia e il guiderdone.                                    15
Ei sarà pari al merto.

IL CONTE

Io già lo tengo.
Venezia è salva; ho liberata in parte
una grande promessa; ho fatto alfine
risovvenir di me tal che m’avea
dimenticato; ho vinto.

PRIMO COMMISSARIO

Ed or si vuole                         20
assicurar della vittoria il frutto.

IL CONTE

.... Questa è mia cura.

PRIMO COMMISSARIO

Or che dal vostro brando
sgombra è la via, noi ci aspettiam che tutta
voi la farete, né starem fin tanto
che non si giunga del nemico al trono.                         25

IL CONTE

Quando fia tempo.

PRIMO COMMISSARIO

E che? Voi non volete
inseguire i fuggenti?

IL CONTE

Ora non voglio.

PRIMO COMMISSARIO

Ma il Senato lo crede... E noi ben certi
che pari all’alta occasion, che pari
alla vittoria il vostro ardor saria                                    30
nel proseguirla, abbiamo a lui...

IL CONTE

Vi siete
troppo affrettati.

PRIMO COMMISSARIO

E che dirà mai quando
udrà che ancor siam qui?

IL CONTE

Dirà, che il meglio
è di fidarsi a chi per lui già vinse.

PRIMO COMMISSARIO

Ma... che pensate far?

IL CONTE

Ve l’avrei detto                      35
più volentier pochi momenti or sono;
pur convien ch’io vel dica. Io non mi voglio
allontanar di qui pria ch’espugnate
non sian le rocche che ci stan d’intorno.
Voglio un solo nemico, e quello in faccia.                   40

PRIMO COMMISSARIO

Or dunque i nostri voti...

IL CONTE

I vostri voti
più arditi son del brando mio, più rapidi
de’ miei cavalli;... ed io... la prima volta
è che mi sento dir pur ch’io m’affretti.

PRIMO COMMISSARIO

Ma pensaste abbastanza?

IL CONTE

E che! Sì nova                   45
mi giunge una vittoria? E vi par egli
che questa gioia mi confonda il core
tanto che il primo mio pensier non sia
per ciò che resta a far?


SCENA II

IL SECONDO COMMISSARIO, e detti.


SECONDO COMMISSARIO
(al Conte)

Signor, se tosto
non correte al riparo, una sfacciata                               50
perfidia s’affatica a render vana
sì gran vittoria; e già l’ha fatto in parte.

IL CONTE

Come?

SECONDO COMMISSARIO

I prigioni escon del campo a torme;
i condottieri ed i soldati a gara
li mandan sciolti, né tener li puote                               55
fuor che un vostro comando.

IL CONTE

Un mio comando?

SECONDO COMMISSARIO

Esitereste a darlo?

IL CONTE

È questo un uso
della guerra, il sapete. È così dolce
il perdonar quando si vince! e l’ira
presto si cambia in amistà ne’ cori                                60
che batton sotto il ferro. Ah! non vogliate
invidiar sì nobil premio a quelli
che hanno per voi posta la vita, ed oggi
son generosi, perché ier fur prodi.

SECONDO COMMISSARIO

Sia generoso chi per sé combatte,                                65
signor; ma questi, e ad onor l’hanno, io credo,
al nostro soldo han combattuto; e nostri
sono i prigioni.

IL CONTE

E voi potete adunque
creder così: quei che gli han visti a fronte,
che assaggiaro i lor colpi, e che a fatica                       70
su lor le mani insanguinate han poste,
nol crederan sì di leggieri.

PRIMO COMMISSARIO

È questa
dunque una giostra di piacer? Non vince
per conservar, Venezia? E vana al tutto
fia la vittoria?

IL CONTE

Io già l’udii, di novo                             75
la devo udir questa parola: amara,
importuna mi vien come l’insetto
che, scacciato una volta, anco a ronzarmi
torna sul volto... La vittoria è vana?
Il suol d’estinti ricoperto, sparso                                  80
e scoraggiato il resto... il più fiorente
esercito! col qual, se unito ancora
e mio foss’egli, e mio davver, torrei
a correr tutta Italia; ogni disegno
dell’inimico al vento; anche il pensiero                        85
dell’offesa a lui tolto; a stento usciti
dalle mie mani, e di fuggir contenti
quattro tai duci, contro a’ quai pur ieri
era vanto il resistere; svanito
mezzo il terror di que’ gran nomi; ai nostri                  90
raddoppiato l’ardir che agli altri è scemo;
tutta la scelta della guerra in noi;
nostre le terre ch’egli han sgombre... è nulla?
Pensate voi che torneranno al Duca
que’ prigioni? che l’amino? che a loro                          95
caglia di lui più che di voi? ch’egli abbiano
combattuto per esso? Han combattuto
perché all’uomo che segue una bandiera,
grida una voce imperiosa in core:
combatti, e vinci. E’ son perdenti; e’ sono                   100
tornati in libertà; si venderanno...
oh! tale ora è il soldato... a chi primiero
li comprerà... Comprateli, e son vostri.

PRIMO COMMISSARIO

Quando assoldammo chi dovea con essi
pugnar, comprarli noi credemmo allora.                       105

SECONDO COMMISSARIO

Signor, Venezia in voi si fida; in voi
vede essa un figlio; e quanto all’util suo,
alla sua gloria può condur, s’aspetta
che si faccia da voi.

IL CONTE

Tutto ch’io posso.

SECONDO COMMISSARIO

Ebben, che non potete in questo campo?                     110

IL CONTE

Quel che chiedete: un uso antico, un uso
caro ai soldati violar non posso.

SECONDO COMMISSARIO

Voi cui nulla resiste, a cui sì pronto
tien dietro ogni voler, sì ch’uom non vede
se per amore o per timor si pieghi,                                115
voi non potreste in questo campo, voi
fare una legge, e mantenerla?

IL CONTE

Io dissi
ch’io non potea: meglio or dirò: nol voglio.
Non più parole; con gli amici è questo
il mio costume antico, ai giusti preghi                          120
soddisfar tosto e lietamente, e gli altri
apertamente rifiutar. Soldati!

SECONDO COMMISSARIO

Ma... che disegno è il vostro?

IL CONTE

Or lo vedrete.
(a un Soldato che entra)
Quanti prigion restano ancora?

IL SOLDATO
Io credo
quattrocento, signor.

IL CONTE

Chiamali... chiama                    125
i più distinti... quei che incontri i primi:
vengan qui tosto.
(parte il Soldato)
Io ’l potrei certo... Ov’io
dessi un tal cenno, non s’udria nel campo
una repulsa; ma i miei figli, i miei
compagni del periglio e della gioia,                              130
quei che fidano in me, che un capitano
credon seguir sempre a difender pronto
l’onor della milizia ed il vantaggio,
io tradirli così! Farla più serva,
più vil, più trista che non è!... Signori,                         135
fidente io son, come i soldati il sono;
ma se cosa or da me chiedete a forza,
che mi tolga l’amor de’ miei compagni,
se mi volete separar da quelli,
e a tal ridurmi ch’io non abbia appoggio                      140
altro che il vostro, mio malgrado il dico,
m’astringerete a dubitar...

SECONDO COMMISSARIO

Che dite!


SCENA III

I PRIGIONIERI, tra i quali PERGOLA figlio, e detti.


IL CONTE
(ai Prigionieri)

O prodi indarno, o sventurati!... A voi
dunque fortuna è più crudel? voi soli
siete alla trista prigionia serbati?                                  145

UN PRIGIONIERE

Tale, eccelso signor, non era il nostro
presentimento allor che a voi dinanzi
fummo chiamati, udir ci parve il messo
di nostra libertà. Già tutti l’hanno
ricovrata color che agli altri duci,                                 150
minor di voi, caddero in mano; e noi...

IL CONTE

Voi, di chi siete prigionier?

IL PRIGIONIERE

Noi fummo
gli ultimi a render l’armi. In fuga o preso
già tutto il resto, ancor per pochi istanti
fu sospesa per noi l’empia fortuna                               155
della giornata; alfin voi feste il cenno
d’accerchiarci, o signor: soli, non vinti,
ma reliquie de’ vinti, al drappel vostro...

IL CONTE

Voi siete quelli? Io son contento, amici,
di rivedervi; e posso ben far fede                                 160
che pugnaste da prodi: e se tradito
tanto valor non era, e pari a voi
sortito aveste un condottier, non era
piacevol tresca esservi a fronte.

IL PRIGIONIERE

Ed ora
ci fia sventura il non aver ceduto                                 165
che a voi, signore? E quelli a cui toccato
men glorioso è il vincitor, l’avranno
trovato più cortese? Indarno ai vostri
la libertà chiedemmo; alcun non osa
dispor di noi senza l’assenso vostro;                            170
ma cel promiser tutti. Oh! se potete
mostrarvi al Conte, ci dicean: non egli
certo dei vinti aggraverà la sorte;
non fia certo per lui tolta un’antica
cortesia della guerra,... ei che sapria                             175
esser piuttosto ad inventarla il primo.

IL CONTE
(ai Commissari)

Voi gli udite, o signori... Ebben, che dite?...
Voi, che fareste?...
(ai Prigionieri)
Tolga il ciel che alcuno
più altamente di me pensi ch’io stesso.
Voi siete sciolti, amici. Addio: seguite                        180
la vostra sorte, e s’ella ancor vi porta
sotto una insegna che mi sia nemica...
ebben, ci rivedremo.

(segni di gioia tra i Prigionieri, che partono;
il Conte osserva il Pergola figlio, e lo ferma)

O giovinetto,
tu del volgo non sei; l’abito, e il volto
ancor più chiaro il dice; e ti confondi                           185
con gli altri, e taci?

PERGOLA FIGLIO

O capitano, i vinti
non han nulla da dir.

IL CONTE

La tua fortuna
porti così, che ben ti mostri degno
d’una miglior. Quale è il tuo nome?

PERGOLA FIGLIO

Un nome
cui crescer pregio assai difficil fia,                               190
che un grande obbligo impone a chi lo porta:
Pergola è il nome mio.

IL CONTE

Che? Tu sei figlio
di quel valente?

PERGOLA FIGLIO

Il son.

IL CONTE

Vieni ed abbraccia
l’antico amico di tuo padre. Io era
quale or tu sei, quando il conobbi in prima.                 195
Tu mi rammenti i lieti giorni, i giorni
delle speranze. E tu fa cor: fortuna
più giocondi princìpi a me concesse;
ma le promesse sue sono pei prodi;
e o presto o tardi essa le adempie. Il padre                  200
per me saluta, o giovinetto, e digli
ch’io non tel chiesi, ma che certo io sono
ch’ei non volea questa battaglia.

PERGOLA FIGLIO

Ah! certo,
non la volea; ma fur parole al vento.

IL CONTE

Non ti doler: del capitano è l’onta                               205
della sconfitta; e sempre ben comincia
chi da forte combatte ove fu posto.
Vien meco;
(lo prende per mano)
ai duci io vo’ mostrarti, io voglio
renderti la tua spada.
(ai Commissari)
Addio, signori;
giammai pietoso coi nemici vostri                                210
io non sarò, che dopo averli vinti.
(partono il Conte e Pergola figlio)


SCENA IV

I due COMMISSARI


SECONDO COMMISSARIO
(dopo qualche silenzio)

Direte ancor che a presagir perigli
troppo facil son io? che le parole
de’ suoi contrari, il mio sospetto antico,
l’odio forse, chi sa? mi fanno ingiusto                         215
contro costui? ch’egli è sdegnoso, ardente,
ma leal? che da lui cercar non dessi
ossequi, ma servigi, e quando in grave
caso il nostro volere a lui s’intimi,
il dubitar ch’egli resista è un sogno?                            220
Vi basta questo?

PRIMO COMMISSARIO

C’è di più. Gli dissi
che a noi premea che s’inseguisse il vinto:
ei ricusò.

SECONDO COMMISSARIO

Ma che rispose?

PRIMO COMMISSARIO

Ei vuole
assicurarsi delle rocche... ei teme...

SECONDO COMMISSARIO

Cauto ad un tratto è divenuto... e dopo                       225
una vittoria.

PRIMO COMMISSARIO

La parola a stento
gli uscia di bocca: ella parea risposta
all’indiscreto che t’assedia, e vuole
il tuo segreto che per nulla il tocca.

SECONDO COMMISSARIO

Ma l’ha poi detto il suo segreto? E questo                   230
motivo ond’egli accontentar vi volle,
vi parve il solo suo motivo, il vero?

PRIMO COMMISSARIO

Nol so, non ci badai, tempo non ebbi
che di pensar ch’io mi trovava innanzi
un temerario, e ch’io sentia parole                                235
inusitate ai pari nostri.

SECONDO COMMISSARIO

E s’egli
al suo signore antico, al primo ond’ebbe
onor supremi, all’alta creatura
della sua spada, più terror che danno
volesse far? fargli pensar soltanto                                240
quel ch’egli era per lui, quel che gli è contro?
Tal nemico mostrarglisi, ch’ei brami
d’averlo amico ancor? S’ei non potesse
tutto staccare il suo pensier da un trono
ch’egli alzò dalla polve; ov’ebbe il primo                     245
grado dopo colui che v’è seduto?
Se un duca ardente di conquiste, e inetto
a sopportar d’una corazza il peso,
che d’una mano ha d’uopo e d’un consiglio,
e al condottier lo chiede, e gli comanda                       250
ciò ch’ei medesmo gl’inspirò, più grato
signor, più dolce al condottier paresse,
che molti, e vigilanti, e più bramosi
di conservar che d’acquistar, cui preme
sovr’ogni cosa il comandar davvero?                           255

PRIMO COMMISSARIO

Tutto io m’aspetto da costui.

SECONDO COMMISSARIO

Teniamo
questo sospetto: il suo contegno, i nostri
accorgimenti il faran chiaro in breve,
o ad altro almen ci guideranno. Ei trama
certo. Colui che trama, e del successo                          260
si pasce già, come se il tenga, ardito
parla ancor che nol voglia; e quei che sprezza
in faccia il suo signor, già in cor ne ha scelto
un altro, o pensa a diventarlo ei stesso.
No: da Filippo ei non è sciolto in tutto.                       265
A quella stirpe onde la sposa egli ebbe
non è stranier: troppo gli è caro il nodo
che ad essa un dì lo strinse. In quella figlia,
che ha tanta parte in suo pensier, non scorre
col suo confuso de’ Visconti il sangue?                       270

PRIMO COMMISSARIO

Come parlò! Come passò dall’ira
al non curar! Con che superba pace
disubbidì! Siam noi nel nostro campo?
Di Venezia i mandati? Eran costoro
vinti e prigioni? E più sicuro il guardo                         275
portavano di noi! Noi testimoni
del suo poter, del conto in cui ci tiene,
de’ nostri acquisti così sparsi al vento,
di tal gioia, di tai grazie, di tali
abbracciamenti! Oh! ciò durar non puote.                    280
Che avviso è il vostro?

SECONDO COMMISSARIO

Haccene due? Soffrire,
dissimular, fargli querela ancora
d’un’offesa che mai creder non puote
dimenticata, e insiem la strada aprirgli
di ripararla a modo suo; gradire                                   285
che ch’ei ne faccia; chiedergli soltanto
ciò che siam certi d’ottenerne; opporci
sol quanto basti a far che vera appaia
condiscendenza il resto; a dichiararsi
non astringerlo mai; vegliare intanto;                           290
scriverne ai Dieci, ed aspettar comandi.

PRIMO COMMISSARIO

Viver così! Che si diria di noi?
Dell’alto ufizio che ci fu commesso,
a cui venimmo invidiati, e or tale
diviene?

SECONDO COMMISSARIO

È sempre glorioso il posto                           295
dove si serve la sua patria, e dove
si giunge ai fini suoi. Soldati e duci
tutti sono per lui, l’ammiran tutti,
nessun l’invidia; a sommo onor si tiene
bene ubbidirlo; e in questo sol c’è gara                        300
che ad essergli secondo ognuno aspira.
Voce sì cara e riverita in prima,
che forza avrebbe in lor poscia che udita
l’hanno in un tanto dì, che forza avrebbe
se proferisse mai quella parola,                                     305
che in core han tutti, la rivolta? Guai!
Che più? gli udimmo pur; come de’ suoi,
è nel pensiero de’ nemici in cima.

PRIMO COMMISSARIO

Ma siamo a tempo? Ei già sospetta.

SECONDO COMMISSARIO

Il siamo.

Essi armati, e sol essi; avvezzi tutti                              310
a prodigar la vita, a non temere
il periglio, ad amarlo, e delle imprese
a non guardar che la speranza, alfine
più ch’uomini nel campo: ah! se fanciulli
non fosser poi nel resto, ed i sospetti                           315
facili a palesar come a deporli;
se una parola di lusinga, un atto
di sommessa amistà non li volgesse
a talento di quel che l’usa a tempo;
a che saremmo? ubbidiria la spada?                             320
Saremmo ancora i signor noi?

PRIMO COMMISSARIO

Sta bene.
Riesca, o no, questo partito è il solo.




FINE DELL’ATTO TERZO





ATTO QUARTO


SCENA I

Sala dei Capi del Consiglio dei Dieci, in Venezia.
MARCO Senatore, e MARINO uno dei Capi.


MARCO

Eccomi al cenno degli eccelsi Capi
del Consiglio de’ Dieci.

MARINO

Io parlo in nome
di tutti lor. Vi si destina un grave
incarco, fuor di qui: se un argomento
di confidenza questo sia... la vostra                             5
coscienza il diravvi.

MARCO

Essa mi dice
che scarsa al merto ed all’ingegno mio
dee la patria concederla, ma intera
alla fede ed al cor.

MARINO

La patria! È un nome
dolce a chi l’ama oltre ogni cosa, e sente                     10
di vivere per lei; ma proferirlo
senza tremar non dee chi resta amico
de’ suoi nemici.

MARCO

Ed io...

MARINO

Per chi parlaste
oggi in Senato? Per la patria? I vostri
sdegni, i vostri terrori eran per lei?                               15
Chi vi rendea sì caldo? Il suo periglio,
o il periglio di chi? Chi difendeste...
voi solo?

MARCO

Io so davanti a chi mi trovo.
Sta la mia vita in vostra man, ma il mio
voto non già: giudice ei non conosce                           20
fuor che il mio cor; né d’altro esser può reo
che d’avergli mentito. A darne conto
pur disposto son io.

MARINO

Tutto che puote
por la patria in periglio, essere inciampo
all’alte mire sue, dargli sospetto,                                  25
è in nostra man. Perché ci siate or voi,
se nol sapete, se mostrar vi giova
di non saperlo, uditelo. Per ora
d’oggi si parli; non vogliam di tutta
la vostra vita interrogar che un giorno.                         30

MARCO

E che? fors’altro mi si appon? Di nulla
temer poss’io; la mia condotta...

MARINO

È nota
più a noi che a voi. Dalla memoria vostra
forse assai cose ha cancellato il tempo:
il nostro libro non obblia.

MARCO

Di tutto                              35
ragion darò.

MARINO

Voi la darete quando
vi fia chiesta. Non più: quando il Senato
diede il comando al Carmagnola, a molti
era sospetta la sua fede; ad altri
certa parea: potea parerlo allora.                                   40
Ei discioglie i prigioni, insulta i nostri
mandati, i nostri pari; ha vinto, e perde
in perfid’ozio la vittoria. Il velo
cade dal ciglio ai più. Nel suo soccorso
troppo fidando, il Trevisan s’innoltra                           45
nel Po, le navi del nemico affronta;
sopraffatto dal numero, richiede
al Capitan rinforzo, e non l’ottiene.
Freme il Senato; poche voci appena
s’alzano ancor per lui. Cremona è presa,                      50
basta sol ch’ei v’accorra; ei non v’accorre.
Giunge l’annunzio oggi al Senato: alfine
più non gli resta difensor che un solo:
solo, ma caldo difensor. Per lui
innocente è costui, degno di lode                                55
più che di scusa; e se ci fu sventura,
colpa è soltanto del destino... e nostra.
Non è giustizia che il persegue: è solo
odio privato, è invidia, è basso orgoglio
che non perdona al sommo, a chi tacendo                   60
grida co’ fatti: io son maggior di voi.
Certo inaudito è un tal linguaggio: i Padri
nel lor Senato oggi l’udiro; e muti
si volsero a guardar donde tal voce
venìa, se uno straniero oggi, un nemico                       65
premere un seggio nel Senato ardia.
Chiarito è il Conte un traditor; si vuole
torgli ogni via di nocere. Ma l’arte
tanta e l’audacia è di costui, che reso
ei s’è tremendo a’ suoi signori; è forte                         70
di quella forza che gli abbiam fidata;
egli ha il cor de’ soldati; e l’armi nostre,
quando voglia, son sue; contro di noi
volger le puote, e il vuol. Certo è follia
aspettar che lo tenti; ognun risolve                               75
ch’ei si prevenga, e tosto. A forza aperta
è impresa piena di perigli. E noi
starem per questo? E il suo maggior delitto
sarà cagion perché impunito ei vada?
Sola una strada alla giustizia è schiusa,                        80
l’arte con cui l’ingannator s’inganna.
Ei ci astrinse a tenerla; ebben, si tenga:
questo è il voto comun. Che fece allora
l’amico di costui? Ve ne rammenta?
Io vel dirò; ché men tranquillo al certo                        85
era in quel punto il vostro cor, dell’occhio
che imperturbato vi seguia. Perdeste
ogni ritegno, oltrepassaste il largo
confin che un resto di prudenza avea
prescritto al vostro ardor, dimenticaste                        90
ciò che promesso v’eravate, intero
ai men veggenti vi svelaste, a quelli
cui parea novo ciò che a noi non l’era.
Ognuno allor pensò che oggi in Senato
c’era un uom di soverchio, e che bisogna                     95
porre il segreto dello Stato in salvo.

MARCO

Signor, tutto a voi lice: innanzi a voi
quel che ora io sia, non so; però non posso
dimenticarmi che patrizio io sono,
né a voi tacer che un dubbio tal m’offende.                100
Sono un di voi: la causa dello Stato
è la mia causa; e il suo segreto importa
a me non men che altrui.

MARINO

Volete alfine
saper chi siete qui? Voi siete un uomo
di cui si teme, un che lo Stato guarda                          105
come un inciampo alla sua via. Mostrate
che nol sarete; il darvene agio ancora
è gran clemenza.

MARCO

Io sono amico al Conte:
questa è l’accusa mia; nol nego, io il sono:
e il ciel ringrazio che vigor mi ha dato                         110
di confessarlo qui. Ma se nemico
è della patria? Mi si provi, è il mio.
Che gli si appone? I prigionier disciolti?
Non li disciolse il vincitor soldato?
Ma invan pregato il condottier non volle                     115
frenar questa licenza. Il potea forse?
Ma l’imitò. Non ve lo astrinse un uso,
qual ch’ei sia, della guerra? ed al Senato
vera non parve questa scusa? e largo
d’ogni onor poscia non gli fu? L’aiuto                         120
al Trevisan negato? Era più grave
periglio il darlo; era l’impresa ordita
ignaro il Conte; ei non fu chiesto a tempo.
E la sentenza che a sì turpe esiglio
il Trevisan dannò, tutta la colpa                                   125
non rovesciò sovra di lui? Cremona?
Chi di Cremona meditò l’acquisto?
Chi l’ordin dié che si tentasse? Il Conte.
Del popol tutto che a rumor si leva
non può scarso drappel l’inaspettato                            130
impeto sostener; ritorna al campo,
non scemo pur d’un combattente. Al Duce
buon consiglio non parve incontro un novo
impensato nemico avventurarsi;
e abbandonò l’impresa. Ella è, fra tante                       135
sì ben compiute, una fallita impresa;
ma il tradimento ov’è? Fiero, oltraggioso
da gran tempo, voi dite, è il suo linguaggio:
un troppo lungo tollerar macchiato
ha l’onor nostro. Ed un’insidia, il lava?                       140
E poi che un nodo, un dì sì caro, ormai
non può tener Venezia e il Carmagnola,
chi ci vieta disciorlo? Un’amistade
sì nobilmente stretta, or non potria
nobilmente finir? Come! anche in questo                     145
un periglio si scorge! Il genio ardito
del condottier; la fama sua si teme,
de’ soldati l’amor! Se render piena
testimonianza al ver, colpa si stima;
se a tal trista temenza oppor non lice                           150
la lealtà del Conte; il senso almeno
del nostro onor la scacci. Abbiam di noi
un più degno concetto; e non si creda
che a tal Venezia giunta sia, che possa
porla in periglio un uom. Lasciam codeste                   155
cure ai tiranni: ivi il valor si tema
ove lo scettro è in una mano, e basta
a strapparlo un guerrier che dica: io sono
più degno di tenerlo; e a’ suoi compagni
il persuada. Ei che tentar potria?                                  160
Al Duca ritornar, dicesi, e seco
le schiere trar nel tradimento. Al Duca?
All’uom che un’onta non perdona mai,
né un gran servigio, ritornar colui
che gli compose e che gli scosse il trono?                    165
Chi non poté restargli amico in tempo
che pugnava per lui, ridivenirlo
dopo averlo sconfitto! Avvicinarsi
a quella man che in questo asilo istesso                        170
comprò un pugnal per trapassargli il petto!
L’odio solo, o signor, creder lo puote.
Ah! qual sia la cagion che innanzi a questo
temuto seggio fa trovarmi, un’alta
grazia mi fia, se fare intender posso
anco una volta il ver: qualche lusinga                           175
io nutro ancor che non fia forse invano.
Sì, l’odio cieco, l’odio sol potea
far che fosse in Senato un tal sospetto
proposto, inteso, tollerato. Ha molti
fra noi nemici il Conte: or non ricerco                          180
perché lo siano: il son. Quando nascoste
all’ombra della pubblica vendetta,
le nimistà private io disvelai;
quando chiedea che a provveder s’avesse
l’util soltanto dello Stato, e il giusto;                           185
allora ufizio io non facea d’amico,
ma di fedel patrizio. Io già non scuso
il mio parlar: quando proporre intesi
che sotto il vel di consultarlo ei sia
richiamato a Venezia, e gli si faccia                             190
onor più dell’usato, e tutto questo
per tirarlo nel laccio... allor, nol nego...

MARINO

Più non pensaste che all’amico.

MARCO


Allora,
dissimular nol vo’, tutte sentii
le potenze dell’alma sollevarsi                                      195
contro un consiglio... ah fu seguito!... Un solo
pensier non fu; fu della patria mia
l’onor ch’io vedo vilipeso, il grido
de’ nemici e de’ posteri; fu il primo
senso d’orror che un tradimento inspira                       200
all’uom che dee stornarlo, o starne a parte.
E se pietà d’un prode a tanti affetti
pur si mischiò, dovea, poteva io forse
farla tacer? Son reo d’aver creduto
che util puote a Venezia esser soltanto                        205
ciò che l’onora, e che si può salvarla
senza farsi...

MARINO

Non più: se tanto udii
fu perché ai Capi del Consiglio importa
di conoscervi appien. Piacque aspettarvi
ai secondi pensier; veder si volle                                  210
se un più maturo ponderar v’ avea
tratto a più saggio e più civil consiglio.
Or, poiché indarno si sperò, credete
voi che un decreto del Senato io voglia
difender ora innanzi a voi? Si tratta                             215
la vostra causa qui. Pensate a voi,
non alla patria: ad altre, e forti, e pure
mani è commessa la sua sorte: e nulla
a cor le sta che il suo voler vi piaccia,
ma che s’adempia, e che non sia sofferto                     220
pure il pensier di porvi impedimento.
A questo vegliam noi. Quindi io non voglio
altro da voi che una risposta. Espresso
sovra quest’uomo è del Senato il voto;
compir si dee; voi, che farete intanto?                         225

MARCO

Quale inchiesta, signor!

MARINO

Voi siete a parte
d’un gran disegno; e in vostro cor bramate
che a voto ei vada: non è ver?

MARCO

Che importa
ciò ch’io brami, allo Stato? A prova ormai
sa che dell’opre mie non è misura                                230
il desiderio, ma il dover.

MARINO

Qual pegno
abbiam da voi che lo farete? In nome
del Tribunale un ve ne chiedo: e questo,
se lo negate, un traditor vi tiene.
Quel che si serba ai traditor, v’è noto.                         235

MARCO

Io... Che si vuol da me?

MARINO

Riconoscete
che patria è questa a cui bastovvi il core
di preferire uno stranier. Sui figli
a stento e tardi essa la mano aggrava;
e a perderne soltanto ella consente                               240
quei che salvar non puote. Ogni error vostro
è pronta ad obbliar; v’apre ella stessa
la strada al pentimento.

MARCO

Al pentimento!
Ebben, che strada?

MARINO

Il Mussulman disegna
d’assalir Tessalonica: voi siete                                      245
colà mandato. A quale ufizio, quivi
noto vi fia: pronta è la nave; ed oggi
voi partirete.

MARCO

Ubbidirò.

MARINO

Ma un’arra
si vuol di vostra fé: giurar dovete
per quanto è sacro, che in parole o in cenni                  250
nulla per voi traspirerà di quanto
oggi s’è fisso. Il giuramento è questo:
(gli presenta un foglio)
sottoscrivete.

MARCO
(legge)

E che, signor? Non basta?..

MARINO

E per ultimo, udite. Il messo è in via
che porta al Conte il suo richiamo. Ov’egli                  255
pronto ubbidisca, ed in Venezia arrivi,
giustizia troverà... forse clemenza.
Ma se ricusa, se sta in forse, e segno
dà di sospetto; un gran segreto udite,
e tenetelo in voi; l’ordine è dato                                  260
che dalle nostre man vivo ei non esca.
Il traditor che dargli un cenno ardisce,
quei l’uccide, e si perde. Io più non odo
nulla da voi: scrivete; ovvero...
(gli porge il foglio)

MARCO

Io scrivo.
(prende il foglio e lo sottoscrive)

MARINO

Tutto è posto in obblio. La vostra fede                        265
ha fatto il più; vinto ha il dover: l’impresa
compirsi or dee dalla prudenza: e questa
non può mancarvi, sol che in mente abbiate
che ormai due vite in vostra man son poste. (parte)


SCENA II



MARCO

Dunque è deciso!... un vil son io!... fui posto              270
al cimento; e che feci?... Io prima d’oggi
non conoscea me stesso!... Oh che segreto
oggi ho scoperto! Abbandonar nel laccio
un amico io potea! Vedergli al tergo
l’assassino venir, veder lo stile                                     275
che su lui scende, e non gridar: ti guarda!
Io lo potea; l’ho fatto... io più nol devo
salvar; chiamato ho in testimonio il cielo
d’un’infame viltà... la sua sentenza
ho sottoscritta... ha la mia parte anch’io                       280
nel suo sangue! Oh che feci!... io mi lasciai
dunque atterrir?... La vita?... Ebben, talvolta
senza delitto non si può serbarla:
nol sapeva io? Perché promisi adunque?
Per chi tremai? per me? per me? per questo                 285
disonorato capo?... o per l’amico?
La mia ripulsa accelerava il colpo,
non lo stornava. O Dio, che tutto scerni,
rivelami il mio cor; ch’io veda almeno
in quale abisso son caduto, s’io                                    290
fui più stolto; o codardo, o sventurato.
O Carmagnola, tu verrai!... sì certo
egli verrà... se anche di queste volpi
stesse. in sospetto, ei penserà che Marco
è senator, che anch’io l’invito; e lunge                         295
ogni dubbiezza scaccerà; rimorso
avrà d’averla accolta... Io son che il perdo!
Ma... di clemenza non parlò quel vile?
Sì, la clemenza che il potente accorda
all’uom che ha tratto nell’agguato, a quello                 300
ch’egli medesmo accusa, e che gli preme
di trovar reo. Clemenza all’innocente!
Oh! il vil son io che gli credetti, o volli
credergli; ei la nomò perché comprese
che bastante a corrompermi non era                             305
il rio timor che a goccia a goccia ei fea
scender sull’alma mia: vide che d’uopo
m’era un nobil pretesto; e me lo diede.
Gli astuti! i traditor! Come le parti
distribuite hanno tra lor costoro!                                  310
Uno il sorriso, uno il pugnal, quest’altro
le minacce... e la mia?... voller che fosse
debolezza ed inganno... ed io l’ho presa!
Io li spregiava; e son da men di loro!
Ei non gli sono amici!... Io non doveva                       315
essergli amico: io la cercai; fui preso
dall’alta indole sua, dal suo gran nome.
Perché dapprima non pensai che incarco
è l’amistà d’un uom che agli altri è sopra?
Perché allor correr solo io nol lasciai                            320
la sua splendida via, s’io non potea
seguire i passi suoi? La man gli stesi;
il cortese la strinse; ed or ch’ei dorme,
e il nemico gli è sopra, io la ritiro:
ei si desta, e mi cerca; io son fuggito!                          325
Ei mi dispregia, e more! Io non sostengo
questo pensier... Che feci!... Ebben, che feci?
Nulla finora: ho sottoscritto un foglio,
e nulla più. Se fu delitto il giuro,
non fia virtù l’infrangerlo? Non sono                           330
che all’orlo ancor del precipizio; il vedo,
e ritrarmi poss’io... Non posso un mezzo
trovar?... Ma s’io l’uccido? Oh! forse il disse
per atterrirmi... E se davvero il disse?
Oh empi, in quale abbominevol rete                             335
stretto m’avete! Un nobile consiglio
per me non c’è; qualunque io scelga, è colpa.
Oh dubbio atroce!... Io li ringrazio; ei m’hanno
statuito un destino; ei m’hanno spinto
per una via; vi corro: almen mi giova                           340
ch’io non la scelsi: io nulla scelgo; e tutto
ch’io faccio è forza e volontà d’altrui.
Terra ov’io nacqui, addio per sempre: io spero
ché ti morrò lontano, e pria che nulla
sappia di te: lo spero: in fra i perigli                             345
certo per sua pietade il ciel m’invia.
Ma non morrò per te. Che tu sii grande
e gloriosa, che m’importa? Anch’io
due gran tesori avea, la mia virtude,
ed un amico; e tu m’hai tolto entrambi.                       350
(parte)


SCENA III


Tenda del Conte.

IL CONTE e GONZAGA


IL CONTE

Ebben, che raccogliesti?



GONZAGA
 
Io favellai,
come imponesti, ai Commissari; e chiaro
mostrai che tutta delle vinte navi
riman la colpa e la vergogna a lui
che non le seppe comandar; che infausta                     355
la giornata gli fu perché la imprese
senza di te; che tu da lui chiamato
tardi in soccorso, romper non dovevi
i tuoi disegni per servir gli altrui;
che l’armi lor, tanto in tua man felici,                          360
sempre il sarian, se questa guerra fosse
commessa al senno ed al voler d’un solo.

IL CONTE

Che dicon essi?

GONZAGA

Si mostrar convinti
ai detti miei: dissero in pria, che nulla
dissimular volean; che amaro al certo                           365
de’ perduti navigli era il pensiero,
e di Cremona la fallita impresa;
ma che son lieti di saper che il fallo
di te non fu; che di chiunque ei sia,
da te l’ammenda aspettano.

IL CONTE

Tu il vedi,                        370
o mio Gonzaga; se dai fede al volgo,
sommo riguardo, arte profonda è d’uopo
con questi uomin di Stato. Io fui con essi
quel ch’esser soglio; rigettai l’ingiuste
pretese lor, scender li feci alquanto                              375
dall’alto seggio ove si pon chi avvezzo
non è a vedersi altri che schiavi intorno;
io mostrai lor fino a che segno io voglio
che altri signor mi sia: d’allora in poi
mai non l’hanno passato; io li provai                            380
saggi sempre e cortesi.

GONZAGA

E non pertanto
dar consiglio ad alcuno io non vorrei
di tener, questa via. Te da gran tempo
la gloria segue e la fortuna; ad essi
util tu sei, tu necessario e caro,                                     385
terribil forse: e tu la prova hai vinta;
se pur può dirsi che sia vinta ancora.

IL CONTE

Che dubbi hai tu?

GONZAGA

Tu, che certezza? Io vedo
dolci sembianti, e dolci detti ascolto:
segni d’amor; ma pur, l’odio che teme,                        390
altri ne ha forse?

IL CONTE

No: di questo io nulla
sono in pensier. Troppo a regnar son usi;
e san che all’uom da cui s’ottiene il molto
chieder non dessi improntamente il meno.
E poi, mi credi, io li guardai dappresso:                       395
questa cupa arte lor, questi intricati
avvolgimenti di menzogna, questo
finger, tacere, antiveder, di cui
tanto li loda e li condanna il mondo
è meno assai di quel che al mondo appare.                  400

GONZAGA

Se pur non era di lor arte il colmo
il parer tali a te.

IL CONTE

No: tu li vedi
con l’occhio altrui: quando col tuo li veda,
tu cangerai pensiero. Havvene assai
di schietti e buoni; havvene tal che un’alta                  405
anima chiude, a cui pensier non osa
avvicinarsi che gentil non sia:
anima dolce e disdegnosa, in cui
legger non puoi, che tu non sia compreso
d’amor, di riverenza, e di desio                                    410
di somigliarle. Non temer; non sono
di me scontenti; e quando il fosser mai,
io lo saprei ben tosto.

GONZAGA

Il Ciel non voglia
che tu t’inganni.

IL CONTE

Altro mi duol: son stanco
di questa guerra che condur non posso                        415
a modo mio. Quand’io non era ancora
più che un soldato di ventura, ascoso
e perduto tra i mille, ed io sentia
che al loco mio non m’avea posto il cielo,
e dell’oscurità l’aria affannosa                                     420
respirava fremendo, ed il comando
sì bello mi parea,... chi m’avria detto
che l’otterrei, che a gloriosi duci,
e a tanti e così prodi e così fidi
soldati io sarei capo; e che felice                                  425
io non sarei perciò!...
(entra un Soldato)
Che rechi?

SOLDATO

Un foglio
di Venezia.
(gli porge il foglio, e parte)

IL CONTE

Vediam.
(legge)
Non tel diss’io?
mai non gli ebbi più amici: a loro il Duca
chiede la pace, e conferir con meco
braman di ciò. Vuoi tu seguirmi?

GONZAGA
Io vengo.                430

IL CONTE

Che dì tu di tal pace?

GONZAGA

Ad un soldato
tu lo domandi?

IL CONTE

È ver; ma questa è guerra?
O mia consorte, o figlia mia, tra poco
io rivedrovvi, abbraccerò gli amici:
questo è contento al certo. Eppur del tutto                  435
esser lieto non so: chi potria dirmi
se un sì bel campo io rivedrò più mai?




FINE DELL’ATTO QUARTO




ATTO QUINTO


SCENA I

Notte. Sala del Consiglio dei Dieci illuminata.

Il DOGE, i DIECI, e il CONTE seduti.


IL DOGE
(al Conte)

A questi patti offre la pace il Duca;
su ciò chiede il Consiglio il parer vostro.

IL CONTE

Signori, un altro io ve ne diedi; e molto
promisi allor: vi piacque. Io attenni in parte
quel che promesso avea: ma lunge ancora                    5
dalle parole è il fatto; ed or non voglio
farle obbliar però: sul labbro mio
imprevidente militar baldanza
non le mettea. Di novo avviso or chiesto,
altro non posso che ridirvi il primo.                              10
Se intera e calda e risoluta guerra
far disponete, ah! siete a tempo: è questa
la miglior scelta ancora. Ei vi abbandona
Bergamo e Brescia; e non son vostre? L’armi
le han fatte vostre: ei non può tanto offrirvi                15
quanto sperar di torgli v’è concesso.
Ma, da un guerrier che vi giurò sua fede
voi non volete altro che il ver, se il modo
mutar di questa guerra a voi non piace,
accettate gli accordi.

IL DOGE

Il parlar vostro                          20
accenna assai, ma poco spiega: un chiaro
parer vi si domanda.

IL CONTE

Uditel dunque.
Scegliete un duce, e confidate in lui:
tutto ei possa tentar; nulla si tenti
senza di lui: largo poter gli date;                                  25
stretto conto ei ne renda. Io non vi chiedo
ch’io sia l’eletto: dico sol che molto
sperar non lice da chi tal non sia.

MARINO

Non l’eravate voi quando i prigioni
sciolti voleste, e il furo? Eppur la guerra                      30
più risoluta non si fea per questo,
né certa più. Duce e signor nel campo,
forse concesso non l’avreste.

IL CONTE

Avrei
fatto di più: sotto alle mie bandiere
venian quei prodi; e di Filippo il soglio                        35
voto or sarebbe, o sederiavi un altro.

IL DOGE

Vasti disegni avete.

IL CONTE

E l’adempirli
sta in voi: se ancor nol son, n’è cagion sola
che la man che il dovea sciolta non era.

MARINO

A noi si disse altra cagion: che il Duca                        40
vi commosse a pietà, che l’odio atroce
che già portaste al signor vostro antico,
sovra i presenti il rovesciaste intero.

IL CONTE

Questo vi fu riferto? Ella è sventura
di chi regge gli Stati udir con pace                               45
l’impudente menzogna, i turpi sogni
d’un vil di cui non degneria privato
le parole ascoltar.

MARINO

Sventura è vostra
che a tal riferto il vostro oprar s’accordi,
che il rio linguaggio lo confermi, e il vinca.                 50

IL CONTE

Il vostro grado io riverisco in voi,
e questi generosi in mezzo a cui
v’ha posto il caso: e mi conforta almeno
che il non mertato onor di che lor piacque
cingere il loro capitan, lo stesso                                    55
udirvi io qui, mostra ch’essi han di lui
altro pensiero.

IL DOGE

Uno è il pensier di tutti.

IL CONTE

E qual?

IL DOGE

L’udiste.

IL CONTE

È del Consiglio il voto
quello che udii?

IL DOGE

Sì: il crederete al Doge.

IL CONTE

Questo dubbio di me?...

IL DOGE

Già da gran tempo               60
non è più dubbio.

IL CONTE

E m’invitaste a questo?
E taceste finor?

IL DOGE

Sì, per punirvi
del tradimento, e non vi dar pretesti
per consumarlo.

IL CONTE

Io traditor! Comincio
a comprendervi alfin: pur troppo altrui                        65
creder non volli. Io traditor! Ma questo
titolo infame infimo a me non giunge:
ei non è mio; chi l’ha mertato il tenga.
Ditemi stolto: il soffrirò, che il merto:
tale è il mio posto qui; ma con null’altro                      70
lo cambierei, ch’egli è il più degno ancora.
Io guardo, io torno col pensier sul tempo
che fui vostro soldato: ella è una via
sparsa di fior. Segnate il giorno in cui
vi parvi un traditor! Ditemi un giorno                          75
che di grazie e di lodi e di promesse
colmo non sia! Che più? Qui siedo; e quando
io venni a questo che alto onor parea,
quando più forte nel mio cor parlava
fiducia, amor, riconoscenza, e zelo...                           80
Fiducia no: pensa a fidarsi forse
quei che invitato tra gli amici arriva?
Io veniva all’inganno! Ebben, ci caddi;
ella è così. Ma via; poiché gettato
è il finto volto del sorriso ormai,                                  85
sia lode al ciel; siamo in un campo almeno
che anch’io conosco. A voi parlare or tocca;
e difendermi a me: dite, quai sono
i tradimenti miei?

IL DOGE

Gli udrete or ora
dal Collegio segreto.

IL CONTE
Io lo ricuso.                               90
Ciò che feci per voi, tutto lo feci
alla luce del sol; renderne conto
tra insidiose tenebre non voglio.
Giudice del guerrier, solo è il guerriero.
Voglio scolparmi a chi m’intenda; voglio                    95
che il mondo ascolti le difese, e veda...

IL DOGE

Passato è il tempo di voler.

IL CONTE

Qui dunque
mi si fa forza? Le mie guardie!
(alzando la voce, si move per uscire)

IL DOGE

Sono
lunge di qui. Soldati!
(entrano genti armate)

Eccovi ormai
le vostre guardie.

IL CONTE

Io son tradito!

IL DOGE

Un saggio               100
pensier fu dunque il rimandarle: a torto
non si pensò che, in suo tramar sorpreso,
farsi ribelle un traditor potria.

IL CONTE

Anche un ribelle, sì: come v’aggrada
ormai potete favellar.

IL DOGE

Sia tratto                                   105
al Collegio segreto.

IL CONTE

Un breve istante
udite in pria. Voi risolveste, il vedo,
la morte mia; ma risolvete insieme
la vostra infamia eterna. Oltre l’antico
confin l’insegna del Leon si spiega                              110
su quelle torri, ove all’Europa è noto
ch’io la piantai. Qui tacerassi, è vero;
ma intorno a voi, dove non giunge il muto
terror del vostro impero, ivi librato,
ivi in note indelebili fia scritto                                     115
il benefizio e la mercé. Pensate
ai vostri annali, all’avvenir. Tra poco
il dì verrà che d’un guerriero ancora
uopo vi sia: chi vorrà farsi il vostro?
Voi provocate la milizia. Or sono                                 120
in vostra forza, è ver; ma vi sovvenga
ch’io non ci nacqui, che tra gente io nacqui
belligera, concorde: usa gran tempo
a guardar come sua questa qualunque
gloria d’un suo concittadin, non fia                             125
che straniera all’oltraggio ella si tenga.
Qui c’è un inganno: a ciò vi trasse un qualche
vostro nemico e mio: voi non credete
ch’io vi tradissi. È tempo ancora.

IL DOGE

È tardi.
Quando il delitto meditaste, e baldo                            130
affrontavate chi dovea punirlo,
tempo era allor d’antiveggenza.

IL CONTE

Indegno!
Tu mi rendi a me stesso. Tu credesti
ch’io chiedessi pietà, ch’io ti pregassi:
tu forse osasti di pensar che un prode                          135
pe’ giorni suoi tremava. Ah! tu vedrai
come si mor. Va; quando l’ultim’ora
ti coglierà sul vil tuo letto, incontro
non le starai con quella fronte al certo,
che a questa infame, a cui mi traggi, io reco.               140
(parte il Conte tra i Soldati)


SCENA II

Casa del Conte.

ANTONIETTA, e MATILDE


MATILDE

Ecco l’aurora; e il padre ancor non giunge.

ANTONIETTA

Ah! tu nol sai per prova: i lieti eventi
tardi, aspettati giungono, e non sempre.
Presta soltanto è la sventura, o figlia:
intraveduta appena, ella c’è sopra.                               145
Ma la notte passò: l’ore penose
del desio più non son: tra pochi istanti
quella del gaudio sonerà. Non puote
ei più tardar; da questo indugio io prendo
un fausto augurio: il consultar sì lungo                        150
tratto non han, che per fermar la pace.
Ei sarà nostro, e per gran tempo.

MATILDE

O madre,
anch’io lo spero. Assai di notti in pianto,
e di giorni in sospetto abbiam passati.
È tempo ormai che, ad ogni istante, ad ogni                155
novella, ad ogni susurrar del volgo
più non si tremi, e all’alma combattuta
quell’orrendo pensier più non ritorni:
forse colui che sospirate, or more.

ANTONIETTA

Oh rio pensier! ma almen per ora è lunge.                    160
Figlia, ogni gioia col dolor si compra.
Non ti sovvien quel dì che il tuo gran padre
tratto in trionfo, tra i più grandi accolto,
portò l’insegne de’ nemici al tempio?

MATILDE

Oh giorno!

ANTONIETTA

Ognun parea minor di lui;                         165
l’aria sonava del suo nome; e noi
scevre dal volgo, in alto loco intanto
contemplavam quell’uno in cui rivolti
eran tutti gli sguardi: inebbriato
il cor tremava, e ripetea: siam sue.                                170

MATILDE

Felici istanti!

ANTONIETTA

Che avevam noi fatto
per meritarli? A questa gioia il cielo
ci trascelse tra mille. Il ciel ti scelse,
il ciel ti scrisse un sì gran nome in fronte;
tal don ti fece, che a chiunque il rechi,                         175
n’andrà superbo. A quanta invidia è segno
la nostra sorte! E noi dobbiam scontarla
con queste angosce.

MATILDE

Ah! son finite... ascolta;
odo un batter di remi... ei cresce... ei cessa...
Si spalancan le porte... ah! certo ei giunge:                  180
o madre, io vedo un’armatura; è lui.

ANTONIETTA

Chi mai saria s’egli non fosse?... O sposo...
(va verso la scena)



SCENA III

GONZAGA, e dette.


ANTONIETTA

Gonzaga!... ov’è il mio sposo? ov’è?... Ma voi
non rispondete? Oh cielo! il vostro aspetto
annunzia una sventura.

GONZAGA
 
Ah che pur troppo                  185
annunzia il vero!
 
MATILDE
A chi sventura?

GONZAGA

O donne!
Perché un incarco sì crudel m’è imposto?

ANTONIETTA

Ah! voi volete esser pietoso, e siete
crudel: tremar più non ci fate. In nome
di Dio, parlate; ov’è il mio sposo?

GONZAGA
Il cielo                  190
vi dia la forza d’ascoltarmi. Il Conte...

MATILDE

Forse è tornato al campo?

GONZAGA
 
Ah! più non torna...
Egli è in disgrazia de’ Signori... è preso.

ANTONIETTA

Egli preso! perché?

GONZAGA
 
Gli danno accusa
di tradimento.

ANTONIETTA
Ei traditore?

MATILDE

Oh padre!                        195

ANTONIETTA

Or via, seguite: preparate al tutto
siam noi: che gli faran?

GONZAGA
 
Dal labbro mio
voi non l’udrete.

ANTONIETTA
 
Ahi l’hanno ucciso!

GONZAGA
 
Ei vive;
ma la sentenza è proferita.

ANTONIETTA

Ei vive?
Non pianger, figlia, or che d’oprare è il tempo.           200
Gonzaga, per pietà, non vi stancate
della nostra sventura; il ciel v’affida
due derelitte: ei v’era amico: andiamo,
siateci scorta ai giudici. Vien meco,
poverella innocente: oh! vieni: in terra                         205
c’è ancor pietà: son sposi e padri anch’essi.
Mentre scrivean l’empia sentenza, in mente
non venne lor ch’egli era sposo e padre.
Quando vedran di che dolor cagione
è una parola di lor bocca uscita,                                   210
ne fremeranno anch’essi; ah! non potranno
non rivocarla: del dolor l’aspetto
è terribile all’uom. Forse scusarsi
quel prode non degnò, rammentar loro
quanto per essi oprò; noi rammentarlo                         215
sapremo. Ah! certo ei non pregò; ma noi,
noi pregheremo.
(in atto di partire)

GONZAGA

Oh ciel, perché non posso
lasciarvi almen questa speranza! A preghi
loco non c’è; qui i giudici son sordi,
implacabili, ignoti: il fulmin piomba,                            220
la man che il vibra è nelle nubi ascosa.
Solo un conforto v’è concesso, il tristo
conforto di vederlo, ed io vel reco.
Ma il tempo incalza. Fate cor; tremenda
è la prova; ma il Dio degl’infelici                                 225
sarà con voi.

MATILDE
 
Non c’è speranza?

ANTONIETTA

Oh figlia!
(partono)


SCENA IV

Prigione.


IL CONTE

A quest’ora il sapranno. Oh perché almeno
lunge da lor non moio! Orrendo, è vero,
lor giungeria l’annunzio; ma varcata
l’ora solenne del dolor saria;                                        230
e adesso innanzi ella ci sta: bisogna
gustarla a sorsi, e insieme. O campi aperti!
o sol diffuso! o strepito dell’armi!
o gioia de’ perigli! o trombe! o grida
de’ combattenti! o mio destrier! tra voi                       235
era bello il morir. Ma... ripugnante
vo dunque incontro al mio destin, forzato,
siccome un reo, spargendo in sulla via
voti impotenti e misere querele?
E Marco, anch’ei m’avria tradito! Oh vile                   240
sospetto! oh dubbio! oh potess’io deporlo
pria di morir! Ma no: che val di novo
affacciarsi alla vita, e indietro ancora
volgere il guardo ove non lice il passo?
E tu, Filippo, ne godrai! Che importa?                         245
Io le provai quest’empie gioie anch’io:
quel che vagliano or so. Ma rivederle!
ma i lor gemiti udir! l’ultimo addio
da quelle voci udir! tra quelle braccia
ritrovarmi... e staccarmene per sempre!                        250
Eccole! O Dio, manda dal ciel sovr’esse
un guardo di pietà.


SCENA V


ANTONIETTA, MATILDE, GONZAGA, e il CONTE


ANTONIETTA

Mio sposo!...

MATILDE
 
Oh padre!

ANTONIETTA

Così ritorni a noi? Questo è il momento
bramato tanto?...

IL CONTE

O misere, sa il cielo
che per voi sole ei m’è tremendo. Avvezzo                 255
io son da lungo a contemplar la morte,
e ad aspettarla. Ah! sol per voi bisogno
ho di coraggio; e voi, voi non vorrete
tormelo, è vero? Allor che Dio sui boni
fa cader la sventura, ei dona ancora                             260
il cor di sostenerla. Ah! pari il vostro
alla sventura or sia. Godiam di questo
abbracciamento: è un don del cielo anch’esso.
Figlia, tu piangi! e tu, consorte!... Ah! quando
ti feci mia, sereni i giorni tuoi                                       265
scorreano in pace; io ti chiamai compagna
del mio tristo destin: questo pensiero
m’avvelena il morir. Deh ch’io non veda
quanto per me sei sventurata!

ANTONIETTA

O sposo
de’ miei bei dì, tu che li festi; il core                            270
vedimi; io moio di dolor; ma pure
bramar non posso di non esser tua.


IL CONTE

Sposa, il sapea quel che in te perdo; ed ora
non far che troppo il senta.

MATILDE
 
Oh gli omicidi!

IL CONTE

No, mia dolce Matilde; il tristo grido                           275
della vendetta e del rancor non sorga
dall’innocente animo tuo, non turbi
quest’istanti: son sacri. Il torto è grande;
ma perdona, e vedrai che in mezzo ai mali
un’alta gioia anco riman. La morte!                             280
Il più crudel nemico altro non puote
che accelerarla. Oh! gli uomini non hanno
inventata la morte: ella saria
rabbiosa, insopportabile: dal cielo
essa ci viene; e l’accompagna il cielo                           285
con tal conforto, che né dar né torre
gli uomini ponno. O sposa, o figlia, udite
le mie parole estreme: amare, il vedo,
vi piombano sul cor; ma un giorno avrete
qualche dolcezza a rammentarle insieme.                     290
Tu, sposa, vivi; il dolor vinci, e vivi;
questa infelice orba non sia del tutto.
Fuggi da questa terra, e tosto ai tuoi
la riconduci: ella è lor sangue; ad essi
fosti sì cara un dì! Consorte poi                                   295
del lor nemico, il fosti men; le crude
ire di Stato avversi fean gran tempo
de’ Carmagnola e de’ Visconti il nome.
Ma tu riedi infelice; il tristo oggetto
dell’odio è tolto: è un gran pacier la morte.                 300
E tu, tenero fior, tu che tra l’armi
a rallegrare il mio pensier venivi,
tu chini il capo: oh! la tempesta rugge
sopra di te! tu tremi, ed al singulto
più non regge il tuo sen; sento sul petto                       305
le tue infocate lagrime cadermi;
e tergerle non posso: a me tu sembri
chieder pietà, Matilde: ah! nulla il padre
può far per te; ma pei diserti in cielo
c è un Padre, il sai. Confida in esso, e vivi                   310
a dì tranquilli se non lieti: Ei certo
te li prepara. Ah! perché mai versato
tutto il torrente dell’angoscia avria
sul tuo mattin, se non serbasse al resto
tutta la sua pietà? Vivi, e consola                                 315
questa dolente madre. Oh ch’ella un giorno
a un degno sposo ti conduca in braccio!
Gonzaga, io t’offro questa man che spesso
stringesti il dì della battaglia, e quando
dubbi eravam di rivederci a sera.                                 320
Vuoi tu stringerla ancora, e la tua fede
darmi che scorta e difensor sarai
di queste donne, fin che sian rendute
ai lor congiunti?

GONZAGA
 
Io tel prometto.

IL CONTE

Or sono
contento. E quindi, se tu riedi al campo,                      325
saluta i miei fratelli, e dì lor ch’io
moio innocente: testimon tu fosti
dell’opre mie, de’ miei pensieri, e il sai.
Dì lor che il brando io non macchiai con l’onta
d’un tradimento: io nol macchiai: son io                      330
tradito. E quando squilleran le trombe,
quando l’insegne agiteransi al vento,
dona un pensiero al tuo compagno antico.
E il dì che segue la battaglia, quando
sul campo della strage il sacerdote,                              335
tra il suon lugubre, alzi le palme, offrendo
il sacrifizio per gli estinti al cielo,
ricordivi di me, che anch’io credea
morir sul campo.

ANTONIETTA
 
Oh Dio, pietà di noi!

IL CONTE

Sposa, Matilde, ormai vicina è l’ora;                            340
convien lasciarci... addio.

MATILDE
 
No, padre...

IL CONTE
 
Ancora
una volta venite a questo seno;
e per pietà partite.

ANTONIETTA

Ah no! dovranno
staccarci a forza.
(si sente uno strepito d’armati)

MATILDE
 
Oh qual fragor!

ANTONIETTA
 
Gran Dio!
(s’apre la porta di mezzo, e s’affacciano genti armate; il capo di esse s’avanza verso il Conte: le due donne cadono svenute)

IL CONTE

O Dio pietoso, tu le involi a questo                              345
crudel momento; io ti ringrazio. Amico,
tu le soccorri, a questo infausto loco
le togli; e quando rivedran la luce
dì lor... che nulla da temer più resta.




FINE DELLA TRAGEDIA

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