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Non c’erano stelle in cielo, solo delle nuvole che si rincorrevano. Attraversammo una zona di colline basse. La strada era fiancheggiata da alte siepi, oltre le quali si stendevano i vigneti ben curati, disseminati qua e là da palme selvatiche e cipressi.
Arrivammo in silenzio alle Palisades e imboccammo la strada della scogliera. Un vento freddo soffiava di lato, facendo sbandare l’auto. Sotto di noi ruggiva l’oceano. Dei banchi di nebbia si muovevano dal mare verso terra, come un esercito di fantasmi striscianti sul ventre. Le ondate aggredivano la riva con i loro pugni bianchi, si ritiravano e attaccavano di nuovo. Ogni volta che un’onda si ritraeva, sembrava che la costa si allargasse in un sorriso. Scendemmo in seconda lungo i tornanti, sull’asfalto nero che traspariva lambito da lingue di nebbia. Respirammo a fondo l’aria pulita, senza polvere.
Fermò la macchina su un’interminabile distesa di sabbia bianca. Restammo seduti a guardare il mare. Faceva caldo lì, sotto la scogliera. Mi toccò la mano. - Perché non mi insegni a nuotare? - disse.
- E’ pericoloso qui, - le risposi.
C’era alta marea e le onde si susseguivano veloci. Si formavano a un centinaio di metri dalla riva e poi precipitavano verso terra, una dietro l’altra. Le guardammo esplodere contro la spiaggia, rombando e scagliando in aria arabeschi di spuma.
- Per imparare a nuotare bisogna che l’acqua sia calma, - le dissi.
Scoppiò a ridere e comincio a svestirsi. La sua pelle era naturalmente bruna. Io, invece, ero bianco e spettrale. Avevo una lieve sporgenza all’altezza dello stomaco; trattenni il respiro per nasconderla. Fissò il mio biancore, mi scrutò i lombi e le gambe, e sorrise. Fui felice quando si avviò verso l’acqua.
La sabbia era soffice e calda. Ci mettemmo seduti di faccia al mare e parlammo di nuoto. Le spiegai rudimenti. Lei si sdraiò bocconi e prese ad agitare braccia e gambe. La sabbia schizzava sulla faccia e lei mi imitava senza entusiasmo. Poi si rizzò a sedere.
- Non mi va di imparare a nuotare, - disse.
Entrammo in acqua tenendoci per mano, incrostati di sabbia. All’inizio provai un brivido di freddo, poi mi ci abituai. Era la prima volta che facevo un bagno nell’oceano. Presi le onde di petto finché l’acqua non mi coprì le spalle, poi cercai di nuotare. Le onde mi alzavano. Comincia a tuffarmi sotto i cavalloni, che mi rovesciavano sopra senza farmi male. Stavo imparando. Quando li vedevo arrivare, mi mettevo sulla cresta ed essi mi trasportavano fino a riva.
Intanto tenevo d’occhio Camilla. Avanzava nell’acqua fino al ginocchio e, quando vedeva arrivare un’onda, si ritirava di corsa. Poi ricominciava, strillando divertita. A un tratto fu colpito da un frangente, lanciò un urlo e scomparve. Un attimo dopo ricomparve, ridendo. Le gridai di fare attenzione, ma lei avanzò traballando verso un cresta bianca, che la sollevò, scaraventandola fuori di vista. La vidi rotolare come un casco di banane. Si rialzò e tornò verso riva con il corpo luccicante e le mani nei capelli. Nuotai finché mi sentii stanco, poi uscii dall’acqua. Avevo gli occhi che mi bruciavano per il sale. Mi buttai sulla sabbia, esausto. Quando mi tornarono le forze, mi tirai su a sedere con una gran voglia di fumare una sigaretta. Camilla era sparita. Andai alla macchina pensando di trovarla lì, ma non c’era. Mi precipitai verso riva e mi misi a scrutare tra i vortici schiumosi. La chiamai.
Allora la sentii gridare. La sua voce veniva da lontano, oltre il punto in cui formavano i cavalloni, dove i banchi di nebbia nascondevano l’acqua appena mossa. Doveva essere a un centinaio di metri dalla riva. - Aiuto!- gridò di nuovo. Entrai in acqua, affrontando le onde con la spalla, e cominciai a nuotare. Il fragore era tale che non riuscivo più a sentirla. - Sto arrivando! – urlai a più riprese, finché dovetti smettere per non sprecare le forze. Avevo imparato a superare i cavalloni tuffandomi sotto la cresta, ma le ondate più piccole mi confondevano, mi colpivano in faccia, facendomi bere. Finalmente mi ritrovai oltre la barriera dei frangenti, dove l’acqua si rompeva in piccole onde che mi lambivano la bocca. Aveva smesso di gridare. Mi tenni a galla senza nuotare, in attesa di un nuovo grido, ma non udii nulla. Mi misi a urlare. La mia voce era debole, come se provenisse dalle profondità marine.
Improvvisamente mi sentii esausto. Stentavo a stare a galla e cominciai a bere. Mi misi a pregare, gemendo e lottando con l’acqua, anche se sapevo che non avrei dovuto farlo. Qua fuori, il mare era calmo; dalla spiaggia, invece, giungeva il rombo dei cavalloni che si rompevano. Chiamai, attesi, chiamai di nuovo. Non udii nulla, se non lo sciacquio prodotto dalle mie braccia e il rumore della maretta. Tutt’a un tratto le dita del mio piede destro si bloccarono. Lanciai un calcio e sentii una fitta di dolore saettarmi fin nella coscia. Volevo vivere. Dio, non prendermi proprio adesso! Mi misi a nuotare alla cieca verso riva.
Poi mi ritrovai tra i cavalloni e fui di nuovo assordato dal fragore. Avevo la sensazione che fosse ormai troppo tardi. Non riuscivo più a nuotare, le braccia mi pesavano per la stanchezza e la gamba destra mi doleva terribilmente. Dovevo riuscire a tutti i costi a tenere la testa fuori dall’acqua, ma mi sentivo risucchiare sotto le onde che mi ritraevano. E così questa era la fine, la fine di Camilla e di Arturo Bandini; eppure, anche in quel momento, era come se stessi scrivendo, come se stessi registrando tutto sulla carta. Davanti agli occhi avevo il foglio dattiloscritto, mentre fluttuavo, sbattuto dalle onde, senza riuscire a raggiungere la costa, sicuro che non ne sarei uscito vivo. Improvvisamente i miei piedi toccarono il fondo, ma ero troppo debole per approfittarne e troppo occupato a cercare di schiarirmi le idee per ricomporre mentalmente la scena, evitando gli eccessi descrittivi. L’ondata successiva mi travolse, gettandomi dove l’acqua era alta solo trenta centimetri, chiedendomi se sarei riuscito a immortalare l’episodio in una poesia. Pensai a Camilla, là in mezzo a quell’inferno, e mi misi a piangere, notando con stupore che le mie lacrime erano più salate del mare. Ma non potevo starmene lì inerte, dovevo cercare aiuto, così mi alzai e mi diressi barcollando verso la macchina. Mi battevano i denti dal freddo.
Mi voltai a guardare l’oceano e finalmente la scorsi, a una ventina di metri di distanza, che avanzava verso riva con l’acqua fino alla vita. Rideva a più non posso, felice di quello che doveva sembrarle uno splendido scherzo ma, quando la vidi tuffarsi sotto un cavallone con l’abilità e la grazia di una foca, non mi divertii per niente. Mi diressi verso di lei, sentendomi tornare le forze a ogni passo, e quando la raggiunsi, la sollevai di peso, alzandola sopra le spalle, senza badare alle sua grida, incurante delle sue unghie che mi graffiavano la testa e mi strappavano i capelli. La sollevai finché non ebbi le braccia tese e poi la scaraventai in un pozzo d’acqua non più fonda di mezzo metro. Atterrò con un tonfo che le mozzò il respiro. Mi avvicinai di nuovo, le afferrai i capelli con le mani e le strofinai la faccia nella sabbia bagnata. Poi la lasciai lì, a strisciare sulle mani e sui piedi, e tornai alla macchina. Sapevo che c’erano delle coperte sotto il sedile posteriore. Le tirai fuori, mi ci avvolsi e mi sdraiai sulla sabbia calda.
Poco dopo arrivò, arrancando nella sabbia. Rimase in piedi davanti a me, lucente e gocciolante, girando orgogliosa su se stessa per mostrarmi la sua nudità.
- Ti piaccio ancora?
Le lanciai un’occhiata. Non riuscivo a parlare, e mi limitai ad annuire, sogghignando. Mise i piedi sulla coperta e mi disse di spostarmi. Le feci posto e le si infilò sotto. Era liscia e fresca. Mi disse di abbracciarla e io la abbracciai, e lei mi baciò con le labbra umide e fredde. Rimanemmo così a lungo e io ero preouccpato, timoroso, senza desiderio. Una specie di fiore grigio si schiuse tra di noi, un pensiero che, quando prese forma, parlò dell’abisso che ci separava. Ero confuso, ma la sentivo in attesa. Le appoggiai le mani sul ventre e sulle gambe, cercai il mio desiderio, frugai scioccamente in cerca della mia passione, mi sforzai invano di trovarla mentre lei attendeva. Mi rotolai, strappandomi i capelli e implorando che si manifestasse, ma niente, non c’era niente. In testa non avevo altro che la lettera di Hackmuth e l’abbozzo di cose non scritte, ma dentro di me non c’era passione, solo paura, vergogna e umiliazione. Allora cominciai ad accusarmi e a maledirmi, e desiderai di alzarmi e tornarmene in acqua. Lei sentì il mio distacco. Balzò a sedere sogghignando e prese ad asciugarsi i capelli nella coperta.
- Credevo di piacerti, - mi disse.
Non riuscii a risponderle. Mi strinsi nelle spalle e mi alzai. Ci rivestimmo e ripartimmo per Los Angeles. Durante il viaggio non ci scambiammo neanche una parola. Si accese una sigaretta e mi guardò in modo strano, imbronciata. Mi soffiò il fumo in faccia. Le tolsi di bocca la sigaretta e la buttai via. Se ne accese un’altra e aspirò languidamente, divertita e sprezzante. Sentii di odiarla.
L’alba si affacciò alle montagne, verso est, e sbarre dorate di luce tagliarono il cielo come fari. Tirai fuori la lettera di Hackmuth e la rilessi. A quest’ora Hackmuth stava entrando nel suo ufficio, là a New York, e in qualche angolo di quell’ufficio c’era il manoscritto di Le colline perdute. L’amore non era tutto. Le donne non erano tutto. Uno scrittore doveva conservarsi le energie.
Arrivammo in città. Le dissi dove abitavo.
- Bunker Hill? - commentò. - E’ il posto giusto per te.
- E’ perfetto, - ribattei, - Nel mio albergo non sono ammessi i messicani.
Ci restammo mali entrambi. Fermò la macchina davanti all’albergo e spense il motore. Indugiai un attimo, domandandomi se fosse rimasto qualcos’altro da dire, ma non trovai niente. Smontai, le rivolsi un cenno di saluto e mi avviai verso l’ingresso. Sentii il suo sguardo penetrarmi come una lama tra le scapole. Quando raggiunsi la porta mi chiamò. Tornai indietro.
- Non mi dai nemmeno un bacio?
La baciai.
- Non così.
Mi circondò il collo con le braccia, poi mi attirò il viso verso di sé e affondo i denti nel mio labbro inferiore. Mi fece male e io mi dibattei finché riuscii a liberarmi. Rimase lì con un braccio appoggiato allo schienale, sorridendo e seguendomi con lo sguardo. Tirai fuori il fazzoletto e mi tamponai il labbro. Lo guardai; era macchiato di sangue. Mi avviai lungo il corridoio buio, fino alla mia stanza. Mentre chiudevo la porta, il desiderio che non avevo provato prima mi assalì, martellandomi nelle tempie e facendomi prudere le dita. Mi gettai sul letto e lacerai il cuscino con le mani.
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John Fante
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