PERSONAGGI
Il signor PENINI
ELENA, sua moglie
ADOLFO
ROSA
L'azione si svolge in una stanza riccamente ammobiliata con porta d'entrata di fondo. A sinistra dello spettatore c'è la porta che conduce alla stanza di Elena e un poco piú verso il fondo una porta che conduce al suo gabinetto da lavoro.
SCENA PRIMA
Il signor PENINI e ELENA
ELENA (sorte dalla porta a destra, è agitatissima). No! No! No! (Siede.)
PENINI (che le viene dietro col sigaro in mano e calmo). Ma perché?
ELENA. Oh! perché Venezia non mi piace!
PENINI. Non ti piace? Io credeva invece che fosse il tuo ideale. Al viaggio di nozze tu avresti voluto rimanere in quella città il tempo che avevamo destinato all'intero viaggio. Mi facevi correre tutto il giorno dietro al cicerone, in cerca di cose che a me non interessavano punto; quadri, puttini nudi, chiese che avevano tutte, poco su poco giú, il medesimo aspetto. Tu ti entusiasmavi, io sopportava quella tortura per amore tuo. Piazza San Marco ed il caffè Florian mi piacevano ma tu non mi lasciavi mai starci in pace. È vero che dopo tutto, l'Italia, città per città, apportò a te il medesimo piacere ed a me la medesima tortura, ma Venezia specialmente.
ELENA. Rimanere a Venezia otto, dieci, venti giorni, un mese, sí. Di piú no, stabilirvisi mai piú; piuttosto morire. In quelle viuzze ove non si può tenere aperto l'ombrello se piove io non potrei vivere; mi mancherebbe l'aria. Anche tutta quell'acqua, mi annoia, quei ponti che possono cadere, tutta la città è pericolante e può da un momento all'altro andare a picco come un naviglio.
PENINI. Ohibò!
ELENA. Capisco che è un'idea mia ma non mi sentirei sicura. E poi quei veneziani che fanno tutti i fatti loro in strada. Vi dormono persino! (Con ira.) Davvero che io ne ho visto uno dormire, ma profondamente.
PENINI. Se vuoi vederne anche qui dei dormienti in strada non hai che da fare quattro passi fuori della villa.
ELENA. Insomma io a Venezia non vengo.
PENINI. Il tuo volere conta relativamente.
ELENA. Se proprio lo vuoi, vacci tu! io rimango.
PENINI (dopo una piccola pausa, scherzando). Ehi! Elena diventi matta? È tuo dovere seguirmi; se io volessi potrei costringerti con l'aiuto della legge, (ridendo) ma scommetto che riuscirò a convincerti altrimenti. Senti, ti piace di vivere bene, di mangiare cose buone e in buona misura, dormire in letto soffice? Tu non lo dici ma so che ti piace ed è perciò che devi venire a Venezia. Noi non siamo poveri ma non tanto ricchi da poter vivere come viviamo. Tu con quella toilette, io senza guadagnare un centesimo… un centesimo! Mi sono dato tutta la cura possibile, ho seccato amici e non amici; da tre anni che siamo sposati, ti posso mostrare il mio libro senserie, ho guadagnato tanto da pagare i sigari che fumo.
ELENA. Bravo!
PENINI. Non è colpa mia. La piazza ha piú sensali che affari; di ogni dieci persone una è sensale.
ELENA. A Venezia sarà la stessa cosa.
PENINI. Non lo so ma se ci vado ho il pane sicuro e forse qualche cosa di piú. Velfi e figlio di qui mi fanno loro rappresentante. A Venezia non dovrò perdere tutta la giornata a correre dietro agli affari e potrò cosí dedicarmi un poco di piú a te, moglietta mia che veramente ho trascurato.
ELENA (superba). Io non me ne sono mai lagnata.
PENINI. E non potevi lagnartene perché sapevi che io era occupato con qualche cosa di piú serio.
ELENA. Essendo io per te tanto poco importante da divenirti pensiero poco serio potrai lasciarmi qui.
PENINI (abbracciandola). Ma tu mi sei la cosa piú seria di questo mondo.
ELENA (respingendolo fredda). A Venezia non vengo, è inutile… almeno per il momento (come se avesse ragionato da sé).
PENINI. Per il momento! Meno male! Non si tratta mica di partire subito! Io conosco le donne e ho provveduto acciocché abbi tempo di salutare le tue amiche, mettere ordine con tutta calma nei tuoi fronzoli, andare a vedere tutta la città prima di abbandonarla per tanto tempo. Io aveva già deciso di non partire che alla fine… alla fine… alla fine…
ELENA. Ebbene?
PENINI (calmo). Alla fine della prossima settimana.
ELENA. Alla fine della prossima settimana? Ah! mai piú! (Molto commossa.) Da vero, da vero che non vengo. Io mi ritiro presso mamma e ti lascio partire solo! Io non vengo!
PENINI. E come ho da fare? A questa sola condizione ho ottenuto il mio impiego.
SCENA SECONDA
ROSA e DETTI
ROSA. Scusino, ho da prontare la cena?
PENINI. Abbiamo cenato fuori. Cioè io.
ELENA. Io non ceno.
PENINI. A me porta una tazza di caffè. (Rosa via.)
PENINI. Fammi il piacere di non piangere. Per ora mostrami il tuo bel volto allegro come l'avevi il primo anno. Non so perché l'abbi smesso poi. Lo volle forse la moda?
ELENA (alza le spalle).
PENINI. Io domando per sapere, non mica per irritarti.
ELENA (piangendo). Mi vedi tanto afflitta che potresti risparmiarmi i tuoi scherzi.
PENINI. Scherzi? Non sono scherzi! E poi hai torto di essere afflitta! C'è tempo ancora! Nel fratempo possono morire i miei principali padre o figlio o posso morire io o tu e l'affare se ne va o lo mando.
ELENA. Grazie. Davvero che fo meglio ad andarmene a letto. (Via.)
PENINI. Ma Elena…
ROSA (con il caffè). Ecco il caffè!
PENINI. C'è zucchero?
ROSA. Lo ha qui!
PENINI. Senti, che umore ha la signora quando io non sono in casa?
ROSA. Che umore?
PENINI. Ride, piange, si adira?
ROSA. Si adira di spesso con me.
PENINI. Questa è una risposta. Me ne occorrono tre. Ride?
ROSA. Ora ride… ora non ride.
PENINI. E piange?
ROSA. Sa, signore, non dica alla signora che io gliel'ho detto. Adesso, in corridoio, mi sono accorta che la signora piangeva.
PENINI (ammirando). Brava!
ROSA. Comandi?
PENINI. Nulla, nulla, puoi andartene. Di' alla signora che venga un solo istante a salutarmi. Devo uscire! Aspetta un momento, intelligentissima donna. (Togliendo dal tavolo una busta da lettere colossale.) Che cosa ha ricevuto mia moglie in questa busta?
ROSA. Dal signor Adolfo ma non so che cosa.
PENINI (ridendo). Ah! la commedia. (Leggendo il frontispizio di un libro.) Postuma… Lorenzo Stecchetti. Chi porta in casa mia questi libracci?
ROSA (spaventata). Il signor Adolfo l'ha prestato alla signora. Io non so leggere.
PENINI (adiratissimo vedendo una rosa sul petto di Rosa). Te l'ho detto già che non voglio vengano prese rose dal giardino. Se il padrone di casa se ne accorge si adira con me.
ROSA (dice e poi scappa). Io non l'ho presa in giardino; l'ho presa da un mazzo di fiori che il signor Adolfo ha mandato alla signora.
SCENA TERZA
PENINI poi ELENA
PENINI (da sé). Il signor Adolfo! (Pensieroso.)
ELENA. Volevi dirmi ancora qualche gentilezza.
PENINI (con voce dolce). Ti avevo pregata di non togliere altri fiori dal giardino! Ne hai i piú belli sempre fra' capelli.
ELENA. Me li ha donati il signor Adolfo.
PENINI. Ah! il signor Adolfo! (Dopo una piccola pausa, esitante.) Non so se è proprio necessario che io sorta questa sera. (Ridendo.) A proposito del signor Adolfo. Come ti piace la sua commedia?
ELENA. Non ne ho letti che due atti e non leggerò gli altri due. Non mi piace.
PENINI (contento). Vedi povera moglie mia che impicci che ti prendi. Ad onta della noia ti toccherà sorbirtela tutta e poi dirne bene.
ELENA. No! il signor Adolfo è un giovane di tanto spirito che senza esitazioni gli dirò la mia opinione.
PENINI. Lui è spiritoso e la commedia è cattiva? Non è una contraddizione?
ELENA. Anche i piú grandi hanno sbagliato.
PENINI (affettando indifferenza). Il signor Adolfo ha la fronte molto bassa… schiacciata. (Elena alza le spalle.) Io sorto anzi! Puoi essere tranquilla che prima della mezzanotte non ritorno.
ELENA (con tutta tranquillità mette un lume sul davanzale). Come, tranquilla?
PENINI (guarda, comprendendo, il lume sul davanzale). Voglio dire che se anche non ritornassi prima della mezzanotte non devi inquietarti. Addio. (La bacia in fronte e via.)
ELENA. Addio, Rosa! (Chiamando.)
ROSA. Comanda signora!
ELENA. Accompagna prima col lume mio marito e chiudi bene la porta. Poi sta attenta se qualcuno suona di andare ad aprire. (Si sente chiudere il portone della campagna.) To'! mio marito è sortito da solo. Se venisse qualcuno… se venisse qui il signor Adolfo introducilo qui. (Si guarda nello specchio.) Io vado in camera mia e ritorno subito.
SCENA QUARTA
Il signor PENINI e ROSA
ROSA (Spaventata). Il Signore!
PENINI. Silenzio, sciocca! (Le mette una moneta in mano.) Voglio fare uno scherzo a mia moglie. Non attende essa qualcuno?
ROSA. Sí, il signor Adolfo.
PENINI. Ti ha ordinato di condurlo qui?
ROSA. Sí, signore!
PENINI. Io mi nasconderò in quel gabinetto. (Il campanello viene scosso.) Potrebbe avvenire che lo scherzo andasse male ed allora sortirei dalla finestra. Tu non cercarmi e se io non ne parlo non dire nulla alla tua signora. Capisci? (Le dà un'altra moneta.) Altrimenti ti rimando alla tua campagna. (Il campanello suona.)
ROSA (guardando la moneta). Oh! grazie.
(Penini entra nel gabinetto; suona il campanello.)
PENINI (guardando fuori del gabinetto Rosa che è immersa nella contemplazione della moneta). Imbecille! non senti il campanello? (Rosa scappa, dopo una piccola pausa si sente di nuovo il campanello.)
SCENA QUINTA
ELENA, poi ADOLFO e ROSA
ELENA. Rosa, Rosa, ma Rosa! (Guarda dalla finestra e si pacifica, prende il lume e lo pone sul tavolo, si guarda nello specchio; deve essersi nel frattempo cambiato vestito. A pena entra Rosa senza prima salutare Adolfo la sgrida.) Non sentivi il campanello? (A Adolfo.) Io l'ho sentito due volte e credeva che dopo la prima, con la solita calma della signorina, si fosse mossa ad aprirle. Scusi, sa.
ADOLFO. Scusi me, anzi, che sono un poco impaziente! (Rosa sorte.)
ADOLFO (le stringe la mano e si china per baciarla, ella gliela ritira). Volevo soltanto guardarla, ella poteva lasciarmela; era uno studio che da sé potrebbe completare un'educazione artistica.
ELENA. Grazie! Avevo paura anzi di rovinarle il gusto.
ADOLFO (ridendo). Certamente perché a noi veristi piacciono piú le mani ossute dei quasi scheletri. (Le offre da sedere e le si siede accanto.)
ELENA. Lei mi fece un piacere che non può credere, venendo; sono sola affatto. Per curiosità soltanto le chiedo qual buon vento la conduca a quest'ora.
ADOLFO (rimane un istante sorpreso.) Passavo di qua. Ho veduto lume (accentuando) sulla sua finestra e sono venuto. Ho fatto bene a quanto lei mi disse.
ELENA (con complimento). Benissimo!
ADOLFO (dopo una piccola pausa). Eccoci di nuovo signora nel tono di conversazione, quel noiosissimo che veramente stona, qui, in questa camera, in un duetto.
ELENA. Duetto?
ADOLFO. Mi comprenda, ossia, voglio spiegarmi meglio. Sa perché esiste l'etichetta? Esiste in riguardo ai terzi. Perché, vede, una parola piú franca, un accento sincero non offende mai la persona alla quale è diretto. È il terzo, l'invidioso, che se ne offende. Qui di terzi non ne vedo.
ELENA (ridendo). Lei parla bene ma ho paura che dimentichi il significato che solitamente si dà a duetto.
ADOLFO. Via, signora Elena, non mi ricacci nuovamente da un terreno che ho conquistato tanto difficilmente. Io credeva di essere entrato nella sua intimità e perciò la parola duetto mi sembrava adatta.
ELENA. Insomma lei è tanto abile che talvolta riesce a divenire poco accorto. Entra, si scusa di aver suonato il campanello, loda le mie mani, non parla francamente del lume che ho posto là sulla finestra per chiamarla; ha seguito l'invito.
ADOLFO. Grazie della buona lezione. (Le bacia la mano piú volte.)
ELENA. Basta! (Dopo una piccola pausa.) Io parto la prossima settimana.
ADOLFO. Ah! Per pochi giorni?
ELENA. Per sempre!
ADOLFO. Lei scherza?
ELENA. Non scherzerei di cosa tanto seria. Mio marito va a stabilirsi a Venezia ed io debbo seguirlo.
ADOLFO. Ma questa è una disgrazia per me!
ELENA. Seriamente?
ADOLFO. Oh! Signora! ne può dubitare? (Le bacia nuovamente la mano ch’essa dolcemente ritira.) Tanto grande disgrazia! Io non posso seguirla!
ELENA. Senta! abbiamo stabilito di parlarci francamente. Per me è forse una fortuna che parto.
ADOLFO (ridendo e tentando di attirarla a sé). Causa mia signora? Oh! dica di sí! la scongiuro.
ELENA (ritirandosi). La prego di non toccarmi. Lei pensa che io abbia confessato di partire volentieri per una semiconfessione da civetta. Oh! via! lei mi fa torto! Abbiamo detto di parlare francamente; io parlo francamente e sinceramente. Lei è un giovinetto, piú giovine di me e so che cosa pensi avvicinandomisi; mi creda, io ho pensieri piú seri lasciandola avvicinare. Lei, giovinetto, non provò mai un'ora di quello sconforto, di quella sfiducia che fa dire a se stessi: Io sono inutile, a me e agli altri. Forse non comprenderà perciò quello che io senta.
ADOLFO. Oh! me lo dica! di certo la comprenderò.
ELENA. Dovrebbe avere già compreso! A che cosa servo io in questa vita? A chi? Ragazzina, io pensavo che la vita avesse ad essere ben diversa per me. Mi vedevo attiva, tendente a qualche scopo, o aiutando qualcuno a raggiungere qualche scopo. Già allora sentiva che quando mi vedeva troppo utile, necessaria, era una sciocca illusione da cervello giovine. Ma cosí, cosí, inutile, vivente solo per vivere, no, non poteva mai credere di divenire.
ADOLFO (sorridendo). In verità, non so risolvermi a vederla inutile.
ELENA. E a chi sono utile? A me? Io mi annoio, mi annoio tanto, sempre. Figli, la natura mi volle negare. Mio marito, per me, a dirittura non esiste che in quanto mi annoia. (Si sente un piccolo rumore nel gabinetto.)
ADOLFO. Sia utile a me se ha bisogno di essere utile a qualcuno. Ma non sa che tutto il mondo desidererebbe di avere vantaggi da lei? (Le bacia la mano.) Senta, io il suo sentimento non lo provai giammai ma me ne posso figurare l'intensità da un sentimento simile che io provai di spesso e provo. Io sento il bisogno di venir appoggiato, di venir aiutato, di venir amato infine. Io lavoro, penso, e non ho nessuno che a questi miei lavori, pensieri, prenda parte. Sarà sentimento da fanciullo ma io con orrore mi avvio alla carriera che mi sono scelta perché penso che il giorno in cui sdrucciolassi, diventassi ridicolo, non vi sarebbe nessuno per il quale rimanessi non ridicolo, stimabile.
ELENA. È meglio che io parta perché quest'uno di cui lei parla sarei potuta essere io.
ADOLFO. E perciò è meglio che lei parta?
ELENA. Sí (dopo una piccola pausa). Io so con quali intenzioni lei si avvicinò a me; non mi faccio illusioni.
ADOLFO (caldo). Io queste intenzioni non gliele ho nascoste. So che per lei esse sono un'offesa. Naturalmente! Lei prova per me amicizia, ma nemmeno l'ombra del sentimento che io provo per lei.
ELENA (con calore). Naturalmente, io non ho la parola facile quanto lei.
ADOLFO (allacciandola). Ma il sentimento? Ma il cuore? (Elena guarda a terra, egli si alza e guarda le porte per vedere se sono chiuse, poi le si avvicina, le mette un braccio intorno alla vita.)
ELENA. Adolfo!
ADOLFO. Hai letto la mia commedia?
ELENA. Ne ho letto i due primi atti! Lasciami te ne prego! (Si svincola.)
ADOLFO (raddrizzandosi). E come ti sono piaciuti?
ELENA. Affatto!
ADOLFO. Come affatto? Perché?
ELENA. Davvero che da quella commedia si direbbe che l'autore è un pazzo. Come si può pensare che il pubblico rimanga tante ore a vedere quei personaggi che vanno su e giú per la scena al solo scopo di dirsi sciocchezze? (Con convinzione.) Devi cambiare metodo, sai! Io ti parlo franca. Manca d'intreccio eppoi è sucida. Con il tempo non dubito che riuscirai a fare qualche cosa, ma intanto (allegramente) quella non vale nulla.
ADOLFO (sforzandosi a ridere). Sai che per giudicare una commedia bisogna intendersene.
ELENA (lo guarda un momento sorpresa e offesa). Io non me ne intenderò! Lei sa che noi donne non possiamo intendercene come loro!
ADOLFO (come pentendosi). Ma io non voleva offenderla! Come è che tutto ad un tratto ha cambiato parere? L'aveva pur convinta ieri! Lei diceva che non si sarebbe lasciata influenzare dal giudizio dato dalla Società Drammatica!
ELENA. E non mi sono lasciata influenzare.
ADOLFO. Capirà che di questo suo giudizio debbo sorprendermi. Ieri le ho parlato per mezz'ora per farle comprendere il mio sistema. Pare che sia stata fatica sprecata.
ELENA (adirandosi). Oh! basta! Non mi piace, non leggerò avanti. Lei mi parlò di ambiente, di verità, ma non mi parlò di tanta, oh, di tanta noia e sconcezza.
ADOLFO (guardandosi attorno). Non occorre che gridi! ho compreso! Il suo giudizio ora lo conosco! Procurerò di ottenerne anche qualche altro da altra parte.
ELENA. Potrà essere diverso, non ne dubito; io, però dedicherò tutta la mia disistima a chi glielo darà.
ADOLFO. Ho avuto il torto di chiedere questo giudizio ad una donna. Già le donne d'oggidí sono perdute per la natura.
ELENA (lo guarda adirata, corre nel gabinetto, ove è rinchiuso Penini, dà un grido di sorpresa vedendolo, si ricompone con fatica; porta un copione). Ecco il suo copione. Adesso è tardi; mi scusi se debbo congedarla.
ADOLFO (prende il copione, lo guarda e se lo caccia in tasca). Signora!
ELENA. Signore! (Adolfo via. Elena apre il gabinetto.) Tu qui?
PENINI. Ero geloso e mi pare non senza fondamento! Eravate giunti abbastanza innanzi.
ELENA. Io non mi scuso! Hai inteso ciò che ho detto di te? Quella è la mia scusa! Fa' ora ciò che vuoi!
PENINI. Io so ciò che farò! Prima di tutto ti condurrò a Venezia… e poi… e poi… ti chiederò consigli.
CALA LA TELA
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