Essere uomo di teatro
G.Strehler
Riflessioni sulla difficoltà di spiegare il mestiere di teatrante
Se io dovessi in qualche modo definire o dare una chiave al mio “essere uomo di teatro” non saprei farlo o lo farei male. Non è una specie di peccato d’orgoglio, volontario o no poco importa che mi impedisce di sapere e di spiegare anche a me stesso cosa è quello che ho fatto e faccio, quello che sono stato e sono, nell’arte?
Domandare a un poeta: che cos’è la poesia, come la fa, cosa voleva dire con questo e con quello, obbligarlo a spiegare perché ha fatto questa poesia e non un'altra e via dicendo?
È possibile la risposta? Nessun artista mai è riuscito a parlare di ciò, se non forse in qualche sprazzo, con qualche metafora incidentale, o riferita all’onere degli altri. Perché l’uomo d’arte fa e non spiega. Non sa, non può; non vuole spiegare. Le spiegazioni di sé, sono altre.
E per il teatro? E soprattutto per il “regista”, l’interprete e non lo scrittore, cioè per chi non può interpretare se non sa, forse anche a posteriori, o in un eccessivo cammino di conoscenza, quello che vuole fare o che crede più giusto fare? Vale questo discorso? È legittimo soprattutto, questo discorso? Per un “teatrante” come io sono, non altri, questo discorso è del tutto plausibile? Sono io dunque un “teatrante” ebbro, senza controllo “critico” raziocinante, procedo io solo a intuizioni (quando ci sono) senza che ne sappia i motivi segreti? O non cerco prima, durante o almeno poi, di sapere, di spiegarmi anche con raziocinio ciò che era ed è? Certo io debbo sapere che non sono quel teatrante altro che “in parte”.
Perché dico in parte? Perché certamente, questo credo di averlo capito o altri (ed è un punto importante) forse l’hanno capito per me, in me il “teatro” (ma potrebbe essere qualsiasi altra cosa) si fa entro due termini dialettici precisi e continuamente in lotta, in arricchimenti successivi (o impoverimenti? Capita, talvolta) comunque in fasi alternative continue: da una parte la libera intuizione, direi la libera “creazione” se questa parola per me “teorico” nel teatro non mi respingesse (perché? Per pudore, per ragioni teoriche, per modestia o falsa modestia, o per un oscuro sentimento della funzione subordinata dell’interprete, quindi della oscura e segreta “invidia” di quel paradiso perduto o mai avuto che è la creazione poetica?), dunque, da una parte, la “libera creazione” padrona solo di sé, quella che non si può spiegare, quella che non ha ragioni “coscienti” e dall’altra parte la fase “cosciente” critica, analitica, storica, persino filologica, scientifica.
Come avviene il processo io non lo so bene. Varia a seconda dei casi. Ma il processo è presente “sempre”, questo è sicuro, all’inizio dalla scelta di ciò che si deve fare e come la si fa, minuto per minuto. Teoricamente ma molto spesso, sì molto spesso nel risultato positivo o no non esiste mai, per natura, direi, l’una senza l’altra. Sono due termini in me, inscindibili. E sono fonte di una continua tensione dialettica che può anche quasi uccidere. La dialettica è dura. È un modo difficile di essere. Il più difficile.
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