Come dirigo 1955
8-05-1955
Io non so come dirigo. Lo sanno i miei attori, i tecnici, coloro che mi sono vicini durante il mio lavoro? Forse, un poco lo sa il pubblico, ma io no. Il gesto che talvolta le fotografie rubano alle prove, mi sorprende, come appartenesse ad un altro. Né questo gesto può significare qualcosa, staccato com’è dalla vita immediata del palcoscenico. È solo un documento abbastanza imperfetto, che mi aiuta a ripensarmi. A pensare al teatro.
Dirigere uno spettacolo che si forma, nei suoi differenti aspetti e mezzi, dagli uomini alle cose, è certamente un’avventura straordinaria, piena di propositi e di avvenimenti diversissimi. Una prova è una irripetibile storia di stati d’animo lontani tra loro talvolta, confusi, che lampeggiano ad ogni minuto, sotto la spinta di una parola, di un movimento, la piega di un viso, l’abbandono di un corpo, un suono.
Ogni cosa nel teatro e fuori dal teatro può essere una sollecitazione negativa o positiva e tutto nel teatro fa teatro. Certo nessun lavoro d’arte domanda uno slancio collettivo così completo, così immediato, come il lavoro del teatro, le prove, prima, e la recita poi.
Forse, ecco, nel creare questa condizione di slancio, questa unità spirituale e talvolta è proprio anche fisica , che io trovo la prima ragione del mio mestiere. Da qui nasce forse anche un atteggiamento, un «modo» di dirigere gli altri: un influire, un guidare, un correggere, un sostenere l’elemento teatrale è fuori di me, attraverso una continua tensione. Talvolta questa tensione si dichiara in una spiegazione critica, in una delucidazione letteraria, talvolta in un tono, talvolta in un gesto – imperioso o pacato che sia, - talvolta in un silenzio assorto, talvolta in un abbandono. E tutto è vario, variabile, misterioso come il cammino dei sentimenti nel cuore dell’uomo. Il lavoro meditato, la preparazione culturale e critica la calma sono prima del palcoscenico, nel silenzio di una stanza.
Lassù sulla scena invece, giorno per giorno, ogni giorno anzi ad un’ora fissata in precedenza, si svolge una misteriosa e sconvolgente opera d’amore. Tanto più straordinaria e sconvolgente in quanto accettata, come fondamento di tutta una esistenza, la mia, quella di tutti coloro che lavorano con me, di tutti coloro, in tutte le parti del mondo, che fanno del teatro.
Non crediate al cinismo della meccanicizzazione, nel teatro. Il teatro proprio perché teatro, anche mentre si sta preparando è sempre e soltanto un profondo atto d’amore, un atto completamente «umano». Richiede sempre, una illimitata sottomissione ai battiti del proprio cuore. È un esercizio spirituale e fisico al tempo stesso, nel senso più completo della parola. Un esercizio pericoloso e difficile, che può essere svolto solo a costo di un totale, assoluto abbandono di sé.
Non è facile riconoscersi in quest’azione così violenta e travolgente. Il lavoro del teatro è fatto da ognuno di noi, senza specchi che riflettano una nostra immagine. Ecco perché non so come dirigo. Si può forse sapere «come» si respira, come si esiste?
Strehler
8-05-1955
Io non so come dirigo. Lo sanno i miei attori, i tecnici, coloro che mi sono vicini durante il mio lavoro? Forse, un poco lo sa il pubblico, ma io no. Il gesto che talvolta le fotografie rubano alle prove, mi sorprende, come appartenesse ad un altro. Né questo gesto può significare qualcosa, staccato com’è dalla vita immediata del palcoscenico. È solo un documento abbastanza imperfetto, che mi aiuta a ripensarmi. A pensare al teatro.
Dirigere uno spettacolo che si forma, nei suoi differenti aspetti e mezzi, dagli uomini alle cose, è certamente un’avventura straordinaria, piena di propositi e di avvenimenti diversissimi. Una prova è una irripetibile storia di stati d’animo lontani tra loro talvolta, confusi, che lampeggiano ad ogni minuto, sotto la spinta di una parola, di un movimento, la piega di un viso, l’abbandono di un corpo, un suono.
Ogni cosa nel teatro e fuori dal teatro può essere una sollecitazione negativa o positiva e tutto nel teatro fa teatro. Certo nessun lavoro d’arte domanda uno slancio collettivo così completo, così immediato, come il lavoro del teatro, le prove, prima, e la recita poi.
Forse, ecco, nel creare questa condizione di slancio, questa unità spirituale e talvolta è proprio anche fisica , che io trovo la prima ragione del mio mestiere. Da qui nasce forse anche un atteggiamento, un «modo» di dirigere gli altri: un influire, un guidare, un correggere, un sostenere l’elemento teatrale è fuori di me, attraverso una continua tensione. Talvolta questa tensione si dichiara in una spiegazione critica, in una delucidazione letteraria, talvolta in un tono, talvolta in un gesto – imperioso o pacato che sia, - talvolta in un silenzio assorto, talvolta in un abbandono. E tutto è vario, variabile, misterioso come il cammino dei sentimenti nel cuore dell’uomo. Il lavoro meditato, la preparazione culturale e critica la calma sono prima del palcoscenico, nel silenzio di una stanza.
Lassù sulla scena invece, giorno per giorno, ogni giorno anzi ad un’ora fissata in precedenza, si svolge una misteriosa e sconvolgente opera d’amore. Tanto più straordinaria e sconvolgente in quanto accettata, come fondamento di tutta una esistenza, la mia, quella di tutti coloro che lavorano con me, di tutti coloro, in tutte le parti del mondo, che fanno del teatro.
Non crediate al cinismo della meccanicizzazione, nel teatro. Il teatro proprio perché teatro, anche mentre si sta preparando è sempre e soltanto un profondo atto d’amore, un atto completamente «umano». Richiede sempre, una illimitata sottomissione ai battiti del proprio cuore. È un esercizio spirituale e fisico al tempo stesso, nel senso più completo della parola. Un esercizio pericoloso e difficile, che può essere svolto solo a costo di un totale, assoluto abbandono di sé.
Non è facile riconoscersi in quest’azione così violenta e travolgente. Il lavoro del teatro è fatto da ognuno di noi, senza specchi che riflettano una nostra immagine. Ecco perché non so come dirigo. Si può forse sapere «come» si respira, come si esiste?
Strehler
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