Carlo Goldoni
LA CAMERIERA BRILLANTE
La presente Commedia di carattere, di tre atti in prosa, fu recitata la prima volta
in Venezia nel Carnovale dell'anno 1754.
A SUA ECCELLENZA
IL SIGNOR CONTE
LODOVICO REZZONICO
PATRIZIO VENETO
Fra le grazie ch'io riconosco dalla Nobilissima casa Widiman, singolarissima è quella del patrocinio di V.E., ottenuto col mezzo della gentilissima Dama la signora Contessa Widiman, nata Rezzonico, degnissima Sorella vostra. Mostrerei di poco conoscere il benefizio, e di esserne immeritevole più ancora di quel ch'io sono, se non dassi un pubblico testimonio del giubbilo che ne rissento, e le opere mie non fregiassi del vostro illustre nome e della vostra validissima protezione. Tutti gli amici miei si rallegreranno meco di cuore del grande acquisto che ho fatto, e non solamente i vicini, che vi conoscono, ma i lontani ancora, che hanno contezza della vostra persona ammirabile e della vostra illustre Famiglia. Roma più d'ogni altro paese ha contezza dei pregi vostri, poiché foste colà educato sotto i gloriosi auspici dell'Eminentissimo Signor Cardinale Rezzonico, vostro Zio, il quale ottenuta per gl'infiniti suoi meriti la Porpora dal Vaticano, ora nella Sede Episcopale di Padova, con santo zelo ed ottima provvidenza, guida con pastorale amore e consiglio le pecorelle di Cristo per la via della virtù, della esemplarità e della eterna salute.
Sull'orme di un così grande esemplare cammina in Roma medesima il vostro minor germano, Prelato di egregi costumi e di vera scienza fornito, e Voi, tornato al seno della augusta Patria, ite a gran passi inoltrandovi per il cammin della gloria. Il Governo da Voi sostenuto con tanto senno e con tanto valore della città di Vicenza, amministrando colà per il Principe Serenissimo la carità e la giustizia, presagiscono a voi fortunati progressi, e le voci de' Vicentini ammiratori ossequiosi del vostro merito vi acclamano alle cariche più cospicue, alle dignità più sublimi. Felici loro, cui toccò in sorte per qualche tempo un Rettore sì magnanimo, sì dotto, sì generoso e splendido quale Voi siete; e Voi felice altresì, che dovendo servire alla Patria, foste ad una Città prescielto conoscitrice del merito e della virtù, d'illustre Nobiltà e di peregrini talenti doviziosamente fornita. Beati quelli che trovano bene impiegate le attenzioni loro, veggendole dai grati animi corrisposte. I Vicentini vi hanno reso giustizia, né lascierà di rimunerarvi la Repubblica Serenissima con quegli onori medesimi, onde ha fregiato di Porpora il vostro Genitore egregio, amplissimo Senatore, pio e magnanimo Cavaliere. La vostra illustre Famiglia ha tutte le benedizioni celesti, per la bontà singolare, per la carità esimia che in essa mirabilmente fiorisce, onde da Dio riconoscendo i larghi beni che la fecondano, ne fa parte ai poveri, ai bisognosi, e impegna la Provvidenza a moltiplicare le grazie. Voi siete un giovane Cavaliere di bel talento e di dottrina fornito, non imbevuto di quelle massime oltramontane, che attribuiscono gli eventi al caso. Sapete fondatamente che tutti i beni di questa vita dal Creatore provengono. Poteste apprenderlo più sodamente dall'ottima educazione de' vostri amabili Genitori e dall'Avolo vostro paterno, passato, non ha molto tempo, a godere nel Cielo il vero premio durevole delle sue Cristiana virtù. Corrisponde mirabilmente al loro consiglio ed al loro esempio la vostra buona condotta, poiché nella vostra età giovanile, senza staccarvi affatto dalle convenienze della vite, civile, sapete essere nel tempo istesso sociabile quanto basta, e prudente quanto conviene. Intesi con giubbilo il prossimo accasamento a cui la sorte vi ha destinato, e la Patria eccelsa ed i Congiunti e gli Amici vostri n'esultano. La Sposa che vi è destinata, escita dall'illustre sangue de' Savorgnani tanto glorioso in Repubblica, e tanto nelle Storie famoso, figlia di Genitrice di tante virtù, di tante doti fornita, non può che promettere a Voi la più perfetta felicità de' viventi, ed alla Patria eccelsa ottimi Figli e valorosi Concittadini. Benedica il Signore le vostre nozze, sparga sopra di Voi il dolce semi della concordia, seggano i vostri Figli come le tenerelle piante d'ulivo d'intorno alla vostra mensa, e il vero pacifico amore viva sempre nelle vostre pareti.
So che V. E. fra le occupazioni delle pubbliche cure non disapprova gli onesti divertimenti; e so altresì, che fra questi non vi è discaro il piacevole della Commedia. Avvezzo siete a soffrire con lieto animo le mie Teatrali fatiche, ed animato dalla vostra predilezione, ardisco di presentarvene una, in segno del mio rispetto e dell'interna mia compiacenza.
La Cameriera Brillante converrebbe assai bene ad un Cavaliere di brio e di sapere fornito, quale Voi siete, se all'arghi mento ave ss' io contribuito con pari spirito e con adequati brillanti modi; ma se all'idea mal corrispose l'ingegno, tanto più arrossisco nel presentarvela. Penso per altro, che volendo io consacrare al nome di V. E. alcuna opera mia, se degna di Voi la cercassi, dovrei abbandonare il pensiero, sicuro di non trovarla fra le produzioni del mio scarso intelletto. E se mi fido del generoso animo vostro, certo sono che tutte egualmente saranno benignamente accolte, compatite e protette; e questa, dandole io la gloria di comparirvi dinanzi in divisa di cosa vostra, fortunata potrà chiamarsi, vantandosi che dal padre adottivo viene a lei recato quel fregio, che il padre suo naturale darle non ha potuto. Supplico dunque l'E. V. umilmente usar ad essa ed a me questa volta i tratti soliti della vostra benignità e cortesia, ricevendoci entrambi sotto il vostro amplissimo patrocinio, e permettere a me, che possa dirmi con profondissimo ossequio
Di V.E.
Umiliss. Devotiss. Obblig. Serv.
Carlo Goldoni
L'AUTORE A CHI LEGGE
Una Cameriera Brillante, che ha dello spirito e del talento, trovandosi in villeggiatura con i padroni, promuove i divertimenti, e da questi fa nascere il collocamento delle padrone ed il suo con il padre delle medesime. L'azione è teatrale, di quel genere che si accosta alle Commedie dell'arte, però regolata in modo che salva il verissimile e la concatenazione delle scene che la compongono. Non è nuova l'invenzione che in una villeggiatura si reciti una Commedia; ma è pensier novissimo dare a ciascheduno dei personaggi un positivo carattere e far sì che nella finta rappresentazione siano forzati a sostenerne uno contrario, ed abbiano della repugnanza a dir cose contrarie al loro sistema, ancorché apparentemente studiate.
Niente più verissimile evvi di questo scrupolo, famigliare ai Comici non meno che ai dilettanti. Vorrebbono tutti delle parti eroiche, virtuose, o al loro genio adattate. Non sanno, o sapere non vogliono, che i spettatori gustano la Commedia se è bene rappresentata, e tanto si fa merito chi fa la parte eroica, come quello che fa la parte odiosa; né il buono perde il merito personale per un cattivo carattere, né il cattivo divien migliore per un carattere virtuoso. L'Attrice solita a rappresentare in allora il personaggio della Servetta nella Compagnia che dicesi di San Luca, sostenne egregiamente la parte della Cameriera Brillante; ora è passata ad un altro grado, e fa spiccar sempre più il suo talento nelle parti serie, là dove specialmente la passione vi è interessata, movendo graziosamente gli affetti.
PERSONAGGI
PANTALONE de' BISOGNOSI mercante in villa
FLAMINIA figliuola di Pantalone
CLARICE figliuola di Pantalone
OTTAVIO
FLORINDO
ARGENTINA cameriera delle figliuole di Pantalone
BRIGHELLA servitore di Pantalone
TRACCAGNINO servitore di Ottavio
Un VILLANO
La Scena si rappresenta nella terra di Mestre, situata sul margine della terraferma Veneta, sette miglia distante dalla città di Venezia, in un casino di Pantalone.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Flaminia e Clarice.
CLAR. Questa è una vita da diventar etiche in poco tempo.
FLA. Io per me ci sto volentierissima in villa.
CLAR. Ed io non mi ci posso vedere.
FLA. In quanto a voi, state mal volentieri per tutto. A Venezia non vedevate l'ora di venir in campagna; ora che ci siete, vorreste andarvene dopo tre giorni.
CLAR. Ci starei volentieri, se ci fosse un poco di conversazione.
FLA. E pure, anche per questa parte, non vi potete dolere, cara sorella.
CLAR. Che? Forse per esservi poco lontano il casino del signor Florindo?
FLA. Non è poca fortuna aver l'amante vicino.
CLAR. Oh! da uno a niente vi faccio poca differenza.
FLA. Io poi sono più discreta di voi. Così vi fosse il signor Ottavio, che mi chiamerei contentissima.
CLAR. Oh sì, se ci fosse, anch'io ne avrei piacere, per ridere un poco.
FLA. Per ridere? Vi fa ridere il signor Ottavio?
CLAR. Non volete che mi faccia ridere un uomo vanaglorioso, che racconta sempre grandezze, che non parla che di se stesso, che crede non ci sia altro di buono a questo mondo che lui?
FLA. Sì, è vero, pecca un pochino nella vanagloria, ma finalmente ha il suo merito. La sua ostentazione è fondata su qualche cosa di vero. Se non è ricco, è nato nobile almeno; non è da mettersi in paragone col vostro signor Florindo.
CLAR. Perché? Se Florindo non è nato nobile, in lui la ricchezza supplisce al difetto della nobiltà.
FLA. È un uomo di cattivissimo gusto; di tutte le cose gli piace il peggio; è un umore stravagantissimo.
CLAR. Gli piace di tutto il peggio, eh?
FLA. Così dicono. Io non parlo perché paia a me solamente.
CLAR. Dunque se ha della parzialità per me, sarà perché di tutto gli piace il peggio.
FLA. Non dico per questo...
CLAR. Sì, sì, c'intendiamo. Lo so che vi credete voi sola di un alto merito. In questo somigliate assaissimo al signor Ottavio.
FLA. Lasciatemi parlare, se volete intendere quel ch'io penso.
CLAR. Che cara signora sorella! ha scelto me per il peggio!
FLA. Ecco qui. Tutto prendete in mala parte.
CLAR. Mi pare un poco d'impertinenza la vostra.
FLA. Signora sorella, vossignoria si avanza un po' troppo
CLAR. Se è vero. Sempre mi seccate. Anderete via una volta di questa casa.
FLA. Così vi andassi domani!
CLAR. E io questa sera!
FLA. Non mi avete mai potuto vedere.
CLAR. Volete farmi la dottoressa, la maestra, la superiora.
FLA. Sono la maggiore; ma non per questo potete dire...
CLAR. Ah, di grazia, signora maggiore, aspetti, che le bacierò la mano.
FLA. Siete pure sofistica.
CLAR. Siete prosontuosa.
FLA. A me?
CLAR. Sì, a voi.
SCENA SECONDA
Argentina e dette.
ARG. Eccole qui. Taroccano. Due sorelle sole, giovani, ricche, garbate, non si possono fra di loro vedere.
FLA. Che ne dici, Argentina? Sempre così.
CLAR. Tu come c'entri a venir a fare la correttrice? Sta da quella che sei. La cameriera non si ha da prendere tanta libertà colle sue padrone.
ARG. Perdoni, signora, perdoni. Non credo d'averla offesa.
FLA. Lasciala stare, Argentina. Conosci il suo stravagante temperamento.
ARG. Peccato, in verità, ch'ella sia così stravagante!
CLAR. Temeraria! Io stravagante?
ARG. Compatisca: è una parola questa, ch'io non so che cosa voglia dire. L'ho replicata, perché l'ha detta la signora Flaminia. Parlo anch'io come i pappagalli.
CLAR. È peccato ch'io sia stravagante?
ARG. Se mi sapessi spiegare, vorrei pur farmi intendere. È peccato che una signora così bella, così graziosa... Se dico degli spropositi, mi corregga.
CLAR. Tu parli in una maniera che non si capisce.
ARG. Effetto della mia ignoranza. Ma io vorrei vedere che le mie padrone si amassero, si rispettassero, vivessero un poco in pace.
FLA. Questo è quello che vorrei anch'io.
CLAR. È impossibile, impossibilissimo.
ARG. Ma perché mai?
CLAR. Perché sono una stravagante, non è vero?
ARG. Tutto quello ch'ella comanda.
CLAR. Io comando che tu stia zitta e che mi porti rispetto.
ARG. La non comanda altro? Faccia conto ch'io l'abbia bell'e servita. Signora Flaminia, ho da darle una buona nuova.
FLA. Che nuova?
ARG. È arrivato il signor Ottavio.
CLAR. Il signor Ottavio è venuto?
ARG. Perdoni, io non l'ho detto a lei.
FLA. L'ha veduto mio padre?
ARG. Non ancora.
CLAR. Che cosa è venuto a fare il signor Ottavio?
ARG. L'ho veduto dalla finestra, mi ha chiamata in istrada... (a Flaminia)
CLAR. A me non si risponde? (ad Argentina)
ARG. Oh signora, so il mio dovere. Quando mi comandano di star zitta, non parlo. (a Clarice) Son discesa per sentire che voleva da me. (a Flaminia)
CLAR. (Costei mi vuol far venire la mosca al naso). (da sé)
FLA. E così, Argentina mia, che cosa ti ha detto?
ARG. Senta. Con sua licenza. (a Clarice, tirando Flaminia da parte)
CLAR. Come! non posso sentire io?
ARG. Oh signora no.
CLAR. Perché?
ARG. Perché ha dette certe cose che a lei non possono dar piacere. Se gliele dicessi, mancherei al rispetto. So il mio dovere. (a Clarice) E così, signora mia... (a Flaminia)
CLAR. Parla: voglio sapere che cosa ha detto di me.
ARG. Ma se mi ha comandato di tacere.
CLAR. Ora voglio che parli.
ARG. Taci, parla; voglio, non voglio: e poi non vorrà che le si dica che è stravagante.
CLAR. Sei una temeraria.
ARG. Tutto quello che comanda la mia padrona. (a Clarice) E così, come le diceva... (a Flaminia)
FLA. (Mi fa quasi venir da ridere). (da sé)
CLAR. (Maledetta, non la posso soffrire). (da sé)
ARG. (Senta. Il signor Ottavio vuol fare una visita al signor padrone. Spero, mi disse, ch'un uomo della mia sorte sarà ben accolto dal signor Pantalone...) (piano a Flaminia)
CLAR. Vuoi tu ch'io senta, o vuoi che ti dica quello che meriti? (ad Argentina)
ARG. Io gli ho risposto... (come sopra, non badando a Clarice)
CLAR. Che impertinenza è la tua? (ad Argentina)
FLA. Via, contentala quella signora. Di' forte, ch'io non ci penso.
ARG. Ma poi, se parlerò forte, mi dirà che stia zitta.
CLAR. Tu devi obbedire, fraschetta.
ARG. Obbedirò. Disse il signor Ottavio: verrei a fare una visita alla signora Flaminia; ma non posso soffrire quell'umore stravagante della signora Clarice.
CLAR. A me questo? Io stravagante?
ARG. L'ha detto il signor Ottavio.
CLAR. Mi sento fremere.
ARG. E ha detto di più...
CLAR. Sta zitta.
ARG. Ha detto che siete...
CLAR. Non più, temeraria.
ARG. Ecco qui: parla; non più; sta zitta.
CLAR. Se mio padre non ti caccia di questa casa, nascerà qualche precipizio.
ARG. Certamente si seccherà...
CLAR. Che cosa?
ARG. Il canale della laguna.
CLAR. Non ti posso soffrire. Vado ora da mio padre a dirgli liberamente che non ti voglio.
ARG. Pazienza.
CLAR. Sì, ti manderà via.
ARG. E così, tornando al nostro proposito... (a Flaminia)
CLAR. Indegna!
ARG. Sappia che il signor Ottavio... (a Flaminia)
CLAR. Non mi abbadi?
ARG. Mi comandi... (a Clarice)
CLAR. Sei una temeraria.
ARG. Me l'ha detto tre volte.
CLAR. (Se più l'ascolto, se più mi fermo, la bile mi fa crepare assolutamente). (da sé, e parte)
SCENA TERZA
Flaminia ed Argentina.
FLA. È una gran testaccia quella mia sorella.
ARG. Niente, signora; lasciate fare a me, che m'impegno di metterla alla disperazione.
FLA. Per conto mio, non intendo però che si disprezzi e s'insulti; né tu devi farlo. Ella pure è la tua padrona e le devi portar rispetto. È mia sorella; e quantunque non abbia ella stima di me, io la voglio avere di lei.
ARG. Saviamente parlate, signora; lodo infinitamente la vostra amabile docilità. Io non intendo di mancare a quel rispetto che devo alla signora Clarice; ma qualche volta faccio per risvegliarla. Già lo sapete com'è: un giorno mi vuole indorare, un altro giorno mi vorrebbe veder in cenere. Io mi regolo secondo di che umore la trovo.
FLA. Bada bene, che ora essendo di cattivo umore e stuzzicata da te un po' troppo, non vada da mio padre e non lo metta su malamente.
ARG. A far che?
FLA. A mandarti via.
ARG. Oh signora, per così poco il padrone non mi licenzia.
FLA. Lo so che ti vuol bene, ma potrebbe darsi...
ARG. Cara signora Flaminia, non siete più innamorata del signor Ottavio?
FLA. Sì, lo sono. Perché mi dici tu questo?
ARG. Perché badate a discorrere di me e non vi curate di parlare di lui.
FLA. Parlo di te, cara Argentina, perché ti amo e non vorrei perderti.
ARG. Non dubitate; non me n'anderò. Il padrone non mi lascierebbe andare per centomila ducati e se la signora Clarice sarà in collera con me da vero, sapete cosa farò?
FLA. Che cosa farai?
ARG. Cospetto di bacco! sapete che cosa farò? Anderò a ritrovarla nella sua camera; le dirò tante belle cose, tante buffonerie; la bacierò, la pregherò, le ballerò dinanzi, la farò ridere e non sarà altro.
FLA. Sì, veramente qualche volta tu sei brillante. Faresti ridere i sassi.
ARG. Ora non è tempo di ridere. Parliamo un poco sul serio.
FLA. Che cosa ti ha detto il signor Ottavio?
ARG. Il signor Ottavio mi ha detto che con una gondola a quattro remi è venuto in cinque minuti da Venezia a Mestre; e per veder voi ha lasciato la conversazione della duchessa, della marchesa, della principessa. (caricando e dipingendo l'ampollosità di Ottavio)
FLA. Tu lo sbeffi il signor Ottavio.
ARG. Oh, non signora. L'imito così un pochino per veder se so fare.
FLA. Se tu avessi per me quell'amore e quella premura di cui ti vanti, parleresti con più stima d'una persona ch'io amo.
ARG. Se non vi volessi bene, non averei fatto quello che ho fatto.
FLA. Di che parli? Non ti capisco.
ARG. Ho persuaso il padrone a riceverlo in una visita di complimento, e forse a tenerlo a pranzo con lui e per conseguenza con voi.
FLA. Oh sì davvero! Non hai fatto poco. Mio padre, uomo sofistico, non può vedere nessuno. Come l'hai persuaso, Argentina?
ARG. Non sapete che, quando io voglio, meno gli uomini per il naso? Il signor Pantalone principalmente per me farebbe moneta falsa.
FLA. Sì, è vero; anzi, per dirtela, mi è stato detto da più di uno che ti voleva sposare.
ARG. Non signora; non conviene a una cameriera sposare un uomo civile, che ha ancora due figlie in casa.
FLA. Brava Argentina, ti lodo; hai delle buone massime.
ARG. Ecco il padrone.
FLA. Ti raccomando volermi bene.
ARG. Il mio bene vi può far poco bene.
FLA. Aiutami coll'amico.
ARG. Oh, quello vi farà del bene.
FLA. Tu mi fai ridere. (parte)
SCENA QUARTA
Argentina, poi Pantalone.
ARG. L'amore, per quel ch'io sento, è una cosa che fa ridere e che fa piangere. Io però finora non ho mai pianto; e spero che per questa ragione non piangerò. Io faccio all'amore, come si fa quando ascoltasi una commedia. Fin che mi dà piacere, l'ascolto; quando principia ad annoiarmi, mi metto in maschera e vado via.
PANT. Arzentina.
ARG. Signore.
PANT. No se ve vede mai.
ARG. Se aveste vent'anni di meno, mi vedreste di più.
PANT. Eh za, se fusse più zovene, ve darave in tel genio.
ARG. Non dico per questo; dico, perché non avreste bisogno d'occhiali.
PANT. Coss'è sti occhiali? Ghe vedo più de vu, patrona.
ARG. È vero; ci vedete assai più di me. Perché, se io rido, mi vedete i denti. Se voi ridete, io non ve li vedo.
PANT. Voleu zogar che ve dago una sleppa?
ARG. Volete giocare ch'io me la lascio dare?
PANT. Sè un'insolente.
ARG. Ma sono la vostra cara Argentina.
PANT. Barona! sempre ti me strapazzi.
ARG. Ve ne avete a male, perché qualche volta vi dico che siete vecchio?
PANT. Siora sì, me n'ho per mal.
ARG. Quando è così, bisogna rompere tutti i specchi di casa.
PANT. Cossa songio? un cadavero? un mostro?
ARG. Non signore; siete il più bel vecchietto di questo mondo.
PANT. E dai co sto vecchio: ti xe una temeraria.
ARG. Ma sono la vostra cara Argentina.
PANT. Galiottazza! te bastonerò.
ARG. Aguzzino.
PANT. A mi aguzin?
ARG. Se volete bastonare una galeotta!
PANT. No ti parli, che no ti dighi un sproposito.
ARG. Tacerò dunque.
PANT. Sì, tasi, che ti farà ben.
ARG. Voleva dirvi una cosa, ma non la dico più.
PANT. Cossa me volevistu dir?
ARG. Oh, non ve la dico più.
PANT. La sarà qualche impertinenza al solito.
ARG. Anzi era una cosa bella bella, la più bella di questo mondo.
PANT. Via, dìmela.
ARG. Oh, non parlo più.
PANT. No me far andar in collera.
ARG. Non la dico certo. È una cosa che vi darebbe gusto; ma non la dico.
PANT. Se no ti me la disi, no te vardo mai più.
ARG. Ve la dirò e non ve la dirò.
PANT. In che maniera?
ARG. Colla bocca no certo.
PANT. Ma come donca?
ARG. Ve la dirò colle mani.
PANT. Colle man? Via mo. (s'accosta ad Argentina)
ARG. Signor no, alla larga.
PANT. Ma come colle man alla larga?
ARG. Non sapete voi parlar colle mani?
PANT. Sì ben; me l'arrecordo co giera putello.
ARG. Osservate. (alza le due dita indice e medio)
PANT. V.
ARG. (Alza il dito mignolo)
PANT. I, vi...
ARG. (Alza nuovamente due dita, indice e medio)
PANT. V.
ARG. (Forma un cerchio colle due dita pollice e indice)
PANT. O, vo...
ARG. (Tocca coll'indice ed il pollice l'estremità dell'orecchia)
PANT. G.
ARG. (Alza il dito indice)
PANT. L.
ARG. (Alza il dito mignolo)
PANT. I.
ARG. (Torna a far cerchio col pollice e coll'indice)
PANT. O, voglio. Vi Voglio. Cossa voleu?
ARG. (Piega il dito medio inarcato, accostandolo alla metà dell'indice)
PANT. B.
ARG. (Accosta l'indice all'occhio)
PANT. E, be...
ARG. (Stacca dalle altre dita l'indice e il medio, e li stende colle punte all'ingiù)
PANT. N. (principia a rallegrarsi)
ARG. (Torna a toccar sotto l'occhio coll'indice)
PANT. E, ne, bene. Me voleu ben, cara?
ARG. (Colla mano dritta si tocca il petto)
PANT. P.
ARG. (Fa il cerchio coll'indice ed il pollice)
PANT. O, po...
ARG. (Fa un semicircolo colle due dita suddette)
PANT. C. (principia a rattristarsi)
ARG. (Fa il cerchio rotondo, come sopra)
PANT. O, co, poco. (melanconico)
ARG. (Alza le due dita indice e medio)
PANT. V. (melanconico)
ARG. (Fa il cerchio, come sopra)
PANT. O.
ARG. (Alza il dito mignolo)
PANT. I, voi.
ARG. (Forma mezzo cerchio col pollice e l'indice e l'accosta alla bocca, così che le punte del mezzo cerchio toccano i laterali delle labbra)
PANT. A.
ARG. (stacca tre dita dalle altre, pollice, indice e medio, e le rivolta colle punte in giù)
PANT. M.
ARG. (Accosta l'indice all'occhio)
PANT. E, me, voi a me...
ARG. (Abbassa le due punte dell'indice e del medio)
PANT. N.
ARG. (Alza il dito mignolo)
PANT. I.
ARG. (Accosta l'indice all'occhio)
PANT. E.
ARG. (Torna ad abbassar le due punte dell'indice e del medio)
PANT. N.
ARG. (Attraversa l'indice della mano dritta a quello della mano sinistra)
PANT. T.
ARG. (Torna ad accostar l'indice all'occhio)
PANT. E, te, niente. Mi gnente? Aspettè. (fa diverse figure colle dita per esprimersi, ma non esprime niente di bene) Mi... a vu... tanto... che... mai... più... Ve lo digo colle man, colla bocca, col cuor e colle visceronazze.
ARG. Mi date licenza ch'io parli?
PANT. Sì, parla.
ARG. Non vi credo.
PANT. Giera meggio che ti tasessi.
ARG. Se mi volete bene, n'avete da far un piacere.
PANT. Cossa vustu?
ARG. Ho veduto passeggiar nel cortile il signor Ottavio; l'avete da ricevere e gli avete da far buona ciera.
PANT. Te l'ho dito delle altre volte: mi no vôi seccature. Vegno in campagna per gòder la mia libertà, no vôi visite, no vôi complimenti, no vôi nissun.
ARG. Mi avete pur promesso di riceverlo.
PANT. Ho dito de sì, perché colle to smorfie ti m'ha fatto dir de sì per forza. Ma te digo che no voggio nissun.
ARG. Siete pure sofistico.
PANT. O sofistico, o altro, la voggio cussì.
ARG. Siete peggio d'un satiro.
PANT. Son chi son, e no me stè a seccar.
ARG. Più che andate in là, più diventate rabbioso.
PANT. Vustu taser, frasconazza?
ARG. Siete insoffribile.
PANT. A mi, desgraziada?
ARG. Ma sono la vostra cara Argentina. (ridendo con grazia)
PANT. (Siestu maledetta! co son per andar in collera, la me fa zo). (da sé)
ARG. Ma sono la vostra cara Argentina.
PANT. Sì, baronazza, sì, te voggio ben... ma ti gh'ha una lengua...
ARG. E mi farete questo piacere. (con vezzo)
PANT. De cossa?
ARG. Di ricevere il signor Ottavio. (come sopra)
PANT. Ma cossa t'importa a ti?...
ARG. Sì,lo riceverà il mio caro papà. (gli fa dei vezzi)
PANT. Papà ti me disi?
ARG. Il papà vuol bene alla tatta.
PANT. Sì, te voggio ben.
ARG. E lo riceverà.
PANT. Mo per cossa?...
ARG. Lo riceverà il nonno; lo riceverà.
PANT. Anca nonno?
ARG. Il bel nonnino!
PANT. Vustu fenirla co sto dirme nonno?
ARG. Il nonnino bello, il papà bello, il padrone bello, che mi vuol tanto bene! Eccolo, eccolo. Venga, signor Ottavio. Signor sì, per la sua Argentina lo riceverà. Oh, guardate, chi dice che non mi vuol bene? Signor sì; mi vuol tanto bene, e per amor mio lo riceverà. Caro papà! lo riceverà. (parte)
SCENA QUINTA
Pantalone, poi Ottavio.
PANT. Chi pol responder, responda. La m'incanta, la me incocalisse; e no so cossa dir. Mi son de natura piuttosto caldo, piuttosto furioso, e custìa la me reduse co fa un agnello. Velo là ch'el vien el sior Ottavio. La gh'ha dito ch'el vegna, e el vien. Mi so che premura che gh'ha custìa per sto sior Ottavio, perché Flaminia ghe xe innamorada, e chi sa che Arzentina no gh'abbia gusto che marida le mie putte, sperando po dopo che mi la voggia sposar? No la la pensarave miga mal. Questo xe giusto quel che penso anca mi. Xe vero che la me dise che son vecchio, che la me dise papà, che la me dise nonno; ma vedo che la me vol ben.
OTT. Servitor divotissimo, signor Pantalone.
PANT. La reverisso, patron.
OTT. (Fa qualche atto d'ammirazione sul saluto triviale di Pantalone)
PANT. Ala qualcossa da comandarme?
OTT. Non signore. Son qui per fare una certa compera di beni, e vado divertendomi osservando la villa.
PANT. La vol comprar dei beni? Dove cómprela? Chi ghe xe che voggia vender? Anca mi, per dirghela, aspiro a far qualche acquisto; ma, che sappia mi, nissun vende.
OTT. Contentatevi che mi è stato fatto il progetto. A chi ha danari contanti nello scrigno, non manca il modo di fare acquisti.
PANT. In grazia, se la domanda xe lecita, xelo un acquisto grosso?
OTT. Eh, una piccola bagattella. Per centomila ducati.
PANT. Aseo! una piccola bagattella! (L'ha sbarà un canon da sessanta). (da sé)
OTT. Ma non mi piace la terra.
PANT. No la ghe piase? E sì mo in ancuo Mestre xe deventà un Versaglies in piccolo. La scomenza dal canal de Malghera, la zira tutto el paese, e po la scorra el Terraggio fin a Treviso. La stenterà a trovar in nissun logo de Italia, e fora d'Italia, una villeggiatura cussì longa, cussì unita, cussì popolada come questa. Ghe xe casini che i par gallerie; ghe xe palazzi da città, da sovrani. Se fa conversazion stupende; feste da ballo magnifiche; tole spaventose. Tutti i momenti se vede a correr la posta, sedie, carrozze, cavalli, lacchè; flusso e reflusso da tutte le ore. Mi m'ho retirà fra terra, lontan dai strepiti, perché me piase la mia libertà. Per altro sento a dir che a Mestre se fa cossazze; che se spende assae; che se gode assae; e che se fa spiccar el bon gusto, la magnificenza e la pulizia de tutti i ordeni delle persone che fa onor alla nazion, alla patria e anca all'Italia medesima.
OTT. Eh! val più il mio feudo, che non val tutto Mestre e tutto il Terraglio insieme.
PANT. La gh'ha un feudo? no l'ho miga mai savesto.
OTT. Ne ho più di uno. Ma sono cose ch'io non le dico. Non faccio ostentazione delle cose mie.
PANT. La gh'averà anca el titolo!
OTT. Ho titoli, ho feudi, ho tutto quello che si può avere. Ma non parliamo di questo. Son qui, come diceva, per un affare; e son venuto a vedere la vostra villa.
PANT. La vederà un tugurio, una spelonca, un lioghetto da poveromo. Mi no gh'ho feudi; mi no gh'ho grandezze.
OTT. Ciascuno deve contentarsi di avere le cose a misura del grado. Io non lodo quelli che fanno dell'ostentazione.
PANT. Se vede ch'ella xe un signor pien de modestia; no ghe piase de far grandezze.
OTT. No certamente. Alla mia tavola ci può venire ogni giorno chi vuole, ma non invito nessuno.
PANT. Anca mi son cussì. Alla mia tola no invido nissun.
OTT. Fate benissimo: dagli amici si va senza essere invitati.
PANT. Se va dove se xe seguri de trovar una bona tola; ma da mi se sta mal.
OTT. In villa non si fanno trattamenti. Ogni cosa serve.
PANT. In villa, come ghe diseva, chi pol, fa pulito; ma mi no posso, e no fazzo gnente.
OTT. Qui fra terra ogni cosa serve.
PANT. Ma anca fra terra se magna.
OTT. Voi non mangiate?
PANT. Poco.
OTT. Fate benissimo. Il troppo cibo pregiudica la salute.
PANT. Mi e la mia fameggia semo avezzai cussì. Ma chi xe uso a tole grande, no se pol comodar.
OTT. Io per solito mangio pochissimo.
PANT. Mo se la fa una tola che pol vegnirghe chi vol.
OTT. Lo faccio per gli altri; lo faccio perché mi piace spendere, perché mi piace trattare, ma io sono regolatissimo: una zuppa, un pollastro, due fette di fegato, un po' d'arrosto mi serve.
PANT. Qua da mi mo, védela, se magna fasiòi, carne de manzo, polenta...
OTT. Benissimo: vero pasto da campagna. Mi piace infinitamente, e la compagnia è il miglior condimento del mondo.
PANT. E quel che me piase a mi, xe magnar solo, senza suggizion de nissun.
OTT. Oh sì la soggezione è la peggior cosa del mondo. Io dove vado, non ne do e non ne prendo.
PANT. Mi mo son cussì de sto cattivo temperamento, che me togo suggizion de tutti.
OTT. Bisogna distinguere. Di me, per esempio, non vi avreste da prendere soggezione.
PANT. Oh, la se fegura! D'un feudatario no la vol che me toga suggizion?
OTT. Lasciamo andare queste freddure. Io vi son buon amico.
PANT. (El sior feudatario el vorria piantar el bordon in casa mia; ma no femo gnente). (da sé)
OTT. Frattanto che arrivano i miei lacchè ed i miei cavalli del tiro a sei, resterò qui con voi, se mi permettete.
PANT. Li aspèttela da lontan?
OTT. Da Treviso li aspetto.
PANT. Mo no vienla da Venezia?
OTT. Sì, è vero. Ma ho mandato ad accompagnare a Treviso colla mia carrozza e col mio equipaggio un milord mio amico.
PANT. Ma no gh'ho miga logo, sala, né per carrozza, né per cavalli.
OTT. Subito che sono arrivati, io parto.
PANT. Quando crédela che i possa arrivar?
OTT. Spererei che potessero arrivar domani.
PANT. Doman? La vorria star qua sta notte? No gh'ho letti, patron...
OTT. Non crediate...
PANT. Mo ghe digo che no gh'ho letti.
OTT. Non importa di letti. La notte si giuoca, si sta in conversazione. Per una notte non si patisce.
PANT. In casa mia a ventiquattr'ore se serra le porte.
OTT. Signore, per quel che sento, voi non mi volete in casa vostra.
PANT. Cara ella, ghe sarà tanti a Mestre che gh'averà ambizion de recever in casa un soggetto della so qualità. Mi son un poveromo. No gh'ho da trattarla come la merita.
OTT. A me piace in campagna la libertà, la confidenza; non mi curo di queste grandezze. Quando voglio stare con magnificenza, vado nei miei palazzi, nelle mie ville. Mi diverto coi miei giardini, colle mie fontane, colle mie caccie riservate; non mi fanno specie queste freddure che voi mi vantate; amo piuttosto questa vostra semplicità. Qualche volta mi trattengo assaissimo volentieri con i miei pastori, con i miei villani.
PANT. M'ala tolto per un pastor? per un villan?
OTT. Ah no, amico, di voi fo quella stima che meritate.
PANT. Vorla che ghe la diga in bon lenguazo, da bon venezian? La compatissa; ma qua no ghe xe logo per ella.
OTT. Signor Pantalone, voi non mi conoscete.
PANT. Mi zente della so sfera no ghe ne cognosso, e no ghe ne vôi cognosser.
OTT. Io sono uno che vi stima e che vi ama.
PANT. Grazie infinite, patron.
OTT. E che sia la verità... Argentina v'ha detto nulla?
PANT. La m'ha dito ch'ella la se voleva incomodar de vegnirme a onorar.
OTT. E non v'ha detto niente di più?
PANT. No la m'ha dito altro.
OTT. Bene: ho da parlarvi di qualche cosa che preme.
PANT. La parla. Son qua per sentir.
OTT. No, caro amico, non mi prendete così su due piedi. Parleremo con un poco di posatezza. Dopo pranzo, questa sera...
PANT. Sior feudatario, m'ala capio? o no me vorla capir?
OTT. Circa a che?
PANT. Circa che in casa mia no voggio nissun.
OTT. Ho capito; vi riverisco.
PANT. Servitor umilissimo.
OTT. Un affronto simile non mi è stato fatto da chi che sia.
PANT. Mi no intendo de farghe affronto. In casa mia, la me compatissa, no vôi suggizion.
OTT. Ma se io non ve ne darò.
PANT. Ma se no voggio nissun.
OTT. Ditemi almeno il perché.
PANT. Perché mo anca, co la vol che ghel diga, gh'ho do putte da maridar...
OTT. A proposito delle figlie da maritare, ho da parlarvi.
PANT. La parla.
OTT. Ma non adesso.
PANT. Quando donca?
OTT. Oggi, stassera.
PANT. Dove xela allozada?
OTT. In nessun luogo.
PANT. Oe, Brighella. Dove seu?
SCENA SESTA
Brighella e detti.
BRIGH. La comandi.
PANT. Inségneghe a sto signor dove xe l'osteria.
OTT. Ma io, signore...
PANT. La xe bona osteria; la vederà che la sarà ben trattada.
OTT. Dunque voi...
PANT. Sior feudatario, ghe son servitor. (In tel stomego). (da sé, e parte)
SCENA SETTIMA
Brighella e Ottavio.
OTT. (Ah! non mette conto di riscaldarsi per questo. Quando si vuol bene, si soffre). (da sé)
BRIGH. Se la comanda, la resti servida.
OTT. Dove?
BRIGH. All'osteria, signor.
OTT. Giudichi tu che i miei pari vadano alle osterie?
BRIGH. No so cossa dir, signor; so che alle osterie ghe van i primi signori, i primi cavalieri de rango.
OTT. Sì, alle locande, agli alberghi, non ad un'osteria da campagna.
BRIGH. E pur la me creda che i tratta ben, con civiltà e con pulizia.
OTT. Eh, non sapranno far niente di buono.
BRIGH. Basta spender, i fa de tutto.
OTT. Spender quanto? Una doppia al giorno?
BRIGH. Oh! assae manco.
OTT. Io non spendo meno.
BRIGH. Per quanti, signor?
OTT. Per me solo. Alla servitù do danari.
BRIGH. Veramente per una doppia al zorno non so se i g'averà tanto.
OTT. Vi sarà almeno un poco di salvatico?
BRIGH. Ho paura de no.
OTT. Sapranno fare salse, torte, pasticci.
BRIGH. Oh! de sta roba in campagna?
OTT. Queste sono cose che ci vogliono per un galantuomo.
BRIGH. Ghe son tanti galantomeni che fan senza ste cosse.
OTT. Il vostro padrone come si tratta?
BRIGH. Alla casalina, ma no gh'è mal. La so manestra, per consueto de risi o de pasta fina.
OTT. Sì.
BRIGH. La so carne de manzo, con un bon capon.
OTT. Buono.
BRIGH. Un rosto de vedèlo o de oseletti.
OTT. Ottimamente.
BRIGH. Un piatto de mezzo, che vol dir o un stufadin, o quattro polpette e cosse simili, el so formaggio, i so frutti.
OTT. Una cosa che va benissimo. Dite al vostro padrone che assolutamente voglio essere a pranzo con lui.
BRIGH. Ma no gh'è torte, no gh'è pastizzi, no gh'è salvadego.
OTT. Non importa. In un altro genere questo trattamento mi piace.
BRIGH. Ella è avvezza a spender una doppia al zorno.
OTT. La doppia che dovrei spendere all'osteria, la regalerò a voi. Fatemi restare a pranzo col vostro padrone.
BRIGH. La me vol donar una doppia?
OTT. Sì, ve la prometto.
BRIGH. No sarà per el desinar; sarà per qualcoss'altro.
OTT. Per che vorreste dire che fosse?
BRIGH. Son omo del mondo, sala, lustrissimo.
OTT. Bravo; con questi uomini mi piace assaissimo aver che fare. Se mai il signor Pantalone vi licenziasse, fate capitale di me.
BRIGH. Ghe n'ala bisogno de servitori?
OTT. Non ne ho bisogno: ne ho quattordici; ma quando mi capita un uomo di garbo, lo prendo per soprannumerario.
BRIGH. E cossa dala de salario, se è lecito?
OTT. Tutto quel che vogliono. Due doppie per il salario; sei zecchini per la panatica. Livrea, piccolo vestiario, gli spogli del mio guardarobe. Mancie ogni mese, ricognizioni quando servono bene, e gli avanzi della mia tavola, che qualche giorno costa cento zecchini.
BRIGH. (Oimei! troppa roba!) (da sé)
OTT. Giacché dunque avete capito, operate per me. Mi preme restare: non per la tavola, che non serve né meno per i miei servitori, ma per qualche altro fine; già mi capite. Portatevi bene con me, ch'io tratterò bene da mio pari con voi.
BRIGH. No la se dubita; la lassa far a mi.
OTT. Mi tratterrò in questi contorni, dove penso di comprare duemila campi. Intanto osserverò dove si può piantare un palazzo.
BRIGH. (una bagattella). (da sé) Lustrissimo, se la me pagasse da bever l'acquavita?
OTT. Sì, volentieri. (tira fuori la borsa e versa i denari nella palma della mano, mostrandoli con affettazione) Ecco qui la borsa delle piccole monete: prendetevi quel che vi piace.
BRIGH. La borsa delle piccole monete? Ghe son dei zecchini.
OTT. Tutte piccole monete: servitevi.
BRIGH. (Squasi, squasi, torria mi...) (da sé)
OTT. Animo.
BRIGH. Se togo un zecchin?...
OTT. Eh via, siete così timido? Tenete, così alla sorte. (gli dà una moneta, mostrando di non guardarla)
BRIGH. I xe do soldi, sala?
OTT. Amico, ci siamo intesi.
BRIGH. Sta moneda...
OTT. È vostra. Quel che ha fatto la sorte, sia ben fatto. Portatevi bene, e metteremo mano alla borsa grande.
BRIGH. Ma sta volta...
OTT. Se venissero qui i miei camerieri, i miei lacchè, i miei cocchieri, dite loro che sono poco lontano. (parte)
SCENA OTTAVA
Brighella, poi Traccagnino.
BRIGH. Mo son pur sfortunà! El tol a sorte della moneda e vien su do soldi. Ma ho paura che el ghe veda assae colla coa dell'occhio; el me par un boccon de dretto! Basta, se posso, vôi rischiar de vadagnar sta doppia. No gh'è altro che Arzentina che sia capace de far far el vecchio a so modo; e per mi pol esser che la lo fazza. So che piuttosto la me vol ben. Chi è costù che no lo cognosso?
TRACC. O de casa, se pol vegnir?
BRIGH. Vegnì avanti, galantomo; chi domandeu?
TRACC. Un tal sior Ottavio l'averessi visto?
BRIGH. L'è andà via giusto adesso; el pol esser poco lontan.
TRACC. Rèstelo qua a disnar?
BRIGH. Pol esser de sì e pol esser de no.
TRACC. Mi so ch'el sperava de sì.
BRIGH. Pol esser anca de sì. Chi seu vu, amigo?
TRACC. Mi son el so servitor.
BRIGH. In che grado? De camerier, de staffier, de lacchè, de cogo, de carrozzier? Che fegura feu con lu?
TRACC. Tutto quel che volè.
BRIGH. Come? Tutto quel che voio? Che incombenza è la vostra?
TRACC. De tutto quel che volè.
BRIGH. Mi no ve capisso.
TRACC. Son camerier, staffier, cogo, lacchè. Tutto, fora che cocchier, perché el patron no gh'ha carrozza.
BRIGH. Cossa diavol diseu? Nol gh'ha altri servitori che vu?
TRACC. Mo nol ghe n'ha altri lu.
BRIGH. Se el dise ch'el ghe n'ha quattordese, e po i sopranumerari.
TRACC. Sior sì, el dise ben, perché mi fazzo per quattordese servitori.
BRIGH. Mi resto de sasso. Cossa ve dalo de salario?
TRACC. Otto lire al mese.
BRIGH. Otto lire? Altro che do doppie! E per le spese?
TRACC. Do caraffine de vin, quattro soldi de pan, e sie soldi per el companadego.
BRIGH. Pulito. La livrea?
TRACC. Eccola qua, tacconada come che la vedè. Bandiera vecchia, onor de capitano.
BRIGH. Nol ve dà i spoggi del guardaroba?
TRACC. Oh, tutto quel ch'è in tel guardaroba, l'è tutto mio.
BRIGH. Ghe sarà della bella roba.
TRACC. L'è pien dall'alto al basso.
BRIGH. Pien de cossa?
TRACC. De tele de ragno.
BRIGH. Lo voleva dir, che parlevi con qualche misterio. L'è donca un poveromo el vostro patron.
TRACC. No l'è poveromo come i poveromeni; ma no l'è gnanca ricco come i ricchi. El xe cussì e cussì; ma nol vorria comparir cussì. Tra la testa e la scarsella el gh'averà centomile e dusento zecchini all'anno d'intrada. Taggiemo el numero a mezzo: dusento in scarsella e centomile in testa.
BRIGH. Bravo da galantomo. De che paese seu, amigo?
TRACC. Bergamasco.
BRIGH. Son bergamasco anca mi. Semo paesani.
TRACC. Ho gusto d'aver trovà un paesan. Se ve bastasse l'anemo de trovarme un patron!
BRIGH. No stè ben con quel che sè?
TRACC. Se mor de fame.
BRIGH. Con dusento zecchini d'intrada, un omo solo el poderia anca viver da galantomo.
TRACC. Sì, se nol li buttasse via in grandezze. Ogni anno el vol do abiti novi. È vero ch'el vende i vecchi, ma gnanca per la mità. El vol palco in tutti i teatri, per dir per le botteghe: ho palco per tutto; el s'inzegna po a vender la chiave, ma el ghe remette del soo. El zuna sie zorni della settimana, e po el spenderà sie zecchini a dar da disnar. El tol barca al traghetto e el ghe mette la livrea al barcariol, per dar da intender che l'è barca soa; e s'el spende sie, el dis che l'ha speso trenta; e quando nol ghe n'ha più, coi sie soldi che el m'ha da dar a mi, el magna ello, e mi, se vôi viver, bisogna che m'inzegna a far el facchin.
BRIGH. Stago fresco donca mi che el m'ha promesso una doppia.
TRACC. Per cossa ve l'alo promessa?
BRIGH. Ve dirò, semo paesani, se pol parlar. Credo che el sia innamorà in una delle mie patrone.
TRACC. Co l'è cussì, el ve la darà. Co se tratta de donne l'è generoso; e con tutte el fa l'istesso. Basta dir che mi, co ghe vôi cavar qualcossa, me metto una carpetta e una scuffia, e ghe cavo qualche lirazza.
BRIGH. Co l'è cussì donca bisogna procurar de servirlo.
TRACC. Staralo qua a desinar?
BRIGH. Pol esser de sì, ve digo. Ve preme anca a vu che el ghe staga?
TRACC. Caro paesan, ho una fame che no ghe vedo.
BRIGH. Andemo, vegnì con mi, che ve darò da magnar. Ma sarè avvezzo a cosse delicate. El vostro patron no magna altro che ragù, che pastizzi.
TRACC. Sì, l'è vero; anca ieri avemo magnà un pastizzo de farina zala. (parte)
BRIGH. Za a sto mondo no gh'è altro che boria, balloni da vento, grandezze de bocca e povertà de scarsella. (parte)
SCENA NONA
Florindo e Clarice.
FLOR. In questo io sono d'accordo col signor Pantalone. Mi piace la villa, come villa; e non farò mai città della villa.
CLAR. Ma stare in villa soli, senza praticare nessuno, è un volere inselvatichire.
FLOR. La solitudine è una bella cosa.
CLAR. Il discorrere qualche volta solleva.
FLOR. Io non parlerei mai con nessuno.
CLAR. Né meno con me?
FLOR. Con voi qualche volta.
CLAR. Chi ama davvero, vorrebbe sempre essere vicino alla persona amata.
FLOR. Basterebbe questo, perché non vi amassi più.
CLAR. Ma in che cosa passate voi il vostro tempo?
FLOR. Oh, non mancano cose da passar il tempo. La villa ne somministra bastantemente.
CLAR. Vi dilettate di fiori?
FLOR. Oibò! I fiori non mi piacciono. Sono cose da donne. Gli altri dicono che odoran di buono: a me pare che puzzino. Son belli per un poco, e poi passiscono. Oibò!
CLAR. Vi diletterete della caccia.
FLOR. Né meno. Che cosa mi hanno fatto i poveri uccelli, che abbia io d'ammazzarli per divertimento? Per mangiar non mi piacciono. Il loro canto m'annoia: io li lascio stare dove che sono.
CLAR. V'impiegherete dunque nella coltura delli terreni.
FLOR. Queste sono cose che le lascio fare ai villani.
CLAR. Ma che cosa fate? Sempre leggere, sempre studiare?
FLOR. Leggere, studiare? non son sì pazzo. Se non tratto coi vivi, molto meno voglio conversare coi morti. Per vivere non ho necessità di studiare. Farlo per passatempo non mi comoda. Io non ho altri libri in casa mia che il lunario.
CLAR. Fatemi la finezza di dirmi che cosa fate, come impiegate quelle ore che non vi vedo.
FLOR. Io le impiego benissimo. Vado a letto col sole, e col sole mi levo. M'alzo e fo una girata per i miei poderi. Vado intorno i fossi, porto meco del pane e do da mangiare ai ranocchi. Mi piace andar in un prato a cercar il trifoglio da quattro foglie. Mi fermo nella stalla de' bovi, perché mi piace assaissimo quell'odore. Mi diverto in vedere i villani a lavorar i campi, a potar le viti. Starò, per esempio, tre ore a pranzo col mio gastaldo, e ho piacere quando lo vedo briaco. Il giorno gioco alle pallottole da me solo; e quando vengo qui, s'intende che per amor vostro faccia uno sforzo grandissimo contro il mio naturale. Eccovi raccontato il mio sistema di vivere. Non do fastidio a nessuno, non mi curo di nessuno, e non m'importa che nessuno si curi neanche di me.
CLAR. Bella vita! bell'uso che fate del vostro tempo! Se sarò vostra moglie, seguiterete così?
FLOR. Io credo di sì.
CLAR. Nel vedervi soltanto, non mi credeva che foste così selvatico.
FLOR. Ora che lo sapete, regolatevi.
CLAR. Perché volete dunque ammogliarvi?
FLOR. Perché non ho nessuno; ho bisogno d'una moglie che mi assista e che mi governi.
CLAR. Durerete fatica a ritrovarla.
FLOR. Durerò fatica? Se non vi è altra abbondanza che di donne!
CLAR. Troverete qualche villana.
FLOR. Oh, io poi non faccio gran differenza da una donna a un'altra donna.
CLAR. Volete che ve la dica, che avete dell'asino?
FLOR. Ho per altro una cosa buona.
CLAR. E che cosa?
FLOR. Che non me ne ho a male di niente; anzi, quando mi sento criticare, ne godo e rido veramente di cuore. E vi dirò la ragione. Tutti al mondo hanno qualche pazzia: la mia è differente da quella di tutti gli altri; e siccome io condanno le altre, ho piacere che dagli altri sia condannata la mia.
CLAR. Eh già, siete di buon gusto in tutto. Hanno ragione, quando mi dicono che siete un uomo stravagantissimo.
FLOR. Sì, hanno ragione, l'accordo ancor io.
CLAR. Siete veramente un villanaccio.
FLOR. Benissimo, e così?
CLAR. Senza rispetto, senza civiltà, senza creanza.
FLOR. Vedete? Ora mi date gusto.
CLAR. E pretendereste ch'io fossi vostra moglie? Andate al diavolo.
FLOR. Se non sarete voi, sarà un altra.
CLAR. Tanghero, somaraccio. (forte)
FLOR. Sì, tutto quel che volete.
SCENA DECIMA
Argentina e detti.
ARG. Signori miei, che cos'è questo strepito? Questo è un fare all'amore all'usanza de' gatti.
CLAR. Già vi mancava la dottoressa, che venisse un poco a seccarmi.
ARG. Basta ch'io non secchi il signor Florindo.
CLAR. Come sarebbe a dire?
ARG. Perché, se ha d'ammogliarsi, non è dover che si secchi.
CLAR. Tu non parli, se non dici delle impertinenze.
ARG. Che cosa dice il signor Florindo? Questo matrimonio quando si fa?
FLOR. Per quel che sento, non si farà più.
ARG. No? Perché mai? Il signor Pantalone lo desidera, e s'ha da fare.
CLAR. Il signor Florindo vuol per moglie una contadina.
FLOR. Io non dico di volere una contadina; ma una donna che faccia tutto quello che piace a me.
ARG. Questa è una cosa giusta. La moglie s'ha da uniformare al marito.
CLAR. Sì, quando il marito non è di una stravaganza e di un gusto depravato, come il signor Florindo.
ARG. Per esempio, signor Florindo, come vorrebbe ella che si contenesse la di lei sposa?
FLOR. Alla buona. Senza ricci, senza tuppè, senza polvere sul capo.
ARG. Così spettinata, arruffata.
FLOR. Come si leva dal letto.
ARG. Benissimo; con innocenza; senza artifici. La signora Clarice starà benissimo.
CLAR. Pare a te, scioccarella, ch'io volessi andare così?
ARG. Perdoni, signora. (a Clarice) Favorisca, come vorrebbe che andasse vestita? (a Florindo).
FLOR. Positiva; senza cerchio, senza trine; né argento, né oro, né seta.
ARG. Vestita di mezza lana.
FLOR. Per l'appunto.
ARG. In verità la signora Clarice con questa semplicità parerebbe una stella.
CLAR. Tu ti burli di me, sfacciatella?.
ARG. Compatisca. (a Clarice) Circa alla conversazione signore? (a Florindo).
FLOR. La conversazione l'ha da far con me, e al più al più coi miei contadini.
ARG. Al più al più qualche merendina sotto d'un albero.
FLOR. Mi contento.
ARG. Ballare qualche furlana al suono di un cembalo.
FLOR. Via, qualche volta.
ARG. La signora Clarice...
CLAR. La signora Clarice è stanca di soffrirti. E voi, se non avete altra miglior convenienza, non fate conto di me. (a Florindo)
FLOR. Pazienza, se non averò voi, ne troverò un'altra.
CLAR. No, non la ritroverete.
ARG. Eh sì, signora, la troverà.
FLOR. La troverò.
CLAR. Ci gioco la testa che non la ritrova.
ARG. Giochiamo uno scudo che la ritroverà.
CLAR. Chi vuoi tu che lo prenda?
ARG. Lo prenderò io, signora.
FLOR. Eccola, l'ho trovata.
CLAR. Non potete sperar altro che una vil serva.
FLOR. Per me vi dico che tutte le donne son donne.
ARG. Sente, signora? Tutte siamo donne.
CLAR. Non vi è differenza dalla padrona alla serva?
ARG. Io sto a quel che dice il signor Florindo.
CLAR. E tu, indegna, lo prenderesti?
ARG. Lo prenderei, per liberar lei dal pericolo d'andar vestita di lana.
CLAR. Sei una temeraria. Il tuo ardire s'avanza a troppo. Metterti in confronto di una mia pari? No, non lo sposerai. Mio padre ha avuta per me la parola da lui. Odio le sue stravaganze, ma non soffrirò che mi faccia un affronto. Tu sei una pettegola. Florindo è un pazzo. Ma giuro al cielo, io son chi sono. (parte)
FLOR. Ridi, Argentina, che l'è da ridere. Ehi, hai tu detto da vero?
ARG. Perché no?
FLOR. Sai dove sto di casa. Se vieni da me, in due parole ti sbrigo. (parte)
ARG. Non lo prenderei se mi facesse padrona di tutto il suo. Ma ho piacere a far disperare la signora Clarice. Ella non può veder me, ed io non posso soffrir lei. In questa parte andiamo d'accordo. Mi preme all'incontro la signora Flaminia, e la servirò come va. Mi preme poi me medesima, e non perderò di vista l'interesse mio. Io l'intendo così. Rider di tutti, burlar quando posso. Farmi amar da chi voglio; e far crepar dalla rabbia chi non mi vuol bene. (parte)
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Cortile in casa di Pantalone.
Flaminia ed Ottavio.
FLA. No, signor Ottavio, non insistete, se mio padre non ve lo dice.
OTT. Vostro padre non mi conosce.
FLA. Non è per questo ch'egli non acconsenta che voi restiate. Ma voi sarete bene informato del suo difficile temperamento.
OTT. Credetemi, che a me è riuscito di render docili degli uomini molto più austeri di lui. Le mie parole hanno saputo far dei prodigi.
FLA. Questi prodigi con mio padre non li avete fatti sinora.
OTT. Perché non mi sono posto nell'impegno di farli. Per altro... vi dirò solo questa. Un marito il più geloso del mondo, persuaso dalle mie parole mi ha lasciato libero il campo, e ha disarmato tutte le trincere che custodivano la di lui moglie.
FLA. Bravo, signor Ottavio, vi dilettate di servir dama.
OTT. L'ho fatto per un semplice impegno. Per altro ne ho lasciato sospirar più di trenta, senza ch'io mi degnassi di rimirarle nemmeno.
FLA. Questa me la volete dare ad intendere.
OTT. No certamente. Io non fo per vantarmi. Sono uno che delle avventure non ne fo caso, e del mio merito non parlo mai.
FLA. Per altro questo vostro merito lo conoscete.
OTT. Io? sono anzi il maggior nemico di me medesimo. Ho di me una bassissima stima; mi considero l'uomo più immeritevole della terra. Ma... non saprei... a forza di esaltarmi, le persone mi mettono in qualche orgasmo. Chi loda la mia avvenenza, chi la mia umiltà, chi il modo mio di procedere. Chi parla de' miei natali, chi de' miei fondi, chi della mia condotta: m'empiono l'orecchie di lodi. In verità, credetemi... sono mortificato.
FLA. (Come si colorano i propri difetti! Lo conosco, e pure lo amo). (da sé)
OTT. Scommetto, che se un'altra volta parlo al signor Pantalone, l'incanto.
FLA. Lo voglia il cielo... Eccolo in verità. Lasciate ch'io me ne vada.
OTT. No, fermatevi; ho piacere che siate presente alla conquista ch'io son per fare del di lui animo.
SCENA SECONDA
Pantalone e detti.
PANT. Cossa feu, qua siora? (a Flaminia)
FLA. Niente, signore...
PANT. Andè via; andè in casa.
OTT. Trattenetevi, signora. Signor Pantalone, voi avete una figliuola che vi fa onore.
PANT. Grazie, patron; andè via de qua. (a Flaminia)
OTT. Prima ch'ella parta, permettetemi che vi consoli.
PANT. Coss'ala da dirme per mia consolazion?
OTT. Che fra quante dame, fra quante principesse ho trattato, non ho veduto la donna più ammirabile di vostra figlia.
PANT. (El me par un matto sto sior). (da sé)
OTT. (Vedete? Principia ad arrendersi. Ottavio non falla mai). (piano a Flaminia)
PANT. Gh'ala altro da dirme, patron?
OTT. Sì, signore, ho altre due o tre cose, che vi empiranno di giubbilo.
PANT. La me le dirà un'altra volta.
OTT. Signor no, voglio dirvele adesso.
PANT. (Oh poveretto mi! el xe matto senz'altro). (da sé)
OTT. Ascoltate. (a Pantalone)
PANT. La diga. (Vôi véder de cavarme colle bone: el me fa paura). (da sé)
OTT. La vostra figliuola è adorabile.
PANT. Gh'è altro?
OTT. Sì, signore. Merita una gran fortuna.
PANT. Ala fenio?
OTT. Signor no, sarebbe un peccato ch'ella si vedesse malamente sagrificata.
PANT. E po?
OTT. E poi, io mi esibisco di diventarle marito.
PANT. Ala fenio?
OTT. Ho finito.
PANT. (Non ho miga visto el più bello). (da sé)
OTT. (È vinto. Non vi è rimedio). (piano a Flaminia)
PANT. Xela contenta che parla anca mi?
OTT. Sì, parlate.
PANT. Ghe respondo, che gh'ho gusto che mia fia sia adorabile.
OTT. Bene.
PANT. Che me consolo che la merita una gran fortuna.
OTT. Innanzi.
PANT. Che la me fa un onor a domandarmela per muggier.
OTT. E poi?
PANT. E po, che no ghe la voggio dar.
OTT. Eh, ride il signor Pantalone; ride, scherza, si diverte. In campagna vi vuol brio, vi vogliono lepidezze. Bravo galantuomo. Bravo vecchietto allegro. Mi piacete assaissimo. Quando sarò vostro genero, fra voi e me saremo il divertimento di tutto Mestre.
PANT. La farà ella da buffon, e no mi.
OTT. Bravissimo, ecco un altro frizzo brillante. La signora Flaminia...
PANT. La signora Flaminia, che la vaga via de qua subito. (Flaminia vuol partire)
OTT. Eh no, signore...
PANT. Eh sì, patron. Anemo, digo: andè in casa. (a Flaminia)
FLA. (Parte senza dir niente)
SCENA TERZA
Ottavio e Pantalone.
OTT. Ma signora mia... (vuol seguitar Flaminia)
PANT. Con grazia, patron. (lo tira indietro)
OTT. A me?
PANT. A vu, sior, e se sè matto, andeve a far ligar.
OTT. Il rispetto che ho per un suocero, mi fa tacere.
PANT. Mi no so né de socero, né de socera. Andè a socerar in t'un altro liogo.
OTT. Signor Pantalone, voi non mi conoscete.
PANT. Come sarave a dir?
OTT. Ecco qui chi potrà dirvi chi sono. Ecco Argentina: domandatelo a lei.
SCENA QUARTA
Argentina e detti.
ARG. Eccomi, eccomi. Chi mi vuole?
PANT. Mi no ve chiamo.
OTT. Venite, cara Argentina, dite voi al signor Pantalone chi sono.
PANT. No gh'è sto bisogno...
OTT. Egli non ha per me quella stima, che ha tutto il mondo che mi conosce.
ARG. Ah signor padrone, sappiate...
PANT. No vôi saver gnente.
ARG. No, ascoltatemi.
PANT. Ve digo, che no ghe ne vôi saver...
ARG. Ed io voglio che mi ascoltiate.
PANT. Ma se...
ARG. Ma se, ma se... ascoltatemi... (irata)
PANT. Via, via, siora, no me magné, che v'ascolterò. (La xe una vipera, ma ghe vôi ben). (da sé)
OTT. (Costei ha del penetrante). (da sé)
ARG. Sappiate che il signor Ottavio è un cavaliere di una famiglia antichissima del regno di Napoli, discendente da quattro re.
OTT. No, no, non sono tanti.
ARG. Sì, è vero: non sono quattro re. Sono tre re, falla danari.
PANT. Vardè po, che i sarà tre fanti.
ARG. Egli è ricchissimo signore; avrà d'entrata all'anno centomila zecchini.
PANT. Bù! (imita colla bocca uno sparo) Varda la bomba.
OTT. No centomila zecchini; non tanto.
ARG. Quanto? Cinquantamila?
OTT. Non arrivano.
ARG. Trenta?
OTT. In circa.
PANT. No, cara fia, calè un pochetto.
OTT. Il signor Pantalone lo sa meglio di voi. I mercanti sono informati delle famiglie che hanno rendite grosse. (ad Argentina)
PANT. Tutto quel che la vol. Aveu fenio? Oggio da sentir altro? (ad Argentina)
ARG. Sì, signore. Avete da sapere che il signor Ottavio è virtuosissimo.
PANT. Via, me ne consolo.
OTT. Non dico per dire, ma son conosciuto; e se non fosse per vantarmi, vi direi che pochi arriveranno a saper quel che so io; ma non voglio far ostentazione...
ARG. Bravissimo. Sentite con che modestia egli parla di se medesimo. Un'altra cosa voglio dire al signor Pantalone.
PANT. Son stufo; no vôi sentir altro.
ARG. Avete da sentire anche questa.
PANT. Via, sentimo anca questa. (Custia la gh'ha el soravento, la me fa far tutto quel che la vol). (da sé)
ARG. Signor padrone: il signor Ottavio stamane è in disposizione di onorare la di lei tavola, e vossignoria si contenterà di accettarlo.
PANT. (Oh, questo po no). (da sé)
OTT. Che cosa dice, signor Pantalone?
PANT. Digo cussì...
ARG. Già non vi è bisogno nemmeno di domandargliele queste cose. Dice di sì a drittura.
PANT. Ve digo cussì...
ARG. Non importa al signor Ottavio, se voi non gli fate un trattamento magnifico.
OTT. Lo sa il signor Pantalone. Io son contento di tutto.
PANT. Ma no son miga contento mi...
ARG. Eh sì, va benissimo.
PANT. Lassème parlar in tanta vostra malora.
ARG. Che cosa volete dire? (con alterezza)
PANT. Che no lo voggio.
ARG. No lo voggio? A me no lo voggio?
PANT. Siora sì; chi xe el paron de sta casa?
ARG. Sì, il padrone siete voi. Io non posso obbligarvi a far una cosa che non volete, ma nemmeno voi potete obbligar me a far quello che non mi piace di fare.
PANT. Siora sì, el patron alla serva el ghe pol comandar.
ARG. Comandate alla vostra serva. Io da questo momento intendo di non essere più al vostro servizio.
PANT. Come?
ARG. Tant'è. Sapete chi son io?
PANT. Chi seu, siora?
ARG. Sono la cameriera di questo signor cavaliere.
PANT. Cossa?
ARG. Signore, mi prende ella al suo servizio? (ad Ottavio)
OTT. Sì, volentieri. Le ho le mie cinque donne. Vi prenderò per soprannumeraria.
ARG. Farò io la mezza dozzina.
PANT. Me maraveggio, patron, che la vegna in casa dei galantomeni a sollevar la servitù.
OTT. Io non sono capace di una minima azione, che non sia dell'ultima delicatezza. Non è vero ch'io abbia sedotta la vostra serva; non sono qui venuto per lei.
PANT. O per lei, o per altri...
ARG. Orsù, la riverisco. (scostandosi da Pantalone)
PANT. Cossa gh'è?
ARG. Serva sua. (come sopra)
PANT. Dove andeu?
ARG. «Tu ver Gerusalem, io verso Egitto».
PANT. Ti vuol andar via?
ARG. Gli uomini che non mantengono la parola, non li stimo, non li calcolo e non li voglio servire; mi avete promesso riceverlo, ed ora mi volete mancare?
PANT. Mi non ho dito...
ARG. Signor Ottavio, sono con lei.
PANT. Férmete, desgraziada.
ARG. Che volete da me?
PANT. No vôi che ti vaghi via.
ARG. Volete ch'io resti a pranzo?
PANT. Sì, resta a disnar.
ARG. E il signor Ottavio?
PANT. E el sior Ottavio...
ARG. Per la vostra cara Argentina. Il signor Ottavio resterà ancora lui. Non è egli vero?
PANT. No digo gnente.
ARG. Non mi basta. Avete da dire di sì, che resti.
PANT. Via, digo de sì.
ARG. Che resti.
PANT. Che el resta.
ARG. Avete sentito? (ad Ottavio)
OTT. Sono molto tenuto alle finezze del signor Pantalone; egli è pieno di gentilezza. (sostenuto)
PANT. (Se el gh'ha reputazion, nol ghe sta). (da sé)
OTT. Finalmente un uomo della sua sorte non poteva trattare diversamente. Rimango con un obbligo eterno alle sue esibizioni. (sostenuto, in atto di partire)
PANT. (El va). (da sé)
OTT. Ed io che desidero fargli conoscere qual capitale io faccia delle sue grazie, conoscendo anche il suo temperamento che non vuol soggezione, vado a cavarmi la spada ed a mettermi in libertà. (parte)
SCENA QUINTA
Pantalone ed Argentina.
PANT. Dove vala, patron? (gli vuol andar dietro )
ARG. Fermatevi, signor padrone.
PANT. Cossa gh'è?
ARG. Vi ho da parlare fra voi e me.
PANT. Aspettè che vaga...
ARG. Ma voi sempre volete fare all'incontrario di quello che dico io. Vedo che non mi volete più bene.
PANT. Se no te volesse ben, desgraziada...
ARG. Se mi voleste bene, vi premerebbe di sentire quello che vi ho da dire a quattr'occhi.
PANT. Se me preme! ma no vorria che quel sior... colle mie putte...
ARG. Vi preme delle putte, e non vi preme di me; e pure di me dovreste avere qualche premura.
PANT. Sì, cara Arzentina, te voggio ben. Parla, dime quel che ti me volevi dir.
ARG. Sappiate, signor padrone... (sospirando)
PANT. Ti sospiri? Cossa vol dir?
ARG. Voi non me lo crederete.
PANT. Sì, te crederò; parla.
SCENA SESTA
Clarice e detti.
CLAR. Signor padre.
PANT. Cossa me vegnìu a seccar? Cossa voleu?
CLAR. È vero che il signor Ottavio resta a pranzo con noi?
ARG. Sì, signora. È la verità.
CLAR. Io non parlo teco.
ARG. Ed io rispondo meco.
CLAR. (Temeraria!) (da sé) Dunque è vero ch'egli resta con noi? (a Pantalone)
PANT. Siora sì: xe vero.
CLAR. Bene; quando è vero questo, sarà anche vero che vi resterà il signor Florindo.
PANT. Per che rason mo?
CLAR. Perché io non devo essere da meno di mia sorella.
PANT. Cossa gh'intra vostra sorella?
CLAR. V'entra, perché il signor Ottavio è restato per lei.
PANT. No so gnente. Che el vaga via.
ARG. Che vada via? Dopo averlo invitato, che el vaga via?
PANT. Mi no l'ho invidà.
ARG. Chi gliel'ha detto che resti?
PANT. Ghe l'ho dito mi; ma savè come.
ARG. Dopo avergli detto che resti, che el vaga via? Che cosa dice la signora Clarice?
CLAR. Io non dico che vada via; dico bene che vi ha da restare il signor Florindo.
ARG. Oh, in questo poi la signora Clarice ha ragione.
PANT. La g'ha rason?
ARG. Sicuramente; ha ragione.
PANT. Vardè per la villa se ghe xe altri che voggia vegnir da mi.
ARG. Sì signore, vi è qualcun altro.
PANT. Chi, cara vu?
ARG. Il servitore del signor Ottavio.
PANT. Anca el servitor ha da magnar da mi? Mo perché? mo per cossa? Chi lo ordena, chi lo dise?
ARG. Argentina.
CLAR. Ecco chi comanda: Argentina.
ARG. Signora sì; questa volta faccio io. Non comando, ma persuado, convinco e faccio io; e che sia la verità, il signor padrone riceverà a pranzo con lui anche il signor Florindo, e non può fare a meno di farlo. Eccone la ragione. Qualcheduno dirà, se dà da pranzo al signor Ottavio, che lo fa per qualche secondo fine; così invitando anche l'altro, si dirà che fa un trattamento agli amici. Oltre di ciò il signor Florindo, sebbene è uomo selvatico, in questa occasione se ne avrebbe a male, se non fosse invitato. Il signor padrone, con un poco di minestra di più, soddisfa a tutte le convenienze, a tutti gl'impegni: salva il decoro, la politica, l'interesse. Soddisfa le figliuole e si fa un onore immortale. Ah? Che ne dite? (a Pantalone)
PANT. Veramente sta volta me par che abbiè dito ben. Siora sì; sarè contenta. Sior Florindo vegnirà a disnar con nu. (a Clarice)
CLAR. Ora non voglio che ci venga più.
PANT. No? Per cossa?
CLAR. Perché l'ha detto quella pettegola d'Argentina. (parte)
ARG. Ed io voglio che venga il signor Florindo.
PANT. Mo perché?
ARG. Perché non lo vuole quella pettegola di vostra figlia. (parte)
PANT. Tolè suso. Do matte, una più bella dell'altra. E intanto Arzentina no m'ha dito quel che la me voleva dir. L'ha tratto quel sospiro! Moro de voggia de saver per cossa che la sospirava. Gran barona che xe culìa, per farme far tutto a so modo; ma co se vol ben, se fa tutto. Gh'ho speranza che anca ella un dì la farà a modo mio. Dirò co dise i zogadori del lotto: Cento per el lotto, e una bona per mi. (parte)
SCENA SETTIMA
Camera in casa di Pantalone.
Ottavio e Brighella.
BRIGH. Me rallegro che la resti a pranzo con nu, lustrissimo.
OTT. Voi altri non sapete dir altro che illustrissimo.
BRIGH. (L'è pien de umiltà. Nol vol titoli). (da sé) Ghe dirò, signor, se procura de usar quei atti de respetto che ne convien.
OTT. Se verrete a stare con me, imparerete.
BRIGH. Signor sì. Farò quel che fa i altri.
OTT. (Sentendosi dire signor sì, fa dei contorcimenti di dispiacere)
BRIGH. Comandela qualche cossa, signor?
OTT. Niente, niente. È venuto alcuno de' miei servitori?
BRIGH. Signor sì, uno.
OTT. Qual è? Il cameriere, lo staffiere, il lacchè?
BRIGH. Tutto quel che la vol.
OTT. Come, quel che voglio?
BRIGH. Eh niente, védela; l'è quel che se chiama Traccagnin.
OTT. Sì sì, il buffone. Colui qualche volta mi fa ridere. Stamane fra le altre lo chiamo: Traccagnino. Eccellenza? Portami la cioccolata. Come la vuole vostra Eccellenza? calda o fredda?
BRIGH. Ah, lu mo, per esser buffon, el ghe dis Eccellenza.
OTT. Io m'arrabbiai stamane che non aveva voglia di scioccherie, e lo voleva caricare di bastonate. Mi sono venuti intorno, mi si sono buttati a' piedi i miei camerieri, i miei segretari, i computisti: Eccellenza, si fermi; Eccellenza, gli perdoni; Eccellenza, lo compatisca. Basta, gli ho perdonato.
BRIGH. (Adesso capisso. Altro che umiltà! Fumo tanto che fa paura). (da sé) Cara Eccellenza, ghe domando umilmente perdon se avesse mancà al mio dover... No saveva...
OTT. Che avete? Perché mi domandate scusa? Forse per non avermi dato dell'Eccellenza? Che importano a me queste freddure? Io non faccio pompa di questi titoli; non li curo, non me n'importa. Sono vanità, ostentazioni. Parlate, parlate con libertà.
BRIGH. Me rallegro, torno a dir, che vostra Eccellenza stia a pranzo da sior Pantalon.
OTT. Eh! non ho potuto dirgli di no.
BRIGH. Mi per altro la sappia che ho fatto pulito con Argentina, e ella, per farme servizio a mi, l'ha persuaso el patron. No so se vostra Eccellenza me capissa.
OTT. Basta: il signor Pantalone mi ha invitato. Non ci voleva restare. Ma sono tanto disgraziato, che avrebbero detto ch'io non ci voglio restar per superbia.
BRIGH. Donca la xe restada per far servizio a sior Pantalon?
OTT. Poteva far a meno per il padre di una persona ch'io amo?
BRIGH. E mi non averò nissun merito d'averla servida?
OTT. Vi son grato. Se vi occorre, comandate.
BRIGH. Me dala licenza che ghe diga una barzelletta, Eccellenza?
OTT. Sì, dite: divertitemi.
BRIGH. La devertirò donca. Me recordo, la perdoni, che l'ha avudo la bontà de dir che, se la restava qua a disnar, la voleva impiegar una certa doppia.
OTT. Pagare il pranzo al signor Pantalone? Sarebbe un'azione indegnissima.
BRIGH. No digo pagar el disnar al patron. Ma l'ha dito... me par... che la l'averia dada al servitor... La perdoni, védela, Eccellenza.
OTT. Non me ne ricordo.
BRIGH. Oh, me lo ricordo mi; l'è cussì, da so servitor.
OTT. Sarà così. (Son nell'impegno. La doppia non si può risparmiare). (da sé, tirando fuori la borsa)
BRIGH. (Chi è minchion, staga a casa). (da sé)
OTT. Voi dunque avete desiderato ch'io restassi commensale del vostro padrone. (tirando fuori la doppia)
BRIGH. Eccellenza sì.
OTT. Ed io in ricompensa della vostra attenzione, perché non si dica ch'io non abbia ricompensato con generosità qualunque servigio per piccolo ch'egli sia, ecco qui... (mostra la doppia)
SCENA OTTAVA
Traccagnino e detti.
TRACC. Sior patron.
OTT. Che c'è?
TRACC. Sussurri grandi.
OTT. Dove?
TRACC. In sta casa.
BRIGH. Coss'è stà?
TRACC. I grida tra el padre e le fiole; e ho sentido a dir el sior Pantalon: Donca alla mia tola no vôi nissun.
OTT. Nessuno? (ripone la doppia nella borsa)
TRACC. Nissun.
BRIGH. Eh, bisogna véder...
OTT. Sentiamo che cosa c'è. (in atto di partire)
BRIGH. Eccellenza.
OTT. Ci rivedremo. (parte)
SCENA NONA
Brighella e Traccagnino.
BRIGH. Eccellenza.
TRACC. Con chi parlistu?
BRIGH. Col to patron, che el me voleva dar una doppia, e sul più bello ti è arrivà ti, ti gh'ha parlà sulla man, e la doppia l'è andada in fumo.
TRACC. El gh'ha rason, se nol t'ha dà la doppia.
BRIGH. Per cossa?
TRACC. Ti lo burli.
BRIGH. Lo burlo? Come?
TRACC. Ti ghe dà dell'Eccellenza.
BRIGH. Mo ghe vala, o no ghe vala?
TRACC. Mi non ho mai provà.
BRIGH. Da mi el l'ha volesta.
TRACC. E ti ti ghe l'ha dada.
BRIGH. Per quel che la me costa!
SCENA DECIMA
Argentina e detti.
ARG. Animo, Brighella, presto, andate a mettere in tavola.
BRIGH. È vero che gh'è dei sussurri?
ARG. È accomodata ogni cosa.
BRIGH. Dìsnelo qua el sior Ottavio?
ARG. Sì; resta egli ed il signor Florindo.
BRIGH. Vado subito. (Finché la memoria l'è fresca, no perdemo de vista la doppia). (da sé, parte)
SCENA UNDICESIMA
Argentina e Traccagnino.
TRACC. El resta qua donca el me padron?
ARG. Sì, ve l'ho detto. Ci resta.
TRACC. Donca resterò anca mi.
ARG. Ma! ho paura che voi non c'entriate nell'aggiustamento.
TRACC. Chi l'ha fatto sto aggiustamento?
ARG. L'ho fatto io.
TRACC. Co l'avè fatto vu, zonzèghe un capitolo per el servitor.
ARG. Il vostro padrone vi darà danari, perché andate a mangiare dove volete.
TRACC. El me padron, adess che l'è in conversazion, nol se recorda gnanca che mi sia a sto mondo.
ARG. Bene: andate all'osteria; spendete, e fatevi rimborsare.
TRACC. Da chi?
ARG. Dal vostro padrone.
TRACC. Nol me dà un soldo chi lo picca. El spenderà dei zecchini per farse creder un signor grando; ma per el povero servitor nol gh'ha gnente de carità.
ARG. Poverino! vi compatisco. Ecco qui quel che fanno tanti e tanti di questi signori, che hanno più fumo che arrosto. Spendono tutto in grandezze. Abiti, trattamenti, divertimenti, e la servitù patisce, e non capiscono questa ragione, che la lingua dei servitori imbratta e lorda tutto quel lustro che per altra parte si fanno. Che importa il dire: da me si dà la cioccolata a chi viene? e i servitori cantano: non vi è vino, non vi è farina. Che serve il regalare per vanità, per fasto, quando i servitori si lamentano che non corre il salario? Credono che un bell'abito faccia onore, e dalla servitù si pubblica che si sta male di biancheria. Chi ha giudizio, fa quel che può; ma prima fa quel che deve. Meno boria fuori di casa, ma più sostanza in casa; perché non s'abbia a dire di loro, quello che si suol dire al pavone:
Belle penne, bel capo, e brutto piede:
Lo nasconde talor, ma poi si vede. (parte)
SCENA DODICESIMA
Traccagnino, poi Florindo.
TRACC. Evviva. Adesso che ho assicurà el disnar, stago ben. Me confido che in cusina gh'è el me paesan. Ma chi sa se in cusina arriverà gnente de quel della tola. Gh'è el me patron che el magna per quattro.
FLOR. Gran seccatura ha da essere oggi per me! Star a tavola un'ora con soggezione! Ma non ci sto. Dicano quel che vogliono, io non ci sto.
TRACC. Chi elo sto sior, che nol cognosso?
FLOR. Amigo, siete voi di casa?
TRACC. Per adesso son in casa.
FLOR. Fatemi un piacere: dite a questi signori che compatiscano, ch'io a tavola non ci voglio venire.
TRACC. Elo anca vussioria dei invidadi?
FLOR. Sì, ancor io; ma a tavola con soggezione, con compagnia, con donne, io non ci posso stare.
TRACC. Ala facoltà de sostituir nissun al so posto?
FLOR. Che vorreste dire?
TRACC. Se la podesse farme la grazia, che mi andasse per ella.
FLOR. Chi siete voi?
TRACC. Son el servitor de sior Ottavio.
FLOR. Figuratevi se quei superbi, se quelle delicatine di donne vi vorranno: non si degnano di gente bassa.
TRACC. Vussioria se degneravela?
FLOR. Io sì: mangio sempre con i miei contadini.
TRACC. Se poderave far una cossa.
FLOR. Che cosa?
TRACC. La se fazza mandar da magnar in cusina, che mi averò l'onor de servirla de compagnia.
FLOR. Se lo volessero, perché no?
TRACC. Son servitor, ma son galantomo, sala
FLOR. Sì, tutti gli uomini sono compagni. Io amo tutti ma non posso soffrire la soggezione.
TRACC. Con mi mo, védela, no son omo de suggizion. La se torrà tutta la libertà che la vol.
FLOR. Val più la sua libertà, che non vagliono tutti i tesor del mondo.
TRACC. Sior sì. Magnar fin che s'ha fame. Stravaccai sulla tola. Desbottonarse; desligarse le calze; cavarse le scarpe.
FLOR. Sì, questo è quel che mi piace.
TRACC. Bravo. Staremo ben insieme. Oh caro!
FLOR. Bevete bene voi?
TRACC. Mi sì; co posso, el me piase.
FLOR. Beveremo.
TRACC. Fin che la vol.
FLOR. E quando non si può più, si dorme.
TRACC. E se se indormenza a tola.
FLOR. Quello è il gusto
TRACC. Bravo, amigon.
FLOR. Bravo, camerata.
SCENA TREDICESIMA
Argentina e detti.
ARG. Che fa il signor Florindo, che non viene a tavola?
FLOR. Non vengo certo.
ARG. Ma perché, signore?
TRACC. L'è impegnà, védela.
ARG. Con chi?
TRACC. Con mi, padrona.
ARG. Eh via...
FLOR. Sì, cara Argentina. Mi faranno più piacere, se mi manderanno qualche cosa da mangiare con questo galantuomo.
TRACC. La s'arrecorda che semo in do. (a Florindo)
ARG. Signor Florindo, sentite una parola, che nessuno senta.
FLOR. Dite, dite.
ARG. No, nell'orecchio, che nessuno senta.
FLOR. Via, dite. (s'accosta all'orecchio)
ARG. Siete un bel porco. (forte)
TRACC. Mi non ho sentido.
FLOR. Non me n'ho a male di niente, io. Da Argentina ricevo tutto.
ARG. Via, dico, andate a tavola.
FLOR. Ma non sarebbe meglio che veniste voi da me con questo galantuomo...
ARG. Siete aspettato dal signor Pantalone.
FLOR. Avete pur detto che ci sareste venuta.
ARG. Se non andate, vi mando.
FLOR. Davvero. Ci ho del genio con voi.
TRACC. Anca mi gh'ho della simpatia co sta zovene.
ARG. Se avete genio per me, andate subito dal signor Pantalone; andate, vi dico, non me lo fate dire un'altra volta, che mi farete montar in bestia.
FLOR. Vado, vado; per amor vostro ci vado. Fo più stima di voi, che di quante cuffie ci sono. (parte)
SCENA QUATTORDICESIMA
Argentina e Traccagnino.
TRACC. E mi possio vegnir a disnar?
ARG. Perché no? Ve ne sarà ancora per voi.
TRACC. Andemo, donca.
ARG. Aspettate.
TRACC. Gh'è qualche difficoltà?
ARG. Non vi è difficoltà; ma vorrei una cosa da voi.
TRACC. Comandè; farò tutto. Per magnar non so cossa che no faria.
ARG. Voi avete dello spirito, mi pare.
TRACC. Qualche volta son spiritoso. Specialmente quando ho ben magnà e ben bevù, son spiritosissimo.
ARG. Vorrei fare una burla alla tavola dei padroni per divertirli: una di quelle burle che si sogliono fare in campagna con qualche bizzarria, con qualche travestimento. Siete buono voi di secondarmi? di far qualche figura graziosa?
TRACC. Se me insegnerè, farò.
ARG. Bene dunque, andiamo, che v'insegnerò.
TRACC. Ma prima magnar, per metterme in corpo del spirito, del coraggio, della disinvoltura.
ARG. Sì, sì, mangeremo. Venite con me. (Vo' divertir la conversazione, ma col mio secondo fine però). (da sé, e parte)
TRACC. Panza mia, parécchiete de far festa. (parte)
SCENA QUINDICESIMA
Sala con tavola apparecchiata.
Pantalone, Flaminia, Clarice, Ottavio.
PANT. Animo, patroni, a tola.
OTT. Perdoni, tocca alle signore donne.
CLAR. Se non viene il signor Florindo, non vengo a tavola né meno io.
PANT. Ti ghe vol un gran ben a sto sior Florindo.
CLAR. Non dico di volergli né bene né male. Ma in questa parte non ho da essere di meno di mia sorella.
FLA. Che pretensione ridicola! Starete male, sorella cara, col signor Florindo. In questo proposito, è un uomo tutto all'incontrario di quello che siete voi.
CLAR. Non me ne importa. Ha da venire a tavola.
PANT. El vegnirà. Intanto sentémose nu. Via, sior Ottavio, come forestier, la prencipia ella.
OTT. Il signor Pantalone mi vuol fare quel trattamento che mi hanno fatto cinque dame la settimana passata. Hanno voluto ch'io sedessi per il primo. Non lo volevo fare assolutamente, ed esse badavano a dire: la vostra nobiltà, il vostro merito, il vostro grado... Basta, io non l'ho fatto per questo, l'ho fatto per obbedire. (siede)
CLAR. Sentite la bella caricatura. (a Flaminia)
FLA. Verrà il vostro gentilissimo signor Florindo a far il maestro di cerimonie. (a Clarice)
PANT. Via, putte, sentève. (siede)
FLA. Eccomi. (vuol sedere presso suo padre)
OTT. No, madamigella, favorite: venite presso di me. (a Flaminia)
PANT. Eh, n'importa. Questo xe el solito posto.
OTT. Bene, verrò io dunque presso di voi. (va a sedere presso a Flaminia)
PANT. Sior Ottavio... no vorria...
OTT. A tutte le grandiose tavole dove io sono stato, mi hanno sempre collocato vicino alla padrona di casa. La marchesa di Coratella, la duchessa di Possidaria, la baronessa della Caligine, la principessa di Zona Torrida, tutte hanno voluto che stessi loro vicino.
PANT. Qua no ghe xe né la principessa del Caligo, né la principessa del Fumo. Se va alla bona.
OTT. Questo è quel che mi piace: alla buona. Son uno che non ha ambizione.
PANT. E vu, siora, ve sentèu? (a Clarice)
CLA. Oh via, ecco il signor Florindo. Giacché egli viene, verrò a tavola ancora io. (siede)
PANT. (Mi no so, se la fazza per amor o per pontiglio. Le donne no le se capisse; ora le xe da vovi, ora le xe da latte). (da sé)
SCENA SEDICESIMA
Florindo e detti.
FLOR. (Eh! figurarsi se io voglio sedere in mezzo a quelle caricature!) (osservando la tavola, si ferma indietro)
PANT. La resta servida, sior Florindo.
FLOR. Vi prego dispensarmi.
PANT. Come! no la ne vol favorir?
FLOR. Non ho volontà di mangiare.
PANT. Se no la pol magnar, pazenzia; tanto più valerà el nostro. La se senta per compagnia.
FLOR. Non sono pazzo io a venirmi a seccare.
PANT. A seccare? Come parlèu, sior?
FLOR. (Passeggia fischiando)
PANT. (Oh che tangaro!) (da sé)
CLAR. (Sento che mi si volta lo stomaco). (da sé)
FLA. Che dite della bella grazia del signor Florindo? (piano ad Ottavio)
OTT. Non gli si abbada. Mangiamo noi. (dà della minestra a Flaminia, e se ne prende per sé, e mangiano)
PANT. Sior Florindo, me maraveggio dei fatti vostri. Fina che ve piase l'economia, la libertà, el retiro, ve lodo: le xe cosse che le me piase anca a mi; ma ste inciviltà, compatime sior, no le xe cosse da par vostro, no le xe cosse da galantomo.
CLAR. Sono cose che non le farebbe un villano, un facchino, uno di quelli che guidano i porci.
FLOR. Non lo sapete il mio naturale? Io non posso soffrire la soggezione.
OTT. Venite, signor Florindo. Non abbiate soggezione di me. Son chi sono, egli è vero, ma finalmente siamo in campagna.
FLOR. Oh, se credete che mi prenda soggezione di voi, v'ingannate. Tanto stimo la vostra parrucca, quanto il mio cappello di paglia. Son qui. Sediamo, mangiamo. Che minestra c'è? Pasta? non mi piace. Io non mangio altro che riso.
PANT. Se no ve piase la pasta... (alterato)
FLOR. Zitto.
CLAR. Se mangiate il riso... (alterata)
FLOR. Zitto. Mangerò la pasta. (si prende della minestra)
SCENA DICIASSETTESIMA
Brighella e detti.
BRIGH. (Porta il lesso, e leva la minestra) Signor, i gh'è qua una dama che desidera vegnir avanti. (Voggio far muso duro per no scoverzer la burla). (da sé)
OTT. Una dama? (s'alza)
PANT. Chi ela sta dama? Cossa vorla?
OTT. Domanda forse di me? (a Brighella)
BRIGH. La domanda giusto de ella. (ad Ottavio)
OTT. Una dama che domanda di me? (pavoneggiandosi) Una dama domanda di me, signor Pantalone.
PANT. La vaga a véder cossa che la vol.
OTT. Dove volete ch'io vada? Per riceverla in casa vostra non vi è luogo miglior di questo. Vi contentate, signore, ch'io la riceva qui? (a Flaminia e Clarice)
FLA. Per me son contentissima. (Ho curiosità di vederla). (da sé)
CLAR. Io non mi prendo soggezione di chi che sia.
OTT. Fatela passare. (a Brighella)
BRIGH. Subito. (Arzentina ne farà rider con quel matto de Traccagnin). (da sé, e parte)
PANT. In casa mia son patron mi...
OTT. Sì, siete padrone; ma siete un galantuomo, un uomo civile. Le dame vi onorano. Vedete? per causa mia vengono ad onorarvi le dame. Dove son io, si qualifica anche una villa, una capanna, un tugurio. Alzatevi, signore mie. (a Flaminia e Clarice)
CLAR. Perché ci abbiamo d'alzare? Siamo a tavola, venga chi vuole.
OTT. Non signora; a me non s'insegnano le regole della cavalleria. Ehi, chi è di là?
SCENA DICIOTTESIMA
Brighella e detti.
BRIGH. La vien, la vien.
OTT. Presto. Levate di qui questa tavola.
PANT. Coss'è sto levate? Coss'è st'insolenza?
OTT. Mangeremo dopo, signor Pantalone. Levate, levate. (I servitori levano via la tavola, sollecitati da Ottavio. Tutti restano a sedere, fuori che lui)
BRIGH. Son qua. Leveremo. (parte)
PANT. La me par un'impertinenza. (s'alza)
FLOR. Questa la godo, da galantuomo. (resta a sedere)
OTT. Ecco la dama. È venuta per me. Incontriamola. (fa alzare Flaminia e Clarice)
SCENA DICIANNOVESIMA
Argentina vestita nobilmente da campagna, e detti; poi Traccagnino
vestito da cavaliere, con caricatura.
ARG. Permettono che le riverisca la contessa dell'Orizzonte?
PANT. Oe, Arzentina. (s'alza)
FLA. La burla è graziosa.
CLAR. Queste sono le dame che onorano il signor Ottavio.
OTT. Dov'è la contessa dell'Orizzonte?
ARG. Eccola al vostro cospetto. Cavaliere, sono io che vi riverisce.
OTT. Bravissima. Se non è dama, merita di esserlo. Ha dello spirito, della vivacità, del brio.
PANT. Cossa feu co sti abiti? Sémio de carneval?
ARG. Che vorreste voi che si dicesse pel mondo se un cavaliere di questo merito pranzasse un giorno senza una dama?
OTT. Dice benissimo. Questa è la prima volta. Non sarebbe mal fatto spacciar per la villa, che abbiamo a pranzo con noi la contessa dell'Orizzonte.
PANT. No basta che gh'avemo co nu el sior marchese della Tramontana?
ARG. Spiacemi, signori miei, che per mia cagione abbiano tralasciato il pranzo.
PANT. Se volè favorir anca vu, siora contessa de Gnao babao?
FLOR. Andiamo in cucina, signora contessa, che staremo con più libertà.
ARG. Io non sono qui per pranzare. Ma avendo sentito dire che le figlie del signor Pantalone devono maritarsi con questi due cavalieri...
FLOR. No, sbagliate. Una con un cavaliere, e una con un tangaro.
PANT. Coss'è sta novità? Mi no marido le mie putte né con tangari, né con cavalieri.
ARG. Basta; facciamo il conto che ciò sia vero.
PANT. Ma se no xe vero.
ARG. Non sarà vero; ma quando mai la signora Flaminia dovesse sposare un cavaliere di questa sorte...
PANT. Ve digo che no xe vero.
ARG. Ed io accordo che non sia vero. Ma dato che ciò fosse, ella deve essere istrutta di quelle cose che non sono a sua cognizione. Cavaliere. (chiama)
TRACC. Madama. (esce Traccagnino vestito da cavaliere, con caricatura)
OTT. Bravissimo! il mio buffone ci farà ridere: Argentina è una ragazza di spirito.
PANT. Vedemo donca sta comediola. Sentimo cossa che i sa inventar.
ARG. Conte, questa sera vado alla conversazione. (a Traccagnino)
TRACC. Non vi è bisogno che me lo dite. (pronuncia male il toscano)
ARG. Bene. A casa verrò tardi.
TRACC. Chi prima arriva, ceni, e vada a letto.
ARG. Ci troveremo sulle morbide piume.
TRACC. Pol essere ch'io non vi disturbi né meno.
ARG. Ho bisogno di denaro.
TRACC. Il fattore ve ne darà.
ARG. E se non ne ha, ne ritrovi.
TRACC. Se poi non ne avesse...
ARG. Se ne ritrova per voi, ne ha da ritrovare per me.
TRACC. Sì, madama, avete ragione.
ARG. Domani abbiamo a pranzo due cavalieri.
TRACC. Ed io vado a pranzo fuori di casa.
ARG. Dove?
TRACC. Oh bella! Vi domando io chi venga a pranzo con voi?
ARG. Avete ragione. Ho fallato il cerimoniale. Ho bisogno d'un abito.
TRACC. Servitevi dal mercante.
ARG. Quell'insolente non vuol dar altro, se non è pagato.
TRACC. Briccone! piantatelo, e andate da un altro.
ARG. Lo farò. Vi vogliono due cavalli.
TRACC. Li compreremo.
ARG. Dice il fattore, che non vi è fieno.
TRACC. Si può vendere una carrozza.
ARG. Si venderà. A rivederci. (in atto di partire)
TRACC. Dove andate?
ARG. Non lo so né men io.
TRACC. Chi vi serve?
ARG. Non si domanda.
TRACC. Avete ragione.
ARG. Voi restate?
TRACC. Parto anch'io.
ARG. Per dove?
TRACC. Non dico i fatti miei alla moglie.
ARG. Né io al marito.
TRACC. Siamo del pari.
ARG. Addio, conte.
TRACC. Schiavo, contessa.
ARG. Chi è di là?
SCENA VENTESIMA
Un Villano vestito da cavaliere, e detti.
VILL. Madama.
ARG. Favorite. (gli chiede il braccio)
VILL. Eccomi. (la serve di braccio)
ARG. Andiamo. (parte col Villano)
TRACC. Cavalier salvatico, servite bene nostra moglie domestica. (parte)
PANT. Bravi, pulito. Cossa dìsele, patrone? Ghe piase sta bella usanza?
FLA. Non mi piace, per dire il vero. Se io fossi nel caso farei di meno di molte cose, e anderei volentieri con mio marito.
OTT. Signora, voi vi fareste ridicola in poco tempo.
CLAR. Io all'incontro...
PANT. Vu all'incontro sè una mattarella, che facilmente ve uniformeressi al sistema de Arzentina. Ma ella, vedèu? no l'ha miga fatto sta scena, perché tolè sta cattiva lezion. La xe una putta de garbo, e no la xe capace de pensar cussì.
FLOR. E se voi, signora Clarice, pensaste di far tutto quello che ha detto fin adesso Argentina, trovatevi un altro sposo. Ve lo dico in faccia di vostro padre: voi non fate per me.
PANT. Sior Florindo in questo el gh'ha rason...
SCENA VENTUNESIMA
Brighella e detti.
BRIGH. Signori, un'altra imbassada.
PANT. Qualche altra dama?
BRIGH. Signor no. Una contadina.
OTT. Dove ci siamo noi, non vengono contadine.
FLOR. Oh benedette le contadine! Fatela venire, signor Pantalone.
PANT. Sentimo cossa che la vol. (a Brighella)
BRIGH. Subito la fazzo vegnir. (Goderemo sta seconda scena). (da sé, e parte)
OTT. Colla gente rustica non ci so trattare.
SCENA VENTIDUESIMA
Argentina vestita da contadina, e detti. Poi Traccagnino in abito da villano.
ARG. Patroni, bondì sioria.
PANT. Cossa fastu, mattazza?
ARG. I m'ha dito che sè da nozze. Son vegnua a consolarme.
PANT. Oh che cara Arzentina!
ARG. Mi no son Arzentina. Son Momoletta da Chirignago, fia de missier Stropolo da Musestre e donna Rosega da Mogian.
FLOR. Oh, quanto spicca più una donna in quell'abito!
OTT. Se prima sembravi un sole, ora tu mi sembri una larva. (ad Argentina)
ARG. Caro sior larva e l'arve. Mi no parlo con vu. Son qua per sior Florindo; voggio parlar con ello.
FLOR. Sentite? è venuta per me. Le contadine vengono per me, e le stimo assai più delle vostre madame.
PANT. (Custìa xe un gran spiritazzo; la parla venezian come se la fusse nata a Venezia. Xe assae per una forestiera).
ARG. Ve voleu maridar? (a Florindo)
FLOR. Può essere che mi mariti.
ARG. Co sta putta, nevvero? (accenna Clarice)
FLOR. Non so; potrebbe darsi.
CLAR. Credo di sì per altro.
ARG. Ben donca, se ve volè maridar, putti cari, imparè come che se fa co se xe maridai. Oe, marìo, dove seu?
TRACC. (Vestito da villano) Son qua, fia mia.
ARG. Marìo, stassera vegnì a casa a bonora.
TRACC. Sì ben, volentiera.
ARG. Se divertiremo vu e mi.
TRACC. Zogheremo all'oca.
ARG. Doman anderemo insieme al mercà.
TRACC. Sempre insieme. Marìo e muggier sempre insieme.
ARG. Compreremo una carpetta per mi, e da far una velada per vu.
TRACC. E coi bezzi alla man, la gh'averemo più a bon mercà.
ARG. I bezzi no li spendemo tutti. Tegnimose el nostro bisogno.
TRACC. Disè ben. Faremo pochetto, ma faremo coi nostri bezzi.
ARG. No voggio debiti.
TRACC. Che nissun ne vegna a batter alla nostra porta.
ARG. Alla nostra tola nissun ha da vegnirne a magnar le coste.
TRACC. Gnanca mi no anderò a scroccar da nissun.
ARG. Se vorremo ben.
TRACC. Goderemo la nostra pase.
ARG. Mi laorerò.
TRACC. E mi ve farò compagnia.
ARG. E nissun mormorerà.
TRACC. E nissun dirà mal de nu.
ARG. Vago in cusina a parecchiar da disnar.
TRACC. E mi magnerò colla mia Momoletta.
ARG. Vago, marìo. Voggième ben.
TRACC. Sì, cara, ve ne vorrò.
ARG. Oe. (chiama)
SCENA VENTITREESIMA
Un VILLANO ne' suoi abiti, e detti.
VILL. Son qua. Vorla che la serva?
ARG. Via de qua, sior martuffo. Mi no me serve altri che mio marìo. Andè a trar dell'acqua; portè delle legne; tendè a quei anemali, che mi no tendo a altri che a mio marìo. (parte)
TRACC. Sior sì, vu tendè alle vostre bestie, che mi tenderò alla mia. (parte, ed anche il Villano)
FLOR. Oh cara! oh benedetta! oh fosse almeno la verità!
PANT. V'ala dà gusto, patrone?
FLA. Mi pare che abbia parlato bene.
CLAR. E a me pare che abbia parlato malissimo.
OTT. Qual è quella donna che si volesse a una tal legge sagrificare?
FLOR. Peggio sacrificio è penare per far quello che non si può fare.
SCENA VENTIQUATTRESIMA
Argentina colla veste e la berretta da Pantalone, e detti.
ARG. Fermeve, siori, e no tarocché, che tutti gh'avè rason. Sior Ottavio va troppo in alto, sior Florindo el va troppo basso; e chi vuol le mie putte, vôi che el vaga per la strada de mezzo. Momola vol che el marìo sia un orso: la contessa dell'Orizzonte la vorria che el fusse una piegora; e mi digo che el marìo l'ha da far co fa i manzi, che sempre i laora compagnai, e no i va soli, se no quando i li porta alla beccaria. Flaminia xe troppo umile; Clarice xe troppo altiera. Sior Ottavio gh'ha troppo fumo; sior Florindo gh'ha del rosto, ma el lo lassa brusar. Saveu chi gh'ha giudizio? chi gh'ha prudenza? Pantalon dei Bisognosi. Nol xe omo che ghe piasa grandezze, ma no ghe piase gnanca l'inciviltae. Nol xe un armelin, come sior Ottavio, ma nol xe gnanca una piegora monzua, come sior Florindo. E saveu chi xe una putta de sesto, che me piase assae? Arzentina. Anca ella, poverazza, no la xe né altiera co fa un basalisco, né gnocca co fa una talpa: la gh'ha anca ella un no so che de mezzo, che me piase anca a mi. Sangue de diana! Sibben che so vecchio, la vôi sposar. Putte, destrigheve vualtre, che me vôi destrigar anca mi: e fe presto, perché no posso più star in stroppa.
El matrimonio è quello che consola
Zoveni, vecchi e quei de mezza età.
El zovene s'infiamma a una parola;
L'omo fatto vuol esser carezzà.
Ma più de tutti el povero vecchietto
Giubila, se qualcun ghe scalda el letto. (parte)
PANT. La m'ha incocalìo.
OTT. Io son rimasto sorpreso, quando ha sostenuto sì bene il carattere della dama. (parte)
FLOR. Mi ha innamorato, quando faceva la contadina. (parte)
FLA. Signor padre, avete inteso quello che ha detto Argentina? Se vi preme ch'io liberi la casa, disponete di me. (parte)
CLAR. Ricordatevi che s'avvicina l'inverno; se vi dispiace il letto diacciato, potete riscaldare il mio ed il vostro nel medesimo tempo. (parte)
PANT. Arzentina nol saria un cattivo scaldaletto; ma no vorria che, invece de scaldarme, la me brusasse. No so gnente; ghe penserò ancora un poco. Dirò co dise el lunario:
Quel che xe scrito in ciel succede in tera.
Amor xe orbo, e no xe maraveggia
Se un paron xe colpio da una massera. (parte)
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Argentina e Brighella.
ARG. Sì, senz'altro. Li ho persuasi tutti.
BRIGH. Me par impussibile che anca sior Florindo se reduga a recitar una parte in comedia.
ARG. Con lui, per dirla, ho fatto più fatica di quello abbia fatto cogli altri. Ma pure l'ho fatto giù. Lo sapete che, quando io voglio, faccio far la gente a mio modo.
BRIGH. Donca stassera se farà sta comedia.
ARG. Questa sera la proveremo. Poi un'altra volta si farà con invito.
BRIGH. Che comedia ela? Studiada o all'improvviso?
ARG. È una piccola commediola studiata. Ho dato la parte a tutti, ed è tanto breve, che in tre o quattr'ore che la studino, con un poco d'aiuto del suggeritore, spero saranno in grado di poterla provare.
BRIGH. Anca el padron ha da recitar?
ARG. Sì, anche lui.
BRIGH. Andè là, che ve stimo un mondo. Che parte faralo el padron?
ARG. Una parte da vecchio.
BRIGH. In venezian?
ARG. No, in toscano.
BRIGH. Oh, questa la vol esser da rider!
ARG. Io spero che la commedia tutta voglia essere ridicola.
BRIGH. Chi l'ha fatta?
ARG. L'ho fatta far io da una persona che non vuol essere nominata.
BRIGH. Che titolo gh'ala?
ARG. È intitolata I spropositi.
BRIGH. La pol esser bona. Gh'è dei caratteri?
ARG. Anzi è tutta caratteri.
BRIGH. Eli mo distribuidi ben, segondo l'abilità e el temperamento delle persone che li deve rappresentar?
ARG. Oibò! ho studiato che tutti faccino un carattere al loro temperamento contrario.
BRIGH. Compatime; la comedia in sta maniera la riuscirà mal.
ARG. Anzi sarà più ridicola. Le cose, perché diano divertimento, o hanno da essere buone buone, o cattive cattive.
BRIGH. Ma co le xe cattive le dura poco.
ARG. A me basta che si faccia una volta sola.
BRIGH. Per cossa v'è vegnù el capriccio de far sta comedia?
ARG. Per divertimento. Sono cose che in campagna si fanno; ma forse non sarà fuor di proposito il farla per un'altra ragione. Vedete, vedete il padrone che studia.
BRIGH. Eh Arzentina, l'è un pezzo che me n'accorzo, che sto nostro patron lo fe far a modo vostro.
ARG. Se mi riesce di farlo fare a modo mio in tutto, non sarà male per voi.
BRIGH. Basta. È tanti anni che son in sta casa.
ARG. Sì, caro Brighella, non dubitate.
BRIGH. El patron vien qua. Vado via.
ARG. Ricordatevi che voi avete da suggerire.
BRIGH. Volentiera. Farò quel che poderò.
ARG. Andate, e preparate i lumi, e tutto quel che v'ho detto.
BRIGH. Subito. (Bisogna tegnirsela amiga custìa, perché se la deventasse mai padrona... chi sa che no la vada meio per mi) (da sé, e parte)
SCENA SECONDA
Argentina, poi Pantalone.
ARG. Il padrone è un uomo che facilmente si dà alla malinconia. Bisogna tenerlo divertito; e colle barzellette può essere che mi riesca di fargli fare di quelle cose, che pensandovi sopra con serietà forse forse non le farebbe.
PANT. Arzentina, no faremo gnente. (con un foglio in mano)
ARG. Perché, signore?
PANT. Perché mi ste parole toscane le me fa rabbia, e no le posso imparar.
ARG. Fate torto a voi stesso, signore, a parlar così. Le vostre figliuole parlano pure toscano.
PANT. Elle le xe stae arlevae da mio fradello a Livorno, e per quello le toscaneggia. Ma mi, ve torno a dir, sti slinci e squinci no i posso dir.
ARG. Io che sono nata toscana, sentite pure che qualche volta mi adatto a parlar veneziano.
PANT. Vu sè vu; mi son mi; e no ghe ne voggio saver.
ARG. Vorrei veder anche questa.
PANT. No gh'è altro. Tolè la vostra parte.
ARG. Sì, ho sempre detto che per me non movereste un passo, non aprireste né meno la bocca. Bene, saprò ancor io regolarmi.
PANT. In sta sorte de cosse...
ARG. E poi dirà che mi vuol bene.
PANT. Lo vederè, se ve voggio ben.
ARG. Se mi volete bene, avete da far quella parte.
PANT. Mo se no posso.
ARG. Ed io voglio che la facciate.
PANT. Volè?
ARG. Sì, lo voglio.
PANT. Stimo assae, sto dir voglio.
ARG. Lo voglio, e posso dire lo voglio
PANT. Con che fondamento patrona, diseu sto voglio?
ARG. Sapete chi sono io? (altera)
PANT. Chi seu, siora?
ARG. Sono... la vostra cara Argentina.
PANT. E per questo?...
ARG. E per questo, il mio caro padrone, il papà mio caro, mi farà questo piacere: farà quella bella particina. Reciterà nella commedia, e darà questo piacere alla sua cara Argentina.
PANT. So, desgraziada, che ti me pol. Sì che farò tutto quel che ti vol. Sì, baronzella, parlerò toscano, arabo, turco; e in tutti i lenguazi de sto mondo te dirò sempre che te voggio ben. (parte)
SCENA TERZA
Argentina, poi Ottavio.
ARG. Oh, ero sicura che la faceva. Per me farebbe altro. E avanti domani spero che farà tutto.
OTT. Tenete la vostra parte. (con un foglio in mano)
ARG. Perché, signore?
OTT. Questa non è parte che mi si convenga. Ho recitato più volte in compagnia di principi e principesse, ho fatto sempre le parti da eroe; non posso adattarmi ad una parte di un uomo vile. Tenetela; non fa per me.
ARG. Caro signor Ottavio, ella non ha sentito tutta la commedia. Non può giudicare della sua parte.
OTT. Intendo benissimo. So quel che dico; e vi dico che non la voglio fare.
ARG. Signor Ottavio, brama ella per moglie la signora Flaminia?
OTT. Sì, Amore mi ha avvilito a tal segno. Per amore pospongo alla figliuola di un mercante il fiore della nobiltà.
ARG. Se vuole la signora Flaminia, ha da far quella parte.
OTT. Ma perché questo?
ARG. Tant'è: l'ha da fare.
OTT. La natura repugna.
ARG. L'umiltà è la virtù più bella degli animi grandi. Con questa ha da guadagnarsi la sposa; e s'ha da dire che il signor Ottavio ha condisceso a coprire sotto il manto dell'umiltà la grandezza de' suoi pensieri.
OTT. La farò. Sì, per questa ragione, Argentina mia, la farò. (parte)
SCENA QUARTA
Argentina, poi Florindo.
ARG. Anche questo è persuaso di farla.
FLOR. Come diamine volete ch'io faccia una parte di damerino?
ARG. In commedia si può far tutto.
FLOR. Non vi riuscirò, e non la voglio fare.
ARG. Vossignoria non sa niente. Pare a lei che la parte sia di un cicisbeo, di un damerino, di un affettato. Ma non è vero. Vedrà, sentendo la cosa unita, che tutte queste cose le pone anzi in ridicolo.
FLOR. Se la cosa fosse così...
ARG. È così senz'altro. Si fidi di me.
FLOR. Avvertite bene.
ARG. Stia sulla mia parola.
FLOR. Ma vi sono cose che mi fanno venir la rabbia dicendole.
ARG. All'ultimo poi avrà piacere.
FLOR. Mi proverò.
ARG. Andiamoci a preparare.
FLOR. Io non l'ho potuta imparare.
ARG. Il suggeritore l'aiuterà.
FLOR. Madama... v'adoro... permettetemi che io vi serva... Sono cose che mi fanno venire il vomito. (parte)
ARG. La commedia è distribuita così bene, che non può essere meglio. Veder rappresentare caratteri da persone che non li sanno sostenere, è una cosa da crepar di ridere. Se s'introducesse questo buon gusto, tutti i commedianti riuscirebbero a perfezione. (parte)
SCENA QUINTA
Brighella e Traccagnino vestito da Capitano Coviello.
BRIGH. Cossa fastu, vestido co sto abito da Cuviello?
TRACC. Lassame ire, foss'acciso, che songo lo Capetano Spaviento.
BRIGH. Anca ti ti reciti in te la comedia?
TRACC. No ti sa? Ho da far el prologo della comedia.
BRIGH. Eh via, matto, che no ti xe bon da far da Cuviello.
TRACC. Zitto, che i è in quella camera che i me ascolta. Tiò sta carta, e suggerisci pulito. Se fazzo ben, vadagno un piatto de maccaroni.
BRIGH. Farò quel che ti vol. Arzentina m'ha dito che suggerissa, suggerirò. Ma no ti gh'ha né figura, né disposizion da Cuviello.
TRACC. Eh caro ti, che ancuo no se varda ste cosse. Suggerissi e lasseme far a mi.
BRIGH. Suggerirò. Manco mal che semo in campagna. Ma de sti spropositi ghe n'ho visto anca in città. (si ritira per suggerire)
TRACC. Nobele udienza, songo qua benuto.
Songo benuto, nobele udienza.
Nobele udienza, songo qua benuto.
BRIGH. L'avè dito tre volte.
TRACC. Mi son de quei che replica senza che i sbatta le man.
BRIGH. Andemo avanti, sior Cuviello salvadego.
TRACC. Chissa commedia, che mo mo faremo,
È una commedia che ha principio e fine,
Perché s'auza la tenda, e poi se cala.
Bederete due donne 'nnamorate
Che se vonno incerar.
BRIGH. No incerar: inzorar, che vuol dir maridarse. Vedeu? co no s'intende se dise dei spropositi.
TRACC. E pur qualchedun riderà a sentir a dir incerar.
BRIGH. Via, tiremo de lungo.
TRACC. Li 'nnamorati
Hanno el schittolo...
BRIGH. No schittolo: schitto, che vol dir solo.
TRACC. Hanno schitto allo gnore favellato;
Ma chisso marevolo dello patre
No le bole inzorà. Venga lo cancaro.
M'hanno frusciato a me. Songo chi songo:
Songo lo Capetano Cacafuoco.
Chissa figura mia grande e terribile,
Chissa spata che taglia come un fulmene,
Tutto lo munno farà andar in cenere.
Canno lo patre non vorrà... etecetera.
BRIGH. Cossa gh'intra mo sto etecetera?
TRACC. Chisso della commedia è l'argomento.
Aggio finito, me ne vado via,
E schiaffo no saluto a bossoria. (parte)
SCENA SESTA
Brighella, poi Argentina e Flaminia.
BRIGH. Oh che martuffo! vardè se quella l'è figura da far una parte da spaccamonti!
ARG. Favorisca, signora, venga a principiar la sua scena. Brighella, tenete l'originale e suggerite. (gli dà un libro)
BRIGH. Da cossa fala sta signora?
ARG. Da pretendente e fastidiosa.
BRIGH. No l'è el so carattere: no la farà ben.
FLA. Lo diceva ancor io.
ARG. Suggerite, che anderà bene.
BRIGH. Benissimo, suggerirò. (si ritira)
ARG. A lei, signora: dia principio.
FLA. Vorrei maritarmi, ma non trovo nessuno che sia degno di me. Un quadro ed uno specchio sollevano i miei pensieri ad un'altezza sproporzionata. Veggo in una tela delineati i miei magnanimi progenitori. Riverbera in un cristallo la mia bellezza... Cara Argentina, queste cose le dico mal volentieri.
ARG. Zitto. Ecco il signor Ottavio. Non interrompete la scena. Suggerite. (a Brighella)
SCENA SETTIMA
Ottavio e detti.
OTT. Signora, se potessi aspirare all'onore della vostra grazia.
FLA. Se foste nobile veramente, avreste il merito di piacermi.
OTT. Porreste in dubbio la mia nobiltà?
ARG. Signore, la parte non dice così.
OTT. Come dice?
ARG. Sentite il suggeritore.
OTT. È vero che la mia nobiltà è miserabile... Saltiamola questa risposta.
ARG. La scena si ha da far tutta. Ricordatevi quel che vi ho detto. Da capo.
OTT. È vero che la mia nobiltà è miserabile. (freme) Ma la tenerezza dell'amor mio compensa moltissimo la bassezza dei miei natali... Questi spropositi non li posso dire.
FLA. Se conoscete voi stesso, umiliatevi dunque, e domandatemi per pietà ch'io mi degni di aggradire l'affetto vostro. Compatitemi...
ARG. Avanti, avanti.
OTT. Il prezioso dono della vostra grazia mi può render felice. Conosco di non meritarlo... (fremendo) E siccome sono stato in amore sfortunatissimo... Eh, che cento donne mi corron dietro.
ARG. Ma terminate di dire.
OTT. Così non sarà poca gloria per me, che vi degnate di soffrire la mia ignoranza... Non voglio dir altro.
ARG. Almeno terminate il periodo.
BRIGH. E la mia caricatura... (suggerendo)
OTT. Che cosa è questa caricatura? In me non vi è né caricatura, né viltà, né ignoranza. Son chi sono, e non voglio recitar altro. (parte)
SCENA OTTAVA
Argentina, Flaminia e Brighella; poi Clarice.
FLA. Non te l'ho detto? (ad Argentina)
ARG. Non importa. Andiamo alla scena seconda. Donna Aspasia, poi donna Lavinia.
FLA. Chi è questa donna Lavinia?
ARG. Dite quel che vi tocca dire. Suggerite. (a Brighella)
FLA. Se tutti gli uomini mi si prostrassero a' piedi, ancora non sarebbe bastantemente esaltato il mio merito. Che roba!
CLAR. Confesso anch'io che il vostro merito è singolare; ed io vengo cogli altri a tributarvi gli ossequi. (parla verso il popolo)
ARG. Signora, queste parole le dovete dire a lei.
CLAR. A mia sorella?
ARG. La parte dice così.
CLAR. Sarà il sentimento ironico.
ARG. Prendetelo come volete.
CLAR. La sorte vi ha colmato di grazie. Siete una persona adorabile. (lo dice con ironia)
FLA. Gradisco l'espressioni sincere del vostro labbro.
CLAR. Sarei fortunata, se potessi servire una persona di sì alto merito. (con ironia)
FLA. Se avrete per me del rispetto, averò per voi della compiacenza.
CLAR. Prego il cielo vi feliciti con uno sposo. (come sopra)
FLA. Ed io prego il cielo vi riduca in grado di meritarlo.
CLAR. In quanto a questo poi, lo merito più di voi.
ARG. Questo nella parte non c'entra.
CLAR. Se non c'entra, ce lo metto io.
FLA. Terminerò io la mia scena. Voi non avete prerogative per farvi amare. Siete umile per soggezione, e il vostro animo altiero vi renderà sempre mai sprezzata e derisa. (Questo l'ho detto di gusto). (parte)
SCENA NONA
Argentina, Brighella, Clarice; poi Florindo.
CLAR. Dice così la sua parte?
ARG. Sì signora, dice così.
CLAR. Chi è l'autore di questa commedia?
ARG. Non lo so nemmeno io, signora.
CLAR. Se lo conoscessi, gli vorrei insegnare a scrivere un poco meglio.
ARG. Tocca a lei, signor Florindo. (verso la scena)
FLOR. Eccomi qui. Madama, ecco un adoratore della vostra bellezza. (recita con isgarbo e caricatura)
CLAR. Voi mi adulate. So di non esserlo certamente. (si scuote fra se medesima)
FLOR. Permettetemi, che in segno di venerazione e di rispetto vi baci umilmente la mano. (Mi vengono i dolori colici). (da sé)
CLAR. Io non merito queste grazie. Non lo voglio assolutamente. (gli dà la mano)
ARG. Oh bella! La parte dice che non volete, e poi gli date la mano.
CLAR. La parte è una scioccheria.
FLOR. Disponete di me. Comandatemi. Soffrirò per voi ogni pena, ogni tormento, e la morte istessa. (ride fra sé)
CLAR. Lo dite voi da dovvero?
FLOR. Sì, vi amo. Ma non mi lascierei nemmeno pungere un dito.
ARG. Eh signori, la parte non dice così.
FLOR. Questi sono quei discorsetti, che fanno i comici sottovoce.
ARG. Tiriamo innanzi la scena.
CLAR. Se voi aspirate a volermi, vi giuro che mi sottometterò a qualunque legge per compiacervi. Fuori che a quella di vivere da villana.
FLOR. Ah madama, i vostri begli occhi... il brio che spira dalle vostre ciglia... il vezzo delle vostre purpuree labbra... Oimè! mi sento languire... mi sento ardere... Uh! che diavolo di roba è questa? (fa uno sgarbo a Clarice)
CLAR. Siete pazzo?
ARG. Tirate innanzi. (a Clarice)
CLAR. Voi siete adorabile. Siete il più gentile amante di questa terra. Il più dolce, il più amabile... il più asino che abbia veduto.
FLOR. Dice così la parte? (ad Argentina)
ARG. Non signore. È una cosetta che vi ha messo del suo. Concludiamo la scena.
FLOR. Sì, concludiamola. Mia cara...
CLAR. Mio bene...
FLOR. «Voi siete del mio cuor donna e sovrana.»
CLAR. «Siete di questo sen l'unico amore.»
FLOR. «Ma vuò far all'amore alla villana.»
CLAR. «Ma vi mando, stramando; e v'ho nel cuore.»
(Clarice e Florindo partono)
SCENA DECIMA
Argentina e Brighella.
ARG. Questa chiusa vale un tesoro.
BRIGH. Vedeu? Questo succede, quando le parte non son ben adattade alle persone che le deve rappresentar.
ARG. Sì; ma questo non succederebbe, se i rappresentanti fossero comici, e fossero in un teatro, dove sogliono dir tutto ciò che viene loro assegnato.
BRIGH. Anca i comici in teatro, se no i dis a forte la so intenzion, i la dis a pian; e se la parte no ghe gradisse, sotto vose i se sfoga.
ARG. Ecco il padrone. Ora viene la nostra scena. Suggeritela bene, perché questa mi preme assai.
BRIGH. Za la finirà come ha finido le altre. (si ritira)
SCENA UNDICESIMA
Pantalone e detti.
ARG. Venga, signor Anselmo, che mi preme parlar con lei.
PANT. Son qui, la mia cara gioia. Parlate pure con libertà. (pronunzia male il toscano)
ARG. Veramente considerando ch'io sono una povera serva...
PANT. Non abbiate soggezione per questo. Se il cielo vi ha fatto nascere serva, avete cera civile, e mi piacete più di una cittadina, di quelle che cercano i cicisbei cincinnati. Oh che fadiga!
ARG. Facendomi coraggio la di lei bontà... dirò... affidata alla sua gentilezza...
PANT. Via.
ARG. Pregandola sempre di perdonarmi...
PANT. Animo.
ARG. Sicura ch'ella possa avere dell'amore per me...
PANT. Mo via, destrigheve.
ARG. Questo destrigheve non c'entra.
PANT. Mo, se me fe star zoso el fià.
ARG. Dirò dunque, che la mia servitù...
PANT. Avanti.
ARG. Principia ad essere amore.
PANT. A mi. Siccome il cielo mi concede la grazia... no, no digo ben, la grazia di potere ricompensare l'amorevole servitù di una fanciulla civile cinosura di questo ciglio, così io son disposto, e pro... pro... proclive ad offerirvi la destra: non curando le ciarle dei sfaccendati, né la cecità delli cianciatori... ci ci cìo ci ci cìo ci ci cìo... «Son vostro, se volè, caro ben mio.»
ARG. Oh! questo non vi è nella parte.
PANT. Eh! se nol ghe xe, ghe lo metteremo.
ARG. Tiriamo innanzi la scena.
PANT. Fazzo una fadiga da can.
ARG. Voi dunque, signor Anselmo, non avreste difficoltà veruna di sposarmi?
PANT. No, cara fia, già ve l'ho detto.
ARG. Ma prima di sposarmi, dovreste collocare le vostre figlie.
PANT. È vero. Approvo il consilgio di collocare le filgie, perché vi è il perilgio di scompilgiare la mia familgia. Mo che diavolo de parole in il gio, il gia, che me fa mastegar la lengua.
ARG. Questa è una cosa che si potrebbe fare sul fatto.
PANT. Fazziamola, se pare a voi che si possa fare senza mettere le persone in orgasmo. Cossa diavolo vol dir orgasmo?
ARG. Attendete un momento, che ora sono da voi.
PANT. Dove andate, bella fanziulla?
ARG. Non mi dite bella, perché mi fate arrossire.
PANT. Sì, sè bella, e sè le mie raìse.
ARG. E questo non vi è nella parte.
PANT. Ghe lo metto mi.
ARG. Ora torno, signor Anselmo. (Bella cosa, che un matrimonio da scena si convertisse in un matrimonio da camera!) (da sé, e parte)
SCENA DODICESIMA
Pantalone e Brighella.
PANT. Custìa la xe molto furba. L'ha fatto sta scena col so perché. Ma la l'ha mo fatta con tanta bona grazia, che la m'ha coppà.
BRIGH. Sto soliloquio lo vorla dir? (a Pantalone)
PANT. Perché no? provemose. Tegnime drio, se fallo.
BRIGH. (Anca questo l'è un bel divertimento. Ma vedo dove ha da finir la scena per Arzentina). (da sé, e si ritira)
PANT. Cupido, se tu mi hai fatto una ferita nel cuore, tu puoi essere la medicina della mia cicatrice. È vero che l'è una serva, ma dice il poeta:
Ogni disuguaglianza amor uguaglia.
Io son vecchio... e non troverei...
BRIGH. Vecchio impotente... (suggerendo)
PANT. Quella parola no la voggio dir.
BRIGH. La parte la dis cussì.
PANT. E mi no la voggio dir.
BRIGH. El poeta se lamenterà.
PANT. El poeta nol sa i fatti mii; e da qua un anno el vederà che l'ha dito mal.
SCENA ULTIMA
Argentina, Flaminia, Clarice, Ottavio, Florindo e detti.
ARG. Grazie infinitissime a lor signori, se in grazia mia si contentano di terminare la commediola. Se sono disposti di dire l'ultima scena, può essere che questa dia loro maggior piacere. È benissimo concertata. Si assicurino, che so quel ch'io dico.
OTT. Atti di viltà non ne fo più certamente.
FLOR. Né io di caricatura.
CLAR. Caro signor Florindo, compatitemi, se nel terminare la scena vi ho trattato con poco garbo.
FLOR. Già lo sapete: io non me ne ho a male di niente.
CLAR. Questa, fra i vostri difetti, è una buonissima qualità.
PANT. (Sentì come che i parla franco toscan; e mi fazzo una fadiga del diavolo. (da sé)
ARG. Caro Brighella, fateci il piacere di suggerire.
BRIGH. Son qua: a sto poco de resto. (si ritira)
ARG. Caro signor Anselmo, se veramente mi volete bene, non avrete difficoltà a svelare in pubblico l'affetto vostro.
PANT. Sì, filgia, lo dico alla presenza di queste dame. Dise dame? (verso Brighella)
ARG. Sì, signore, dice così.
PANT. Za la xe una comedia. E alla presenza di questi cavalieri. Ah? (ad Argentina)
ARG. La commedia dice così.
OTT. E fuori della commedia, rispetto a me si dovrebbe dire così.
ARG. Finiamola, signor Anselmo, per carità...
PANT. E alla presenza di tutto il mondo, dico che a questa fanciulla, alla quale ho consacrato il mio cuore, volgio porgere in olocaustico la mia mano.
OTT. In olocausto vorrete dire.
ARG. Ed io, benché nata una serva, non ho viltà di ricusare la mia fortuna. Accetto il generoso dono del mio padrone, ed anch'io gli porgo la mano.
CLAR. Piano, signorina.
ARG. Questo piano non vi è nella parte sua.
CLAR. Ma non vorrei che bel bello...
FLA. A voi che importa? Terminiamo la scena. A chi tocca parlare?
ARG. Tocca a lei per l'appunto. (a Flaminia)
FLA. Cavaliere, poiché conosco che le nobili vostre mire sono uniformi all'altezza de' miei pensieri, credo che il cielo ci abbia fatti nascere l'uno per l'altro, e però fatemi il dono della vostra mano, che in ricompensa vi esibisco la mia. (ad Ottavio)
OTT. Eccola, mia principessa, mio nume.
CLAR. Adagio, signori miei.
ARG. Anche questo adagio ve l'ha messo, che non vi è.
CLAR. Questa scena non mi piace punto.
ARG. La finisca, signora; tocca a lei a parlare. (a Clarice)
CLAR. Sentiamo come conclude. Giovine prudente e saggio... A chi lo dico? (ad Argentina)
ARG. Al signor Florindo.
CLAR. Giovine prudente e saggio, accordo ancor io che l'affettazione sia ridicola in ogni grado, ma se voi foste disposto a moderare il vostro costume trovereste in me una sposa condiscendente.
FLOR. Tocca a me? (ad Argentina)
ARG. Sì, a lei.
FLOR. La cosa si può dividere metà per uno. Discendete voi un gradino dalle vostre pretensioni, mi alzerò io un poco sopra le mie; ed avvicinandosi le nostre massime, si potrebbero unire le nostre mani.
CLAR. Sono pronta a porgervi colla mia destra...
PANT. Adasio, pian, patroni. Adesso mo tocca a mi a dirlo.
ARG. Questo adagio, questo piano, non vi è nemmeno nella vostra parte. Lasciatemi terminar la commedia, che tocca a me. Signor Anselmo, voi mi avete data la mano: son vostra sposa; ad esempio vostro hanno fatto lo stesso quelle due dame coi loro amanti. Ecco, la commedia è finita. Voi non siete più Anselmo, ora siete il signor Pantalone. Un matrimonio che fatto avete con me per finzione, vi vergognereste di farlo con verità? Se mi avete sposata in toscano, mi discacciate voi in veneziano?
PANT. No, fia mia; anzi con tanto de cuor in tel mio lenguazo ve digo che ve voggio ben, e che ve dago la man e el cuor, no in olocaustico, né in fontanella, ma un cuor tanto fatto, schietto, sincero, e tutto quanto per vu.
ARG. Buono. Dunque fra voi e me siamo passati dal falso al vero, senza alcuna difficoltà. Perché dunque non succederà lo stesso di quattro amanti, che come noi hanno figurato nella commedia?
PANT. Mo perché lori...
ARG. Tant'è, la commedia è finita. Abbiamo ad essere tutti eguali: o tre matrimoni, o nessuno.
PANT. O tre, o nissun? Cossa diseu, putti?
FLA. L'ultima scena della commedia mi ha persuaso.
CLAR. Ed a me sono piaciute le ultime parole del signor Florindo.
FLOR. Che volete ch'io dica? Maritarmi voglio sicuramente, e voglio vivere a modo mio; tutto quello ch'io posso fare, si è soffrir qualche cosa da una consorte che non è nata villana.
OTT. Ed io, trovando in vostra figlia i sentimenti d'una eroina, la preferisco a cento dame che mi sospirano.
ARG. Ed io son certa che il signor Pantalone confermerà le nozze del signor Anselmo, perché la serva del signor Anselmo è la cara Argentina del signor Pantalone.
PANT. Sì; tutto quel che ti vol; farò tutto. Za che anca vualtri sè contenti, sposeve col nome del cielo, e ringraziè Arzentina, che a forza de barzellette, de bone grazie, col so spirito e col so brio, la s'ha contentà ella, la v'ha contentà vualtri, e pol esser che la me fazza contento anca mi.
OTT. Veramente Argentina è una Cameriera brillante.
ARG. Sì signori, io non mi picco di essere né tanto virtuosa, né tanto fiera; ma un poco di spirito l'ho ancor io per regolarmi nelle occasioni. Ho sposato un vecchio, e son certa che alcuni diranno che ho fatto bene, alcuni diranno che ho fatto male. Chi dirà: povera giovine! con un vecchio? È sagrificata. E chi dirà: bravissima. Un vecchio? la tratterà da regina. Alcuni diranno: non le mancherà il suo bisogno. Alcuni altri: poverina! digiunerà. Qualche ragazza mi condannerà, e qualchedun'altra averà di me invidia, e tante e tante, che hanno sposati dei giovinotti cattivi, si augurerebbono adesso di un vecchietto da bene.
Il ben del matrimonio dura tanto,
Quanto dura fra i sposi amore e pace.
Collo spirito e il brio fu sol mio vanto
Quel che giova ottener, non quel che piace
Ché vagliono assai più d'un parigino
I danari, i vestiti, il pane, il vino.
Fine della Commedia
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