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sabato 26 febbraio 2011

La responsabilità dell’interpretazione- di Strehler

1-01-1954
Discorso sul mestiere dell'attore

L’attore è il termine più chiaro, più esposto del fenomeno teatrale: per una certa collettività egli diventa il simbolo del teatro, lo compendia, ed in effetti egli è veramente il fulcro di trasmissione del teatro. Pare che tutti conoscano il Paradoxe sur le comédien di Diderot, e se si hanno dubbi sul valore di un “testo”, non se ne hanno sul valore di una interpretazione. Il tale attore recita bene, il tale attore recita male. È un giudizio comune e senza rischi, come se i termini secondo i quali un attore recita bene o male siano chiaramente espressi dentro di noi.
Eppure il fenomeno dell’attore, e di conseguenza quello dell’interpretazione, è uno dei più complessi del teatro. Ogni attore, in ogni epoca, si contrappone all’attore precedente e lo “riforma” sulla base della “verità”. Ciò che era o sembrava vero e semplice vent’anni addietro, è diventato retorico, enfatico vent’anni dopo. La collettività lo giudica sul metro della verità del “suo” momento storico: chi ne è fuori, recita male. Quindi non esiste una verità “unica”, per l’attore, da conquistare. Ogni “momento” ha una sua verità, una sua semplicità che si distrugge ben presto e diventa retorica ed enfasi il momento successivo. L’attore corre da una retorica ad un'altra retorica in una spasmodica corsa verso una “verità” scenica che non esiste, e che – secondo me – non può esistere, semplicemente perché contraria la teatro.
Nel comune giudizio, attraverso molte epoche storiche, l’arte dell’attore appare avulsa dal teatro drammatico. Il testo drammatico è un condizionatore di evoluzioni drammatiche nell’attore, le determina, le richiama, ma da questo attimo l’attore è autonomo. Proprio da queste considerazioni si crea il problema, per noi così angoscioso, dell’interpretazione. Proprio la considerazione appunto che l’attore, la recitazione dell’epoca successiva distruggono quella precedente, e il prendere atto che l’attore recita “sul” testo, o “nel” testo, ma non è mai “il testo”, porta a una serie di problemi ed interrogativi di estetica teatrale. Da una parte il testo che è una cosa, e dall’altra gli attori che fatalmente ne fanno un’altra cosa. Ecco nascere il concetto dell’eternità dell’opera di teatro, sempre valida, come sono tutte valide le sue migliaia di “interpretazioni” che si distruggono reciprocamente, perché ognuna di esse rivela un lato di quell’immenso poliedro che è l’opera d’arte. Cioè l’accettazione di un opera drammatica come di un qualcosa che ha mille facce, e per renderla operante, vitale, basta rappresentarne una o più e non tutte insieme, nello stesso tempo. Ecco cioè crearsi, in seno al teatro, una lotta, una negazione tra due termini fondamentali: il testo e l’interprete. Quasi che uno ostacoli l’altro. Ecco scindersi l’unità del teatro e divenire dialettica di opposti. Nel “teatro” l’attore, necessario, indispensabile perché il testo divenga, ha queste caratteristiche fondamentali: non è artista – non interpreta – non cerca la verità. Il problema che riguarda “l’arte” dell’attore è un problema che non ha mai toccato l’essenza del teatro. Originariamente si poteva intendere “arte” soltanto l’accezione di “mestiere”. Nel teatro esiste un solo artista: l’autore del testo drammatico. Esiste una sola vocazione: quella del poeta. Esiste una sola realtà drammatica: il testo. Tutto il resto – il complesso spettacolare, questo complesso non sostituibile, fondamentale perché il teatro si crei ed il testo non resti letteratura – è un problema di “mestiere,” non più di arte. E l’attore si iscrive in questa attività come l’elemento fondamentale. Esistono alcune costanti “teatrali” che si ritrovano trasformate nell’aspetto, non nella sostanza. Si tratta cioè di una certa identità di problemi e di impostazioni, quasi che ogni qualvolta il “teatro” brilla agli orizzonti di una civiltà, esso si presenti con le stesse caratteristiche originarie. E se il teatro appare un fatto unitario nella storia dell’uomo, è anche un fatto unico. Come lo sono alcuni processi fisici, vitali, fondamentali per l’uomo, che non possono essere soppressi o capovolti, pena la distruzione.
Uno dei fatti più sintomatici è quello della posizione “non d’arte” dell’attore. Si accetti la catalogazione fermandosi solo a tre momenti drammatici: il teatro greco, quello medioevale, il periodo che generalmente chiamiamo elisabettiano. In queste fasi, la problematica dell’arte dell’attore è fuori discussione. Certo, lo si circonda di un certo rispetto che non nasconde tuttavia una specie di disprezzo. Lo si considera un qualcosa di “infetto.” Ma, addentrandoci nella sostanza del problema, appare chiaro l’atteggiamento pubblico, in epoche drammatiche fondamentali, verso il comico. Eppure in questi momenti il teatro assume la sua forza, il suo aspetto di “catarsi assoluta.” In questo caso si compie una grave operazione spirituale, in cui si riversano le cloache dell’istinto, in cui si strappano i brandelli più segreti ed inconfessabili del profondo e si bruciano in un falò collettivo. Chi ordina questa operazione è il poeta, ma chi segue è l’attore. All’attore spetta questa funzione manipolatrice, egli si identifica con l’operazione e il contenuto dell’operazione. Non ci può essere sentimento di affetto e di stima verso chi si incarica di simili bisogni. Forse paura, ripugnanza, trasferita in disprezzo. Ma è paura ancestrale, paura dell’uomo per l’evocatore degli spettri, ripugnanza verso l’artefice, e specchio, di alcune catastrofi intime, che sono il retaggio dell’uomo. L’amore per l’attore comincia a nascere proprio nelle epoche di decadenza teatrale, in cui il fenomeno del fanatismo per l’attore, del divismo, dell’identificazione artistica dell’attore, raggiunge il parossismo proprio nel momento invece in cui l’attore comincia a nascere proprio nelle epoche di decadenza teatrale, in cui il fenomeno del fanatismo per l’attore, del divismo, dell’identificazione artistica dell’attore, raggiunge il parossismo proprio nel momento in cui l’attore non “impegna” più, perché il teatro non fa più paura, non travolge più nessuno. Tuttal’più commuove o diverte.
A parte queste considerazioni sul “disprezzo dell’attore, l’ignobilità del suo mestiere – diceva Jouvet: “Le métier de l’acteur a toujours quelque chose de sordide,” – nato a mio avviso proprio dal riconoscimento della posizione direi eroica di sacrificatore, il valore dell’attore, la stima portata all’attore, il successo dell’attore non gravita sul piano dell’arte ma su quello del mestiere. La caratteristica dell’attore, come ci è dato conoscerlo nella sua storia, è quella del mestiere; le sue preoccupazioni, le sue difficoltà, le sue conquiste, il suo talento (se parliamo di talento) gravitano tutti sulla “pratica” del suo mestiere, sul rituale, tecnico e no, del suo mestiere, sulle capacità esteriorizzanti e di comunicazione di un testo drammatico.
Esiste, quindi, un’arte dell’attore, sì, ma proprio nel senso che le dà, ad esempio l’attore cinese. Il significato, infatti, che questo tipo di attore può dare alla parola “arte,” è questo: Io so, per disposizioni naturali (natura, fisico), per disposizioni spirituali (attitudine al fenomeno teatro, disposizione naturale al teatro, “talento” quindi), per nozioni acquisite e in senso fisico e in senso mentale, esprimere vocalmente e plasticamente il testo drammatico che mi è stato affidato, attraverso la gamma immutabile ma quasi infinita del rituale rappresentativo su cui è fatto il teatro. Qui non si fa questione, dunque, di arte nel senso “romantico” della parola, ma di talento come disposizione a diventare “testo” in movimento e suono, disposizione e mezzi a disposizione (muscolatura, agilità, voce, caratteristiche di struttura fisica, dita, articolazione, inclinazione all’abbandono di sé, ai fatti ritmici e sonori, senso plastico e via dicendo), per “essere” il testo drammatico, non per “interpretarlo.”
Certo, l’esempio riguarda assai più da vicino la drammaturgia orientale che quella occidentale; ma l’attitudine mentale, da un certo punto di vista, è la stessa, e certo l’istrione greco, l’artigiano medioevale con la maschera del diavolo, il fanciullo elisabettiano nelle vesti di Giulietta, non avevano particolari preoccupazioni d’arte personali. Compito dell’attore nelle epoche teatrali era quello di far sorgere dietro di sé, al suono delle parole pronunciate, la figura incommensurabile, incontrollata e irrecitabile del personaggio-eroe, cioè dell’eternità. Egli ne stava sempre staccato.
Il momento in cui la preoccupazione dell’interpretazione entra in gioco, l’attore devia dalla sua formazione e diviene un ibrido, il teatro si spezza, il testo diventa opinabile, diventa disponibile, con mille facce possibili, perde la sua unità rappresentativa, nascono allora i drammi interpretativi, la soggettività, la oggettività dell’interpretazione. Accanto al poeta si pone un “altro” che cerca di capire e di esprimere ciò che il poeta ha voluto dire, si crea un altro piccolo poeta, o grande poeta (come fu talvolta il caso certi grandi attori e di certi registi della storia recente) che distrugge il testo, distrugge la totalità universale del personaggio drammatico per ottenere una più o meno frazionata e distorta visione fatalmente personale dello stesso.
Per lasciare integro e totale il testo, universale ed eterno il personaggio, occorrerebbe non interpretarlo, come sempre è avvenuto nelle grandi epoche teatrali. Non tentare di interpretarlo, pena il riportarlo fatalmente ad una più o meno dilatata quotidianità nel caso nostro, borghese su basi psicologiche. Poiché tale è la caratteristica del nostro momento. Per l’attore interpretare Edipo, Amleto, equivarrà oggi a riportare fatalmente il personaggio alla misura di una possibilità psicologica borghese, logica e circoscritta. Potrà gridare più o meno, sembrare eccessivo e “staccato,” giustificato e possibilmente logico e vero, umano o no, oscillerà sempre tra una distorsione romantica, di tipo ottocentesco (l’attore che assume la responsabilità del testo, che diviene lui solo tutto l’Amleto, l’Edipo) un modulo psicologico che tenterà di “giustificarsi” e commuovere. Che poi possa commuovere o riportarsi a una logica borghese un’entità drammatica quale Edipo è un fatto spiegabile solo con la considerazione che ciò che nel grande testo drammatico o nel personaggio riesce a commuovere o a toccare “oggi” sono alcune caratteristiche esteriormente emotive, quelle solo che i possono o si tenta di rapportare al nostro “modo” di essere, nel caso “romantico”: la foga, la generosità, il grido e la fatica dell’interprete come fatto fisico.
Ma nel momento in cui il personaggio “rompe” non si capisce più. Non ci riguarda più. E allora l’attore-artista tenta tutte le più penose giustificazioni logiche, le contorsioni più o meno retoriche per riportarlo all’umano. Cioè alla verità.
Ma – dicevamo – il testo drammatico (non l’attore in questo senso) non cerca la verità, o almeno cerca la verità ma non la nostra “particolare” verità. Cioè la nostra abitudine ai sentimenti fino ad un certo limite. La verità nel teatro è la caratteristica delle grandi epoche di decadenza teatrale ove l’unità estetica del teatro si perde e si fraziona in un processo di dissoluzione, come nel fenomeno del mimo: un uomo solo nello spazio che nella confusione delle lingue, nell’impossibilità universale di comunicazione, sul gesto crea dimensioni universali.

Strehler

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